UARAGNIAUN “Primitivo”

UARAGNIAUN “Primitivo”

UARAGNIAUN

“Primitivo” – Suoni dalla Murgia & Officina, CD, 2015

Realizzato con il contributo di estimatori ed amici con il crowfunding, ecco fresco di stampa il nuovo lavoro di Maria Moramarco, Luigi Bolognese e Silvio Teot ovvero Uaragniaun, uno dei più importanti ensemble in circolazione non solo per il profondo lavoro di ricerca sul territorio ma anche per la capacità di riportare nel nostro tempo melodie, testi, suoni e voci.

Negli anni Ottanta era ancora possibile nella Murgia Barese imbattersi in portatori della tradizione orale, e questo può dare solamente una vaga idea della ricchezza linguistica e musicale di quella terra; e come detto in apertura, Maria Moramarco ha lungamente e puntigliosamente girato in lungo ed in largo le contrade, le masserie, i villaggi, cercando e trovando testimonianze orali di una cultura che negli anni Settanta sembrava sparita. Gli Uaragniaun hanno lasciato questo materiale a sedimentare in qualche cassetto e finalmente, trovata la giusta chiave per riportarlo ai nostri giorni, hanno musicato ed arrangiato alcune delle perle di questo prezioso scrigno: ed ecco che “Primitivo”, il loro decimo album, ci presenta frammenti “primitivi” di una cultura orale che non c’è più vicino a composizioni nuove finemente cesellate, a suoni più contemporanei che ci fanno apprezzare la bellezza e l’importanza di tenere i piedi ben saldi nella storia popolare (il vecchio vitigno di copertina vuole essere il simbolo di questo).

Vincenzo Zitello, Daniele Di Bonaventura, Nico Berardi, Filippo Giordano, gli Uaragniaun di seconda generazione come Michele Bolognese e Nanni Teot danno il loro contributo a questo affresco musicale che ha tra i suoi momenti migliori – a mio modesto parere – la struggente “La furnesì”, lo strumentale “Racioppe” ed il canto narrativo “Giardenirre”.

Bellissimo. Uno di quei lavori nei quali diventa molto complicato distinguere tra il materiale tradizionale e quello originale. Io non ci sono riuscito.

Un altro piccolo segno di come il trio di Altamura rappresenti a pieno titolo la tradizione di questo splendido pezzo d’Italia.

DOMO EMIGRANTES “Kolymbetra”

DOMO EMIGRANTES “Kolymbetra”

DOMO EMIGRANTES

“Kolymbetra” – AUTOPRODUZIONE Records, 2014

PUBBLICATO DA FOLK BULLETIN, 2015

Di gruppi che a vario titolo propongono una sorta di viaggio nelle musiche del mare Nostrum ne ho ascoltati di recente parecchi, tutti propongono a livelli diversi una sorta di crociera virtuale con brevi soste nei porti e porticcioli più disparati senza un filo conduttore chiaro.

Questa seconda produzione di Domo Emigrantes viaggia su altri livelli e va oltre: c’è un progetto serio che si propone di andare alla ricerca delle testimonianze lasciate in Sicilia dai popoli e dalle loro civiltà che nei secoli l’hanno occupata, ci sono degli arrangiamenti omogenei e raffinati, una approfondita ricerca dei suoni e degli strumenti. Insomma, Stefano Torre, Filippo Renna, Donato Pugliese, Ashti Abdo e Lello La Porta assieme ad un nugolo di ospiti hanno confezionato un bel disco che, se promosso bene, non farà fatica a farsi apprezzare da stampa e pubblico. Dicono bene le note di copertina quando evidenziano che la Trinacria è sempre stata una sorta di calamita per tutte le civiltà che nei secoli si sono sviluppate nel Mediterraneo. E questo è il pretesto per Domo Emigrantes: fare avvicinare l’ascoltatore anche ad altre culture magari geograficamente più lontane come quella iberica e curda.

Suoni e sapori qui trovano “casa” nella lingua dialettale, attraverso un crogiuolo di strumenti, dalla zampogna a paro al saz al laud cretese, dalla chitarra battente alle percussioni “etniche”. Musiche tradizionali, musiche tradizionali con nuovi testi (Leucade) e viceversa (Canê Canê) e “Terra Matri”, una bella rilettura di “Lu me paesi” di Tony Cucchiara, un altro di quegli autori il cui repertorio andrebbe maggiormente valorizzato ed apprezzato. “Quannu pensu a lu paisi mea / in mezzu a li muntagni c’è sempre u suli / iu vurria turnari”, racconta Cucchiara: il sogno di ogni emigrante.

Concludendo uno dei gruppi più interessanti emersi dal panorama tradizionale – o di derivazione tradizionale – più recente, con i Trinacria, Niggaradio e Majaria Trio. Bel disco.

IL DIAPASON INTERVISTA ENRICO BREANZA

IL DIAPASON INTERVISTA ENRICO BREANZA

Sabato 30 gennaio, alla Fontana di San Pietro in Cariano, nella Valpolicella veronese, ci sarà il debutto di SOUNDFUL QUINTET, il nuovo progetto del compositore chitarrista veronese Enrico Breanza, del quale avevamo parlato in occasione della pubblicazione del CD Wise One con Cesare Valbusa e Gianni Sabbioni. Per capire meglio l’orientamento di questo nuovo quintetto gli abbiamo rivolto alcune domande.

  • Come è nata l’idea per questo tuo nuovo progetto?

Negli ultimi anni ho fatto esperienze con strumenti e strumentisti di area “classica”, in particolare archi. Mi piaceva l’idea di rivedere alcune mie vecchie composizioni con un arrangiamento nuovo, cameristico, e di scrivere musica nuova pensando già a queste sonorità. Nel frattempo mi è ritornato un amore potente per il Jazz, quindi questo progetto è orientato alla fusione di linguaggi e sonorità provenienti da questi due ambiti.

  • Quali strumenti e musicisti hai pensato di coinvolgere?

Ho coinvolto una violoncellista e una violinista con grande esperienza in ambito classico, ma con formazione ed esperienza anche Jazzistica: Paola Zannoni al violoncello e Maria Vicentini al violino e viola. E poi una sezione ritmica: Andrea Oboe, un giovane batterista molto promettente e il Maestro Attilio Zanchi al contrabbasso. Quest’ultimo non ha bisogno di presentazioni, perché è uno dei decani del Jazz Italiano.

  • Come hai elaborato gli arrangiamenti, e quali aspetti volevi valorizzare maggiormente?

Gli arrangiamenti sono nati attraverso un lavoro di esperienza diretta con gli archi. Le due musiciste collaborano da anni e mi piaceva l’idea che trovassero un loro “funzionamento” da sezione. Il Jazz trova posto in particolare nella disposizione all’improvvisazione.

  • Eseguite composizioni del tuo repertorio o hai composto nuovi temi e partiture specificatamente per questo “SOUNDFUL QUINTET?

Alcuni brani fanno parte del mio repertorio di composizioni, altri sono stati scritti per questo specifico progetto. Tutti gli arrangiamenti sono stati ripensati in funzione di questa nuova formazione.

  • La ritmica con Attilio Zanchi e Andrea Oboe mi sembra piuttosto orientata verso il jazz………

Si, perché il Jazz è un mio grande amore e volevo quel genere di approccio ritmico, quella disposizione tipica.

  • SOUNDFUL QUINTET si aggiunge ai tuoi altri progetti o ne va a sostituire qualcuno?

Soundful si aggiunge a tutti gli altri progetti. In un certo senso include ogni formazione “parziale” che potrà esibirsi con questi stessi musicisti. Duo, trio etc… Dunque è un progetto modulare, la continuità è data dalla mia musica, dall’approccio a cavallo tra classica e Jazz e da una disposizione di fondo all’ ascolto consapevole tra musicisti attraverso l’interplay.

  • Andrete in studio a registrare?

Me lo auguro, fa parte del progetto arrivare ad un “prodotto”.

  • Hai mai pensato al crowfunding per realizzare un CD per questo progetto?

Il crowfunding un meccanismo molto delicato. Può essere una buona idea, ma io preferirei trovare altre forme di finanziamento, dove è chiara la figura di chi produce, con oneri e “onori”.

SHARG ULDUSU’ “Dune”

SHARG ULDUSU’ “Dune”

SHARG ULDUSÚ’ 4et

“Dune” – ABEAT Records, 2015

Era un bel po’ di tempo che non ascoltavo la musica di Sharg Uldusu. Parecchio tempo. Diciamo dal 2004, dai tempi di “Sarevan”, nel quale Ermanno Librasi era accompagnato dal percussionista Darioush Madani e dal suonatore di saz, tar e bendir Fakhraddin Gafarov. Mea culpa.

Molto tempo è passato, cambiata è la formazione (ora è un quartetto con Ermanno Librasi ai fiati “etnici”, Max De Aloe all’armonica cromatica e bassa oltre che alla fisarmonica, Elias Nardi all’oud e Francesco D’Auria alle percussioni), ma la barra del timone indica la stessa direzione, costante verso “la stella d’oriente” (Sharg Uldusu in azero).

Questo “Dune” è il quarto episodio del gruppo di Ermanno Librasi, ed è un affascinante viaggio tra brani tradizionali e brani originali, tra temi popolari ed improvvisazioni modali di stampo jazzistico che a tratti ricordano le sonorità delle più significative registrazioni del libanese Rabih Abou Khalil per la Enja (“The Sultan’s Picnic”).

Una musica, quella di Sharg Uldusu, di rara bellezza e raffinatezza che catapulta l’ascoltatore ora nei suk, ora nelle più colte sale da concerto e nei lussureggianti giardini (Fil Hadika) del vicino Oriente: la lunga introduzione di oud di Kir Cicek, brano di tradizione turca, la breve ma suggestiva composizione per sole percussioni “E le stelle” di D’Auria, e la scrittura di Elias Nardi “Fil Hadica” (presente anche nel CD “Orange Tree” del suo quartetto pubblicato nel 2010, naturalmente con un diverso arrangiamento) sono i brani che vi segnalo per dovere di cronaca.

Un bel progetto che mi auguro abbia un seguito, visti gli assolutamente condivisibili elogi di riviste molto autorevoli come bloogfolk e Folk Bulletin. Io mi limito a consigliarvelo e magari, se la “stella d’oriente” dovesse passare dalle vostre parti………………….avete capito cosa intendo dirvi.

NASEER SHAMMA “Vjeie De Las Almas”

NASEER SHAMMA “Vjeie De Las Almas”

NASEER SHAMMA, SHARIF KHAN & SHABBAZ HUSSAIN

“Vieje De Las Almas” –  Pneuma Records 1250, 2011

PUBBLICATO DA FOLK BULLETIN, 2011

L’etichetta spagnola Pneuma, che di recente ha cambiato la distribuzione italiana passando all’Egea, ha tra le sue più recenti novità questo splendido CD che va al di là dei consueti sentieri musicali battuti, come quelli della pubblicazione delle Cantigas De Santa Maria o della musica Arabo Andalusa.

Ci troviamo di fronte ad un crocevia musicale raramente battuto, ad un “dialogo” tra due dei cordofoni tipici dell’Asia di cultura araba e di quella di cultura indiana: l’oud – definito da sempre il sultano degli strumenti – ed il sitar, solitamente protagonista della musica più colta di questa regione asiatica, accomunati anche dal grande spazio lasciato all’improvvisazione nella pratica di entrambi. Il tutto supportato dalle tabla “parlanti” del bravissimo Shabhaz Hussain, proveniente dal nord dell’India; importantissimo il ruolo che il percussionista indiano ha nello sviluppo della musica qui registrata nella quale il suo supporto è determinante quanto discreto, un valore che si aggiunge alla magnifica maestria dell’iracheno Naseer Shamma (questo è il suo terzo CD per l’etichetta di Eduardo Paniagua) e del pakistano Sharif Khan.

L’iracheno è anche compositore di tutta la musica qui presentata nella quale l’influsso della cultura araba è sì predominante, ma che grazie al suono ed alla capacità interpretativa ed imporvvisativa di Khan si arricchisce in modo sorprendente regalandoci una fusione culturale che nella realtà non esiste e che ognuno durante l’ascolto può interpretare a proprio piacimento.

Ciò che accomuna i tre strumenti – e lo scrive lo stesso Shamma – è il fascino dell’Oriente, la sua natura gentile, la sua filosofia e la sua anima. Io spero che questo incontro musicale possa diventare anche luogo per un amore reciproco nel quale questo possa elevarsi ancor di più. Il cammino verso l’incontro tra anime diverse non può essere altro che la musica.”

Come non essere d’accordo?

DINDUN “Majin”

DINDUN “Majin”

DINDÙN

“Majin” – Autoproduzione, 2014

PUBBLICATO DA FOLK BULLETIN, 2014

Sarà felice il buon Costantino Nigra di sapere che a più di un secolo dalla prima edizione del suo fondamentale “Canti popolari del Piemonte” – e parliamo del 1888 – c’è ancora chi ne studia a fondo i testi e li confronta con quanto di essi ancora sopravvive nella tradizione popolare dei nostri giorni aggiungendovi melodie raccolte sul campo o studiate in altre pubblicazioni. E sarà ancora più contento scoprendo quanto sia stato portato avanti questo prezioso lavoro di studio e di rielaborazione dagli autori di questo – a mio avviso – bellissimo e coraggioso “Majin”, ovvero la Alessandra Patrucco (voce), Marc Egea (ghironda e flauti) ed il pianista Angelo Conto: musicisti sì con profondo interesse nella cultura popolare, ma con frequentazioni anche in quelle contemporanea, oltre che nei mondi paralleli a quello musicali come quelli della danza o della poesia.

Insomma, considero questo disco una piacevolissima sorpresa che mi ha, ascolto dopo ascolto, rivelato da un lato la ricchezza del patrimonio che le generazioni passate ci hanno consegnato, e dall’altro l’originalità – e consentitemi – anche la genialità della proposta. De-banalizzare una melodia come “Il mio castello” e regalarle un respiro ampio e colto non è una cosa facile, soprattutto non è da tutti: il brano si apre con l’esposizione dell’arciconosciuta melodia ma di seguito voce, pianoforte e ghironda volano in un’altra direzione, verso orizzonti sorprendentemente attuali, costruendo un ponte che da una parte collega il passato e dall’altra fa solo immaginare la riva opposta.

Concludo citando altri due brani che mi hanno particolarmente impressionato – facendo torto però a tutti gli altri: “La soca” e “La bionda di Voghera” arrangiamenti quasi “minimalisti”, altre due perle di questo intelligente disco di esordio del trio Dindùn, gruppo che merita l’attenzione di quanti rivolgono le loro atenzioni alle musiche definite “di confine”.

SALVO RUOLO “Canciari Patruni ‘un è L’Bittà”

SALVO RUOLO “Canciari Patruni ‘un è L’Bittà”

SALVO RUOLO

“Canciari Patruni ‘Un E’ L’Bittà” – CONTRO RECORDS, 2014

PUBBLICATO SUL FOLK BULLETIN, 2014

Le cose le mette in chiaro subito Salvo Ruolo scrivendo sul retro di copertina che – Cambiare padrone non ti dà mai la libertà – parla del nostro west, della nostra epopea, di briganti e partigiani e di anarchici, di unità o malaunità come sostiene qualcuno e di quel Risorgimento in nome del quale si è dimenticato di dare voce ai più deboli. Da nord a Sud di questa Italia senza memoria”.

Sette storie che evidenziano la capacità narrativa di Salvo Ruolo e non solo questa. Anche gli arrangiamenti sono semplici ed allo stesso tempo efficaci e convincenti, insomma un lavoro interessante che si fa apprezzare anche per la capacità di stimolare l’ascoltatore ad approfondire i temi trattati ed anche di allargare l’interesse verso la storia italiana, soprattutto di quella risorgimentale ed in particolare di quella meridionale. Ma si sa, i libri di storia li scrivono i vincitori, ed un altro importante merito di Ruolo è appunto quello di “accendere” una scintilla in chi ascolta il disco.

“Passannanti” (trovate un bel video di questo brano su YouTube) ad esempio: racconta dell’anarchico Giovanni Passanante, autore nel 1878 di un fallito attentato al Re piemontese Umberto I. Fu catturato e condannato all’ergastolo e morì nel 1909 in un manicomio criminale dopo anni di detenzione in condizioni del tutto inimmaginabili. Per dire: era nato a Salvia di Lucania, un punto sulla carta geografica ma, essendo diventato un simbolo della ribellione contro i Savoia, lo stesso Re ne fece cambiare il nome in “Savoia di Lucania”; per la cronaca, un altro anarchico, Gaetano Bresci, riuscì nell’impresa di ammazzare il Re il 27 luglio del 1900. Oppure il brano di apertura “Malutempu”, la storia di Ninco Nanco (Giuseppe Nicola Summa), uno dei briganti più temuti di quegli anni; luogotenente di Carmine Crocco, fu giustiziato con il fratello nel 1864.

Non so, ma visto l’argomento mi viene spontaneo abbinare a questo bel lavoro il romanzo “I sentieri del cielo” del catanzarese Luigi Guarnieri, pubblicato da Rizzoli nel 2008: un autore che per lo stile narrativo e per le immagini che evoca mi ha ricordato il più crudo Cormac McCarthy.

 

www.salvoruolo.it

 

BUILLE “Beo”

BUILLE “Beo”

BUILLE

“Beo” – Crow Valley Music, 2015

I fratelli Vallely (Caoimhin, pianista e Niall, concertina), hanno utilizzato per la prima volta il nome “Buille” nel 2007, come titolo di un album registrato in compagnia di Paul Meehan e Brian Morrissey. Un album sorprendente, di purissima musica irlandese……………..di nuova composizione: su questa linea hanno proseguito il loro percorso musicale che li ha portati a pubblicare questo magnifico “Beo”, presentato naturalmente nella “tana del lupo”, ovvero la sede dell’Armagh Pipers Club in occasione della passata edizione del William Kennedy Pipers Club.

Un gruppo straordinario, quanto di meglio il panorama della tradizione irlandese possa offrire oggi, e questo per vari motivi. L’assoluta padronanza tecnica dei musicisti tanto per cominciare (oltre ai fratelli Vallely ci sono Brian Morrissey al bodhran, Kenneth Edge al sax soprano ed Ed Boyd alla chitarra), l’ispirazione in fase di scrittura dei due Vallely, la raffinatezza degli arrangiamenti – non è per nulla facile inserire il suono di un pianoforte acustico in un ensemble di questo tipo – e il coraggio, oserei dire la sfrontatezza, di inserire nel loro repertorio un brano come “In a silent way” di Joe Zawinul (pianista di un certo Miles Davis e co-fondatore dei Weather Report). E funziona, eccome se funziona: una delle più belle interpretazioni di questo classico del jazz elettrico, condotto dalla concertina e dal pianoforte con delicate pennellate delle percussioni che a metà si trasforma in una brano originale (“After the silence”) per ritornare alla melodia di partenza.

Dal vivo – e questo “Beo” è stato registrato magnificamente dal vivo a Ballyvourney – la musica dei Buille si ascolta in religioso silenzio, un folk cameristico (e non è un ossimoro) che ti fa venire la voglia di riascoltarlo ancora una volta, e poi un’altra……….. Cercatelo. Lo apprezzerete da subito.

 

http://www.buille.com

JUNE TABOR “Ashore”

JUNE TABOR “Ashore”

JUNE TABOR

“Ashore” – Topic Records, 2011

 PUBBLICATO DA FOLK BULLETIN, 2011

June Tabor. Con Norma Waterson e Maddy Prior è a nostro avviso la più vera e preparata delle cantanti della più pura tradizione folk britannica; con questo “Ashore” per la leggendaria etichetta Topic torna a pubblicare dopo quattro anni un lavoro che merita la lode piena. Se non altro per avere avuto il coraggio di registrare tredici tracce non solo con arrangiamenti davvero semplici quanto delicati ed efficaci ma anche proponendo un’interpretazione “a cappella” che stupisce per la bellezza ed intensità esecutiva. Insomma un disco che ci riporta a quegli anni in cui si preferiva puntare alla valorizzazione della semplicità della tradizione piuttosto che al tentativo di sfondare sul mercato discografico con arrangiamenti più accattivanti e non sempre interessanti.

Ma, a parte due magnifici strumentali condotti dalla fisarmonica diatonica di Andy Cutting (la danza Morris “I’ll go and enlist for a sailor” e “Jamaica” proveniente dalla raccolta seicentesca “The Complete Dancing Masters” di John Playford) è naturalmente la suadente voce di June Tabor la protagonista assoluta di questo “Ashore”. Due i brani che ci hanno colpito per la loro raffinatezza esecutiva: “The great Selkie of Sule Skerry” – proveniente dalla raccolta di Sir Francis Child (numero 113) e qui in una versione degli anni trenta -, uno struggente canto epico narrativo delle isole Orcadi che ci racconta di una delle figure della mitologia scozzese, il “silkie” (uomo sulla terraferma e foca in mare), con il canto accompagnato intelligentemente – quasi in sottofondo – dal pianoforte di Huw Warren e la “street ballad”, raccolta sia a Glasgow che a Dundee, “The Bleacher Lassie of Kelvinhaugh”, eseguita “a cappella” che consente di apprezzare totalmente la melodia del canto.

Il prestigioso “The Guardian” definisce “magnificent” questo nuovo lavoro di June Tabor. Come non essere d’accordo?

SUONI RIEMERSI. ALLMAN BROTHERS BAND “Idlewith South”

SUONI RIEMERSI. ALLMAN BROTHERS BAND “Idlewith South”

ALLMAN BROTHERS BAND

“Idlewith South, 1970. DeLuxe Edition” – UNIVERSAL MUSIC GROUP, 4CD, 2CD, 2015

Idlewith South è il secondo LP della band di Gregg e Duane Allman, pubblicato il 23 settembre 1970. Fu il primo album degli Allman ad entrare nella classifica di Billboard (19°) dopo le scarse vendite di quello d’esordio, e contiene brani memorabili che contribuirono nelle loro versioni live a creare la leggenda di questa band della Florida fino a pochissimi anni fa. Mi riferisco soprattutto a “In Memory for Elizabeth Reed”, tributo a Miles Davis composto da Dickey Betts, quasi sette minuti nella versione in studio e venti nella sua esecuzione dal vivo, una lunga jam che rende pieno valore ai musicisti di questa storica ed inimitabile band, ma anche a “Hoochie Coochie Man” di Willie Dixon ed a “Don’t keep me wondering” scritta da Gregg Allman con Duane alla slide guitar. Considerato da molti la migliore incisione in studio della band di Jacksonville, è in questa edizione accompagnato da parecchie alternate takes, ma soprattutto da due CD con una registrazione dal vivo dell’aprile dello stesso anno registrata al “Ludlow’s Garage” di Cincinnati. Un live, questo, edito prima come bootleg (2CD) dalla Swingin’ Pig nel 1989 e come disco ufficiale l’anno seguente, a mio avviso sullo stesso piano del mitico Live at Fillmore e che certamente non mancherà nelle discoteche dei fans della band dei fratelli Allman. Il quarto CD presente nel cofanetto contiene l’immancabile versione BlueRay di Idlewith South.

Di questo CD ne è stata pubblicata anche una versione meno DeLuxe con 2 CD.

Personalmente quoto sempre la versione originale dei dischi, quella voluta dai musicisti al tempo della registrazione e pubblicazione. Amen.