DALLA PICCIONAIA: BLUES MADE IN ITALY 2017

DALLA PICCIONAIA: BLUES MADE IN ITALY 2017

Sabato 07 ottobre 2017
di Alessandro Nobis

Un consiglio: trovate il modo di tenere sabato 7 ottobre completamente libero, diciamo dalle 10 della mattina. Percorrete la famigerata 434 direzione Legnago ed imboccate l’uscita per Cerea. Parcheggiate nei pressi dell’Area Expo ed immergetevi per una quindicina di ore nella musica con a disposizione 4000 metri quadrati (l’ingresso è libero) con 3 palchi, 50 artisti e 60 espositori, ovvero tutto ciò che ha a che fare con la musica del diavolo suonata e prodotta in Italia. Siete così capitati nel bel mezzo dell’ottava edizione del raduno “Blues made in Italy”, la più importante italiana kermesse dedicata completamente a questo genere musicale. Dal  1980 di strada ne ha fatta parecchia – diciamo tanta – se è vero, come è vero, che nella passata edizione più di cinquemila persone hanno frequentato i vari spazi espositivi e naturalmente le aree riservate ai concerti e workshop. E’ una rassegna, quella organizzata da Lorenz Zadro e compagnia bella, che ha tutti i numeri per richiamare appassionati anche dall’estero e non mi stupirei troppo se anche da oltreoceano qualche addetto ai lavori facesse capolino a curiosare nell’area ex industriale. Insomma, è il posto giusto per fare un annuale check-up al blues italiano che dai tempi dei mitici Roberto Ciotti e Fabio Treves di passi ne ha fatto moltissimi, visto che sempre di più sono i musicisti che si legano – una volta è per sempre – alla musica blues con un livello qualitativo molto interessante. Per conoscere musicisti e gli eventi collaterali potete navigare nel sito www.bluesmadeinitaly.com, per saperne di potete leggere l’intervista che Lorenz Zadro ci ha rilasciato qualche tempo fa: https://ildiapasonblog.wordpress.com/2017/06/28/il-diapason-intervista-lorenz-zadro/.

Per tutto il resto, ci si vede a Cerea sabato 7 ottobre.

E, come diceva Rudy Rotta, “Life is Blues eand Blues is Life”.

 

 

 

Pubblicità

FRANCESCO ALEMANNO 5tet “The Nearness of you”

FRANCESCO ALEMANNO 5tet “The Nearness of you”

DODICILUNE RECORDS Ed373, CD, 2017
di Alessandro Nobis

C’è una corrente quanto meno ortodossa all’interno del movimento jazzistico secondo la quale suonare brani considerati “standard” sarebbe un inutile esercizio di stile che darebbe inevitabilmente risultati inferiori all’originale; ce n’è un’altra, opposta, secondo la quale i jazzisti dovrebbero sempre comporre nuova musica per rinvigorire e perpetuare la musica afroamericana. La verità naturalmente sta nel mezzo – come spesso succede – e la musica proposta dal quintetto del batterista e band leader Francesco Alemanno si muove appunto su questi piacevolissimi territori: composizioni originali ed interpretazioni di brani scritti da autori scelti con grande cura che un ruolo importante hanno avuto sia come autori che come esecutori. Come i poco conosciuti e frequentati pianisti Ray Bryant e Columbus Calvin “Duke” Pearson Jr. ad esempio, o il leggendario ed inimitato trombettista Clifford Brown per citarne tre: riletture di gran rispetto e di ottimo livello, swinganti, un be bop compatto e di grande presa sull’ascoltatore grazie agli arrangiamenti e naturalmente anche al talento dei compagni di Francesco Alemanno: Marco Vaggi al contrabbasso, Antonio Ciacca al pianoforte, Jesse Davis al sassofono e Andrea Sabatino alla tromba. E le composizioni vanno in quella direzione, come “Dizzy’s” e la trascinante “Watch the Steps” di Ciacca e “Way To Brixia” (“la strada per Brescia”) di Alemanno.

Sì sono italiani, sì suonano be-bop – e bene – e sì, hanno inciso un gran bel disco. Qualcosa in contrario?

SYUSI BLADY “IL PAESE DEI CENTO VIOLINI”

SYUSI BLADY “IL PAESE DEI CENTO VIOLINI”

PIEMME VOCI, 2017. Pagg. 344, € 18,50
di Alessandro Nobis

Esterno: argine del torrente Cròstol, pomeriggio inoltrato.

Piano Medio: una ragazza è intenta a raccogliere essenze vegetali per preparare i decotti. All’improvvisano passano correndo a perdifiato due uomini (tali Carpi Mauro e Frizzi Arturo) con due strumenti a tracolla inseguiti a breve distanza da due Dragoni Ducali.

Una scena che potrebbe essere l’inizio di un film dei Fratelli Cohen, ma che invece rappresenta l’inizio di un interessante volume scritto da Maurizia Giusti a.k.a. Syusy Blady nel quale si narrano le vicende di Santa Vittoria di Gualtieri, vicende che in centocinquant’anni hanno fatto conoscere questo piccolo centro del reggiano come “Il Paese dei Cento violini”. Si parte dalla prima metà del diciannovesino secolo e si arriva ai primi anni Sessanta quando prima il “Boogie Woogie” e poi il “rock’n’roll” – e poi la musica non suonata dal vivo – costrinse praticamente a mettere la parola “fine” alle “sale da ballo” così frequenti in quella parte della valle del Po’ mettendo in crisi tutti i musicisti che avevano come prima o seconda attività il suonare accompagnando il ballo. Qualcuno smise di suonare, qualcuno ritornò a fare il bracciante a tempo pieno e qualcun altro diventò insegnante, come Arnaldo Bagnoli.71VFvsd6PNL

E durante la lettura mi sono venuti in mente anche Domenico Anselmi a.k.a. “Minci”, fisarmonicista della montagna veronese anche lui come i violinisti di Santa Vittoria bandito da preti e arcipreti a causa del loro suonare durante le ore dei divini uffizi o anche solamente nelle feste popolari e per questo era chiamato “il campanar del diaolo” e le saghe di famiglie come quelle dei Rowsome e dei Vallely – irlandesi – e degli Watson e Seeger – americane – che dovremo sempre ringraziare per aver saputo nei decenni salvaguardare e rinnovare un repertorio di tradizioni che avremmo altrimenti perduto.

L’autrice racconta in modo appassionato, consapevole e credibile del “ieri” e dell’”oggi” in brevi capitoli che ho personalmente visto come una raccolta di acquerelli, di nitide fotografie nei quali si cela un modo di microstorie che andrebbero raccontate nelle aule delle scuole: quella dei due amici suonatori che attraversano di nascosto il confine con l’Impero Asburgico portandosi gli strumenti di lavoro (non la carriola o la vanga, ma il violino), o quello dove si narra dei moti e dei morti (257) per la tassa sulla carne macinata del 1868 e quella di quando, ai nostri giorni, Ivonne Bagnoli apre il baule “del tesoro” con un fiume di spartiti manoscritti del nonno.

Sì, si legge tutto d’un fiato questo importante volume, divulgativo, storicamente ben documentato che si rivolge – avendone tutte le qualità e potenzialità – al grande pubblico dei curiosi e degli addetti ai lavori che avevano fino ad oggi a disposizione il solo “Socialismo a passo di valzer: storia dei violinisti braccianti di Santa Vittoria” di Carmelo Mario Lanzafame, diventato quasi introvabile.

Ma fortunatamente la storia non finisce dove finisce la narrazione, continua grazie agli spartiti dei Bagnoli, alla voglia, alla bravura ed alla passione dei “Violini di Santa Vittoria” che con il loro spettacolo (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/06/12/dalla-piccionaia-i-violini-di-santa-vittoria/) ed il loro cd (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/04/29/i-violini-di-santa-vittoria-denominazione-dorigine-popolare/) fanno conoscere nel migliore dei modi la tradizione violinistica così particolare di questo angolo del reggiano. Che possa perpetuarsi bel tempo.

 

IL DIAPASON INTERVISTA MARCO PASETTO DELLA STORYVILLE JAZZ BAND

IL DIAPASON INTERVISTA MARCO PASETTO DELLA STORYVILLE JAZZ BAND

IL DIAPASON INCONTRA MARCO PASETTO DELLA STORYVILLE JAZZ BAND

Raccolta da Alessandro Nobis

A partire dal 28 settembre nella programmazione del JazzClub che si tiene al Cohen di Verona, in Via Scarsellini, protagonista fisso dell’ultimo giovedì di ogni mese sarà il prestigioso ensemble della Storyville Jazz Band, uno degli ensemble più apprezzati dal pubblico e dalla critica specializzato nella riproposizione del jazz dei primi decenni del Ventesimo Secolo. Guidata dal clarinettista ed arrangiatore Marco Pasetto, riproporrà la formula che l’aveva vista protagonista al Posto di Luciano Benini, qualche lustro fa, ospitando nelle sua classica line-up un prestigioso ospite, una formula questa che si era dimostrata vincente per la qualità del repertorio proposto e per la capacità dei vari ospiti di inserirsi in un ensemble affiatatissimo come la Storyville. Considerato il livello della proposta, non mi sono fatto scappare l’occasione di rivolgere qualche domanda al M°  Marco Pasetto per conoscere un po’ l’attività del gruppo.

  • Marco, negli anni la Storyville ha saputo costruirsi una reputazione a livello nazionale per la professionalità e per la capacità di presentare repertori della musica afroamericana troppo spesso relegati, mi sento di dire, quasi ad un ruolo folcloristico. Quale è stato il percorso che avete seguito?
  • Con la Storyville siamo partiti 31 anni fa con Gianni Romano fondatore. Ci propose di leggere degli arrangiamenti in stile New Orleans, Dixieland, Blues e Rag-time. Siamo partiti dalla lettura, anche se le improvvisazioni erano libere. Il sound iniziale era compatto ed efficace.
  • Qual è il vostro approccio verso il jazz che presentate, è filologico oppure, visti anche i tuoi molteplici interessi musicali, più libero e, rispetto agli arrangiamenti, più creativo?
  • Dal 2001 è partita una formazione con nuovi componenti: Gino Gozzi alla batteria, (al posto del compianto Luciano Zorzella) Sandro Gilioli alla tromba, (al posto di Beppe Zorzella) Giordano bruno Tedeschi al trombone, (al posto di Marco Brusco e Lino Bragantini) Renato Bonato al banjo (al posto di Gianni Romano). In questi anni abbiamo lavorato su due fronti: uno stile filologico attraverso un sound New Orleans più improvvisato. Progetti e collaborazioni strutturate come Jazz Menu (Ricette veronesi in jazz con Giorgio Gioco e Roberto Puliero), Anni Ruggenti con Marco Ongaro, Back to Traditional con Giorgia Gallo.
  • Sei riuscito a raggiungere il “suono” che pensavi quando il gruppo si è costituito?
  • Il sound lo creano le persone con le quali collabori, il loro modo di fraseggiare, la loro personalità, la sezione ritmica, è un lavoro lungo e particolare, molto stimolante, non finisce mai.
  • Chi sono oggi i componenti del gruppo?
  • Sandro Gilioli alla tromba, Giordano Bruno Tedeschi al trombone, io al clarinetto, Renato Bonato al banjo, Mario Cracco al basso tuba, Gino Gozzi alla batteria e Giorgia Gallo alla voce.
  • L’idea di presentare un ospite ogni ultimo giovedì del mese aveva già riscontrato un buon successo anni fa, come ho scritto in apertura, al Posto. Ma dal punto di vista esecutivo, suonare con un ospite non sposta l’equilibrio della band che si deve in qualche modo “adattare” al nuovo venuto? Quali sono le difficoltà ma anche le soddisfazioni di questi incontri?
  • Un ospite solitamente arricchisce la parte solistica improvvisativa, l’arrangiamento e l’esposizione del tema, che rimane invariato, per fortuna ci siamo abituati al confronto fin dagli inizi con Ruud Brink, Tony Scott, Franco Cerri, Gianni Basso, Enrico Intra, Dado Moroni, Renzo Arbore, Paolo Tomelleri, Gianni Sanjust, Lino Patruno, Hengel Gualdi, Rudy Miliardi, Emilio Soana, Cheryl Porter e molti altri. Ognuno di questi grandi musicisti ci ha insegnato qualcosa, nel suonare insieme e nel gestire le improvvisazioni, i collettivi. L’aspetto più prezioso, però a mio avviso, è stato passare con loro del tempo, sentire delle storie di vita incredibili di esperienze creative.
  • Quali repertori affronterete di conseguenza?
  • Suoneremo dei classici del jazz tradizionale fino al primo swing di Ellington. Mi piacerebbe proporre gradatamente il repertorio di Sidney Bechet, un grande artista che impersona la gioia, lo spessore e la musica di New Orleans, anche se passò gli ultimi anni di vita a Parigi, diffondendo il jazz tradizionale in tutta Europa.
  • Ci puoi raccontare dei primi ospiti che avrete al Cohen a partire da giovedì 28 settembre?
  • Il primo ospite sarà Walter Ganda; un maestro dello stile ritmico New Orleans, porterà una batteria Slingerland Radio King restaurata del 1937, una perla da vedere e ascoltare. Walter ci ha insegnato a suonare più correttamente il jazz tradizionale grazie alla sua preparazione meticolosa imparata a New Orleans. Con lui abbiamo inciso il nostro ultimo cd.
  • A questi concerti al Cohen è legato anche un progetto per un’incisione discografica?
  • Sì, ci piacerebbe fermare questi concerti attraverso delle registrazioni.
  • Che attività svolgete come Storyville? Solo concertistica o anche didattica?
  • Ogni anno ci chiama qualche scuola per delle lezioni-concerto, ci capita anche di suonare con delle classi ad Indirizzo Musicale del Primo Livello; il repertorio del Jazz Tradizionale è molto adatto alla didattica, i brani sono gioiosi, ritmici e molto piacevoli da suonare oltre che da ascoltare.
  • storyvillejazzband.it

 

BILL FRISELL & THOMAS MORGAN “Small Town”

BILL FRISELL & THOMAS MORGAN “Small Town”

BILL FRISELL & THOMAS MORGAN “Small Town”

ECM RECORDS 2525, 2LP, 2017

di Alessandro Nobis

Su Bill Frisell sono stati scritti fiumi di parole alla ricerca di una giusta definizione della sua musica: da “eclettico chitarrista” ad “artista a trecentosessanta gradi”, da “enciclopedico” ad “artista a tutto tondo”. Mi permetto, più modestamente, di descriverlo come intelligente, curioso ed attento. “Intelligente” per il rispetto che sempre ha avuto rispetto al repertorio dei grandi padri del jazz, “curioso” per avere esplorato ambienti musicali ed averli rivisitati con la sua sensibilità e talento, “attento” per saper guardare fuori dall’ambiente jazzistico alla ricerca di  melodie nei più impensabili generi musicali.

Unknown.jpegE questo mirabile doppio LP edito dall’ECM e registrato nel 2016 al tempio del jazz, il Village Vanguard, in compagnia del contrabbassista Thomas Morgan non fa certo eccezione: si apre con un omaggio al batterista e compositore Paul Motian, suo compagno di viaggio assieme a Joe Lovano, con “It Should Have Happened A Log Time Ago” (anche titolo di un CD del trio) e si chiude con una personale rilettura del tema di “Goldfinger” scritta da John Barry, autore ben conosciuto da Frisell dai tempi di “Naked City” (geniale la rilettura del “Tema di James Bond”) in cui militava nella “Banda Zorn”. Nel mezzo una splendida interpretazione di “Wildwood Flower” del repertorio di Mother Maybelle Carter (capostipite della Carte Family, fondamentale il suo ruolo agli albori del genere oggi chiamato “Americana”), ”Subconsciuos Lee” di Lee Konitz e “What a Party”di Fats Domino. Non manca qualche originale di Frisell in questo lavoro che affascina per l’assoluta bellezza del suono naturale e la raffinatezza del dialogo che si instaura tra questi due musicisti, favorito senz’altro dalla dimensione “Live” e dal prestigio del Village Vanguard.

Un’ottima occasione per avvicinarsi al mondo musicale di Bill Frisell o per continuare a seguire le gesta di questo straordinario musicista. La versione in vinile contiene un codice personale per scaricare la musica da sito ECM. Cosa di meglio?

ANDY IRVINE “Usher’s Island”

ANDY IRVINE “Usher’s Island”

ANDY IRVINE “Usher’s Island”

USHERSISLAND, CD, 2017

di Alessandro Nobis

Se c’è un musicista che ha segnato in modo profondo il movimento del folk revival irlandese questo è certamente Andy Irvine; il suo viaggio nell’Europa Orientale, una volta lasciati gli Sweeney’s Men, gli ha consentito di conoscere ed assimilare ritmi, timbri sonori, strumenti delle tradizioni balcaniche che gli hanno permesso, una volta ritornato in Irlanda, di inserire nuova linfa e nuove idee davvero seminali nel progetto comune di recupero del folk con gli altri tre eroi: Liam O’Flynn, Christy Moore e Donal Lunny, in una parola i Planxty. Nello stesso anno in cui a Dublino si è celebrato con un annunciatissimo sold-out il quarantennale disco registrato con Paul Brady esce questo nuovo capitolo della sua preziosa discografia, “Usher’s Island” in compagnia nientemeno che del suo pard Donal Lunny, di Mike McGoldrick (flauti, componente dei Lunasa), Paddy Glackin (violino, Bothy Band) e John Doyle (chitarra e voce, Solas). Un super quintetto stellare che non delude le attese e sfodera una repertorio che se da una lato ha il DNA di Irvine (e Lunny) dall’altro offre a chi ascolta un amalgama ed un suono così raffinato e potente che solo vecchi leoni sanno produrre: “Ben Phaodin”, una canzone raccolta nel Connemara e già nel repertorio degli immortali Planxty, “Felix The Soldier” scovata da Jeff Davis nel New England che riguarda la guerra Franco – Indiana del 1759 , l’hornpipe omaggio a due leggende della tradziona irlandese, il piper Willie Clancy (ed il violinista Sean Keane) e “Cairndasy” (racconta di un immigrante irlandese che combatte nella guerra Ispanico – Americana del 1898) sono solo alcuni momenti di questo lavoro che nessun “adepto” della musica irlandese deve lasciarsi sfuggire.

S-T-R-E-P-I-T-O-S-O e, per me, ad oggi disco dell’anno per la sua categoria. Qualcuno mi smentisca.

 

DALLA PICCIONAIA: Jon Hicks e Cornelia Keating al Cohen, Verona

DALLA PICCIONAIA: Jon Hicks e Cornelia Keating al Cohen, Verona

DALLA PICCIONAIA: Jon Hicks e Cornelia Keating al Cohen. 9 settembre 2017

di Alessandro Nobis. Fotografia di Mauro Regis.

Arrivati a Verona da un concerto in quel di Montefano, nel maceratese, con un viaggio a dir poco rocambolesco, Jon Hicks e Cornelia Keating sono riusciti nonostante la stanchezza a sfoderare novanta minuti di ottima musica, lasciando intendere che la loro performance avrebbe potuto proseguire per quasi altrettanto tempo. Il pubblico, finalmente numeroso, ha gradito la musica proposta dal duo anglo irlandese e chi si aspettava una cavalcata nella tradizione – come chi scrive – è rimasto non deluso ma invece affascinato dallo spettro musicale proposto: ed in effetti, ascoltando l’unico CD inciso dai Lua Lauchra – di cui Hicks era il chitarrista – si poteva intuire che la musica proposta sarebbe stata ben più a largo raggio dei reels e dei jigs suonati al Cohen, peraltro egregiamente visto il talento -. A parte qualche brano originale il concerto è stato una lunga cavalcata nella musica del novecento, spaziando dai gospel come “Nobody’s fault but mine” e “In my time of dying” (un caso che la scelta sia caduta su due brani entrambi nel repertorio degli Zeppelin?) al jazz (Billie Holiday, Juan Tizol e Duke Ellington, Paul Desmond e Ira Brubeck) al rock d’autore griffato J.J.Cale oltre naturalmente al graditissimo omaggio alla musica d’Irlanda dove Jon Hicks ha scelto di vivere (lui è inglese) con Cornelia Keating: le danze tradizionali già citate ed una bella versione in apartura di concerto dello struggente blues “There’s a Light” dell’indimenticato quanto grandissimo chitarrista di Ballyshannon, Rory Gallagher.

Sembra, a prima vista, una scaletta male assortita formata da diversi generi musicali, ma la chitarra di Hicks – e la sua bella, calda ed espressiva voce – combinata con il canto intimo, quasi sussurrato di Cornelia Keating hanno saputo dare una rilettura omogenea, convincente ed equilibrata di questo “repertorio”. Alla prossima.

 

KEITH TIPPETT OCTET – “The Nine Dances Of Patrick ‘Gonogon”

KEITH TIPPETT OCTET – “The Nine Dances Of Patrick ‘Gonogon”

KEITH TIPPETT OCTET – “The Nine Dances Of Patrick ‘Gonogon”

DISCUS 56, CD, 2017

di Alessandro Nobis

Molti si sono avvicinati alla musica di Keith Tippett ai tempi delle memorabili incisioni crimsoniane alle quali partecipò (“In the Wake”, “Lizard” e “Islands”) per poi seguirlo fedelmente nella sua carriera, altri direttamente da capolavori come “Blueprint” o “Centipede”, per citarne due, per poi apprezzarne anche le pennellate del suo pianoforte alla corte di Robert Fripp. Per seguire la carriera del pianista inglese occorrevano e necessitano anche oggi doti da segugio, viste le innumerevoli incisioni per altrettante etichette discografiche e potete solo immaginare quanto fiuto fosse necessario quando internet non era citato nemmeno nei romanzi di fantascienza.

In queste settimane è stato dato alle stampe un altro magnifico disco di Tippett in ottetto (una delle sue doti è quella di trovarsi magnificamente a suo agio – per il nostro agio – in solo fino a orchestre di cinquanta elementi) registrato a Londra dal vivo nell’ottobre del 2014; con lui ci sono Fulvio Sigurta alla tromba e flicorno, Sam Mayne ai sassofoni alto e soprano ed al flauto, James Gardiner – Bateman al sax alto, Kieran McLeod al trombone, Tom McCredie al contrabbasso, Peter Faircloud alla batteria e la compagna di sempre, Julie Tippett, naturalmente alla voce (in un solo brano, l’evocativo “The Dance of the Returning”). “The Nine Dances Of Patrick ‘Gonogon” è una lunga composizione in undici movimenti nella quale si riconoscono tutte le componenti ed influenze musicali che hanno fatto del pianista di Bristol uno dei maggiori compositori del jazz degli ultimi decenni: ci sono evidenti richiami ai grandi maestri come Duke Ellington e Charles Mingus quasi a rendere omaggio ai due giganti afroamericani ma soprattutto c’è il sempre vivacissimo e puntuale pianoforte e ci sono le scritture tippettiane e gli arrangiamenti che fanno davvero imperdibile questo lavoro, eseguito con grande perizia da jazzisti navigati come Peter Fairclough e da quelli diplomati alla prestigiosa Royal Academy of Music. E vogliamo parlare della sorprendente quanto stupenda rivisitazione del tradizionale irlandese “The last rose of the summer”?

Lunga vita a Keith Tippet, che lo scorso 25 agosto compiuti settant’anni: so long, Keith………….. e grazie.

 

IL DIAPASON INTERVISTA THOMAS SINIGAGLIA

IL DIAPASON INTERVISTA THOMAS SINIGAGLIA

IL DIAPASON INTERVISTA THOMAS SINIGAGLIA

Raccolta da Alessandro Nobis

Giovedì 14 settembre parte la prima stagione del Cohen JazzClub, a Verona in Via Scarsellini, e ad inaugurare questi appuntamenti settimanali dedicati al jazz (e dintorni), ci sarà la musica di Thomas Sinigaglia, valente compositore, insegnante, arrangiatore e virtuoso della fisarmonica che presenterà un “solo” recital. Quindi ho colto l’occasione di rivolgere a Sinigaglia alcune domande per conoscere più da vicino la sua attività – o meglio le sue attività – in ambito musicale visto che sono per usare un eufemismo piuttosto diversificate.

  • Thomas, intanto grazie di avere accettato di rispondere a qualche domanda. Leggendo la tua biografia, soprattutto quella che riguarda la tua formazione, salta agli occhi che al Conservatorio di Vicenza hai conseguito il Diploma di Secondo Livello studiando con Salvatore Maiore, Paolo Birro e Pietro Tonolo, tra gli altri. Per non parlare poi di Siena Jazz e di Richard Galliano. Jazzisti quindi……….

Grazie a te, Alessandro. Sì, ho avuto il piacere di studiare con musicisti di notevole levatura. Tengo in particolar modo, e la conservo nel cuore, all’esperienza fatta a Vicenza con Maiore, Birro e Tonolo, persone che ho potuto frequentare per molto tempo scoprendole non solo bravi musicisti, ma anche grandi insegnanti, cosa non comune.

A loro mi ha portato la mia decisione di studiare jazz, effettivamente; scelta affiancata al fatto che da sempre mi ha affascinato l’improvvisazione, e che sentivo di poterla applicare anche ad altri generi musicali che, magari, con il jazz c’entrano poco. Da questo al desiderio di studiare con loro il passo è stato breve!

Sono arrivato, ad ogni modo, con una personalità musicale in parte già formata (ho iniziato a otto anni studiando con diversi insegnanti); quindi ho intrapreso in primis un percorso di decostruzione del mio approccio tecnico e mentale all’improvvisazione e, in seguito, di ricostruzione del medesimo (operazione che sto ancora proseguendo e che è in continua evoluzione). Ho imparato che si deve conoscere davvero bene uno standard, in ogni sua piega, per potersi poi fidare di quella capacità, fondamentale per improvvisare, che è l’ascolto.

Le ulteriori esperienze e frequentazioni, come Siena Jazz, Galliano, Frank Marocco ed altri, mi hanno poi regalato importanti stimoli per ampliare le conoscenze musicali sul mio strumento.

  • Poi hai allargato “il campo”

Io non userei proprio quest’espressione, o perlomeno non in questo modo… Anche se in realtà non so se sia meglio dire che non ho mai ristretto il campo ad un unico genere musicale, o che il jazz ha allargato i propri confini. In qualsiasi caso non mi pongo mai il problema del genere. Cerco semplicemente di suonare la musica che più mi interessa e che mi dà soddisfazione: ad esempio mi piace tanto “Um a zero”, uno choro di Pixinguinha, quanto “Pavane pour une infante défunte” di Maurice Ravel. Inoltre in questi ultimi anni sto cercando di approfondire anche la fisarmonica classica e la sua letteratura contemporanea.

Vedi, ogni genere musicale ha le sue peculiarità, ed è interessante esplorarle per poter entrarci dentro! In modo simile, il fatto di collaborare con altri musicisti di diversa estrazione musicale ti permette di continuare ad imparare, di non rimanere sempre dentro la zona di comfort, dove la musica un po’ va a morire.

  • Sei anche un richiesto musicista “di scena”. Quali le differenze tra l’approccio di questo tipo e quello di strumentista “da concerto”?

Forse la differenza principale sta nel fatto che, nel teatro, la musica assume un ruolo di “supporto”: le esigenze musicali specifiche talvolta non sono soddisfatte perché bisogna rispondere a quelle teatrali. Un po’ per carattere e un po’ grazie a quanto imparato nel corso delle mie esperienze, cerco sempre di “vestire musicalmente” gli attori e la situazione teatrale. Naturalmente suono sempre come in concerto, ma con la consapevolezza che in tali occasioni non sono solo io che sto raccontando.

Poi, come in ogni cosa, più ti trovi a lavorare assieme e più il meccanismo si lubrifica, scorre via liscio, come nel caso della mia lunga collaborazione con il regista Alessandro Anderloni e la cantante Raffaella Benetti: ecco, con loro nel creare nuovi spettacoli, ci si intende subito; sinergia e compassione sono palpabili.

  • Che tipo di strumento utilizzi?

Nella maggior parte dei progetti uso una Victoria sistema pianoforte per la mano destra e bassi standard per la sinistra. È uno strumento a cui sono affezionato (mi è stata regalata dai miei genitori), ha un bel suono, soprattutto le voci in cassotto, un buon range dinamico e un buon equilibrio tra i due manuali (mano destra e sinistra). Mi diverte molto suonarla!

A volte mi capita di usare anche una Lucchini dotata di vibrato tra due voci della mano destra, ovvero quel registro tipico da fisarmonica popolare (richiama anche il musette francese) che in alcuni contesti serve.

  • Il fatto che tu sappia spaziare in modo intelligente tra diversi generi musicali ti ha portato a collaborare con musicisti di diverse provenienze culturali. La songwriter cubana Sorah Rionda, ad esempio.

L’incontro è stato fortuito, un contatto passato a Sorah tramite un amico comune, ingegnere del suono. Oltre al jazz amo molto la musica sudamericana, in particolare quella brasiliana e argentina, quindi, di fronte alla proposta di partecipare al suo progetto Hebra de luz insieme al percussionista Filippo Dalla Valle, ho accettato subito! Il repertorio è molto bello, spazia dal cantautorato cubano di metà Novecento (alcuni brani sono di suo zio, Graciano Gómez) a brani dell’Ottocento spagnolo, fino a canzoni originali della stessa Sorah. In questo caso ci sono sia parti scritte, sia parti in cui improvvisiamo.

L’anno scorso siamo stati invitati al Festival Internazionale “Les Joutes Musicales” di Correns, Francia, dove il progetto è piaciuto molto per la sua originalità.

  • Tra i numerosi progetti che hai in cantiere, ce n’è qualcuno al quale tieni particolarmente?

È difficile scegliere… Sicuramente tengo molto al progetto in solo, perché mi mette alla prova e mi dà la possibilità di far conoscere la fisarmonica, quella fisarmonica che va oltre la musica popolare. Mi piace usare effetti particolari come il bellow shake, la percussione della cassa e dei registri (nella musica contemporanea sono molto frequenti) e spesso  sono una scoperta per le persone che non conoscono bene lo strumento. Tra l’altro ho in cantiere proprio la registrazione del disco in solo, con l’aggiunta di altri brani, originali e non, oltre a quelli del mio repertorio.

Quindi spero di poter incidere presto anche i pezzi che ho scritto per quartetto (fisarmonica, violino, violoncello e pianoforte), una sorta di “chamber jazz”, jazz cameristico.

Ci sono poi altri progetti a cui già partecipo con gioia e soddisfazione, e che mi auguro di proseguire con intensità sempre maggiore: solo per citarne qualcuno, il duo con la violinista Maria Vicentini, il flautista Stefano Benini (nei prossimi mesi registreremo il primo disco in duo) e il Trio campato in aria con il trombonista Mauro Ottolini e il violinista Daniele Richiedei. E altri ancora…!

  • In Italia il tuo strumento, almeno in ambito jazzistico, è conosciuto soprattutto grazie a Gianni Coscia e Gorni Kramer e di recente, almeno secondo il mio parere, anche Vince Abbracciante sta facendo un bel percorso. Quali i musicisti che più ti hanno influenzato?

Ho iniziato a scoprire il jazz nei primi anni Novanta, ascoltando inizialmente il trio di Jarrett  e di Oscar Peterson e poi i primi dischi di Galliano; quest’ultimo, in quanto fisarmonicista, ha rappresentato per alcuni anni un riferimento imprescindibile per lo strumento (ecco perché tra i miei studi c’è una master class proprio con lui!).

Successivamente l’apprendimento in conservatorio mi ha aperto altre porte, facendomi affezionare molto alla corrente del Cool Jazz, in particolare a Tristano e Konitz. Grazie a  loro e ai miei docenti ho capito quanto sia molto più bello suonare “non preparati”, cioè  senza avere un repertorio di frasi fatte (i famosi “pattern”) da  snocciolare  durante  il  solo: comporre in tempo reale, é sicuramente più faticoso e rischioso, ma può dare molte, moltissime soddisfazioni!

Un notevole input mi è poi venuto ascoltando e trascrivendo le composizioni di Frank Marocco, un fisarmonicista che insieme a Art Van Damme ha fatto la storia della fisarmonica  jazz dagli anni Cinquanta in poi.

  • Al Cohen presenti un recital in completa solitudine. Ci puoi anticipare il programma, almeno a grandi linee?

Vista la predilezione per il jazz e l’America latina il programma si snoderà attorno a questi due poli.

Eseguirò anche due brevi pezzi per clarinetto e pianoforte del clarinettista-compositore Paquito D’Rivera che ho da poco adattato per sola fisarmonica (una sorta di omaggio per il suo sessantanovesimo compleanno, lo scorso giugno).

Poi tutto non si può svelare… Di sicuro vorrei divertirmi! E far divertire con me chi verrà al concerto e avrà voglia di ascoltarlo. Come si fa con tutte le cose “belle”: con il corpo, e con il cuore.

http://www.thomassinigaglia.it

foto: gas.dellaira@yahoo.it

FABIO GAGGIA “Quel treno per Garda”

FABIO GAGGIA “Quel treno per Garda”

FABIO GAGGIA “QUEL TRENO PER GARDA”

CORPORAZIONE DEGLI ANTICHI ORIGINARI DEL GARDA, 2017. Pagg. 162, € 12,00

di Alessandro Nobis

QUEL-TRENO-PER-GARDA-di-Fabio-Gaggia-2017 copia.jpgIl 28 maggio del 1883, sotto la Presidenza dell’allora Sindaco di Affi, Giuseppe Poggi, viene messo in atto il primo tassello di un’opera ferroviaria che verrà collaudata definitivamente nel 1894, la Verona – Caprino e 10 anni dopo, nel 1904, ne verrà realizzato un ramo che da Affi conduceva a Garda dalla appositamente costituita, “Società Anonima Ferrovia Verona – Caprino – Garda”. Questo volume scritto da Fabio Gaggia e pubblicato dalla “Corporazione degli Antichi Originari di Garda”, va a coprire in modo completo un vuoto nella storiografia locale e, visto il minuzioso elenco delle fonti consultate dall’autore – Archivi e bibliografie – , può costituire anche un punto di partenza per ricerche personali e per quelle con finalità didattica che possono senz’altro aiutare le generazioni più giovani a scoprire una parte così bella ed importante della nostra provincia.

Perchè la strada che da Caprino porta a Costernano ha un tratto così rettilineo? Come mai a Verona, nel Quartiere Trento, si parla ancora della stazione della Verona – Caprino? Quando la ferrovia è stata abbandonata e da cosa fu sostituita? Sono solo tre delle domande alle quali il lettore troverà risposta in questo importante volume, ricco di immagini, di planimetrie, di prospetti delle stazioni, di informazioni tecniche molto dettagliate riguardanti il parco locomotive e vagoni, la strada ferrata, le stazioni di rifornimento dell’acqua, i costi di realizzazione, le tariffe ed anche le trasformazioni urbane che hanno interessato negli anni post – ferrovia le stazioni di testa della ferrovia e quelle lungo il percorso (irriconoscibile il piazzale davanti al lago a Garda, per fare un esempio, davanti all’Hotel Terminus).

Un libro che se divulgato come merita non potrà sfuggire agli appassionati di storia locale, di storia della ferrovia, e perché no anche ai ferromodellisti che troveranno qui anche spunti per realizzare i loro preziosi diorami.