SUCCEDE A VERONA: RASSEGNA (IN)VISIBILI IN JAZZ

SUCCEDE A VERONA: RASSEGNA (IN)VISIBILI IN JAZZ

SUCCEDE A VERONA · RASSEGNA (IN)VISIBILI IN JAZZ ·

Esotericproaudio Theater

Villafranca di Verona, 7 ottobre · 18 novembre

di alessandro nobis

In effetti tutti noi, organizzatori compresi, la notizia che Evan Parker avesse rinunciato al pur breve giro di concerti italiani per motivi strettamente personali non l’avevamo presa bene tanta era l’attesa che si era creata, come si dice, “nell’ambiente”. Poteva essere un super gustoso antipasto del progetto al quale Mirko Marogna dell’Esotericproaudio Theater e Roberto Zorzi (lo voglio ricordare solo come uno dei direttori artistici di Verona Jazz nelle sue migliori edizioni, parlo di quelle di metà anni ottanta, qualcuno si ricorderà senz’altro) stavano lavorando e che avevano cripticamente annunciato al concerto di Elliot Sharp.

Va bene, Evan Parker non è venuto (verrà mai?) ma il progetto dei due si è concretizzato in una bella rassegna dedicata soprattutto a musicisti che come si evince dal titolo vuole dar giusto spazio agli “(In)visibili del jazz” con un doverosa attenzione ai musicisti dell’area veronese; certo, c’è del sottile sarcasmo nel titolo ma è pur vero che moltissimi jazzisti – e bluesmen, come vedremo – hanno storicamente poco spazio nei grandi festival che si tengono nel belpaese. Un vero peccato perchè mai come in questi anni in Italia i musicisti con proposte interessanti sono aumentati notevolmente di numero ma direi in modo inversamente proporzionale alle occasioni per suonare diciamo così a condizioni almeno “dignitose” sia in termini economici che di “location” e quindi personalmente considero questa rassegna come una “manna dal cielo” sia per gli appassionati che per i musicisti.

Quattro appuntamenti (doppi appuntamenti in realtà, il primo dedicato al jazz ed il secondo al blues · e dintorni ·) da venerdì 7 ottobre a venerdì 18 novembre presso l’Esotericproaudio Theater di Villafranca, vicino al Castello Scaligero, con ingresso riservato ai Soci ed anche ai nuovi Soci (quindi a tutti, praticamente) con una quota di partecipazione di € 15,00 fondamentale per poter sostenere il progetto.

Ecco il programma nel dettaglio

Venerdì 7 ottobre:

La1919:

Piero Chianura · tastiere

Luciano Margorani · chitarra

special guests:

Luca Crispino · basso

Luca Pighi · batteria

·

TONY LONGHEU’S BLUES BEYOND

Tony Longheu · chitarra, dobro, voce

Sabato 22 ottobre:

MOOD ELLINGTON:

Nelide Bandello · batteria

Paolo Bacchetta · chitarra

Giacomo Papetti · basso

·

PASETTO/BENINI/MELLA/DIENI

Marco Pasetto · clarinetto basso

Stefano Benini · flauto basso, flauto, digeridoo

Aldo Mella · contrabbasso

Pino Dieni · chitarra, fx

Venerdì 4 novembre:

MAZZA/DEL PIANO/ MAYES/PAGLIACCIA

Cristina Mazza · sax alto

Roberto Del Piano · basso

Martin Mayes · corno francese, corno delle Alpi, conchiglie

Gioele Pagliaccia · batteria, percussioni

·

LODATI/ SANNA

Claudio Lodati · chitarra

Eugenio Sanna · chitarra

Venerdì 18 novembre

FREEPHONIC

Benny Weiss Levi · sax tenore

Bert Den Hoed · tastiere

Han Van Hulzen · batteria, percussioni

·

HENDRIX ROAD

Enrico Merlin · chitarra, fx

Boris Savoldelli · voce, fz

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OREGON “Our First Record”

OREGON “Our First Record”

OREGON “Our First Record”

Reg. 1970. (LP. Vanguard Records, 1980)

di alessandro nobis

I nastri con questi quarantotto minuti di musica sono rimasti in un cassetto per dieci anni, a causa della chiusura della Increase Records per la quale Ralph Towner, Glen Moore, Colin Zalcott e Paul McCaldless avevano registrato le tredici tracce. Un vero peccato visto la qualità della musica ma alla fine dobbiamo ringraziare la Vanguard che li pubblicò grazie a Tom Round che aveva conservato i nastri con grande cura. Non si tratta di scarti di registrazioni, “second takes” o “alternative takes”, ma di un vero e proprio lavoro pensato ed eseguito con l’intenzione di pubblicarlo a nome “Oregon”, un disco che rappresenta l’origine di un gruppo che attraverso i suoi lavori per la Vanguard, l’ECM e l’Elektra ha indicato un nuovo modo di suonare il jazz contaminandolo con i suoi etnici creando una musica di “fusione” ante·litteram (parliamo di cinquantadue anni fa) rimasta a mio avviso ineguagliata anche se soprattutto dopo la scomparsa di Walcott alcuni suoni prettamente etnici come quello del sitar non saranno più presenti.

In questo loro primo disco, tra brani di composizione e di improvvisazione (“Molecular“), se ne nasconde uno a mio avviso davvero straordinario: si tratta di un arrangiamento curato da Towner di “Recuerdos · de la Alhambra ·” una composizione dello spagnolo Francisco de Asís Tárrega y Eixea vissuto tra il 1852 ed il 1909, un autore molto importante per chi affronta gli studi di chitarra classica (bagaglio fondamentale nella preparazione di Towner) se si considera anche che il brano fu registrato da Andres Segovia e più recentemente da Enrike Solinis.  Qui l’apertura è lasciata a Moore che precede il suono della chitarra che esegue un solo sul quale si innesta l’oboe di McCandless con l’accompagnamento ritmico “discreto” delle percussioni: sontuoso direi, dimostrazione di come gli spartiti considerati “intoccabili” possano prendere una forma diversa, inaspettata quasi.

Full Circle” (scritto da Walcott e Towner) è un’altra dimostrazione del concetto “Oregon”, il sitar di Walcott duetta per tutta la lunghezza del brano con la chitarra classica, “Margueritte” di Walcott  ha un’atmosfera prettamente jazzistica con un assolo di Towner al pianoforte ed infine segnalo l’interpretazione di un brano composto dal grande Scott LaFaro (un altro che ci ha lasciato troppo prematuramente), “Jade Vision” (era nel repertorio del trio di Bill Evans, a proposito di perdite premature …), splendida ballad con soli di McCandless e Towner e naturalmente aperta dal contrabbasso di Glen Moore.

Splendido esordio di un gruppo che personalmente ho, direi senza esagerare, adorato e che ho avuto la fortuna di vedere dal vivo a Verona nella formazione con Trilok Gurtu.

Cercatelo.

DICK GAUGHAN “No More Forever”

<strong>DICK GAUGHAN</strong> “No More Forever”

DICK GAUGHAN “No More Forever”

Leader Records. LP, 1972.

di alessandro nobis

Nel 1972 l’illuminata etichetta di Bill Leader pubblica il disco d’esordio dell’allora ventiquattrenne chitarrista, cantante, compositore e studioso Richard Peter “Dick” Gaughan che lo aveva registrato l’anno precedente. Il ’72 lo vide coinvolto anche nella fornazione del leggendario gruppo · almeno per chi segue la musica scozzese · Boys of the Lough partecipando alla registrazione del loro eponimo primo disco, ma lasciò il gruppo quasi subito dedicandosi ad una carriera solistica per la quale è conosciuto ovunque anche se la sua produzione discografica è stata poco prolifica ma di grandissima qualità.

La qualità del suo stile chitarristico è a dir poco stellare, combinando lo stile flat·picking con il fingerpicking con grande efficacia e lo ha fatto diventare in breve uno dei grandi maestri della chitarra acustica, come mi disse in occasione di un suo concerto Tony McManus. Del resto basta ascoltare quella magnifica raccolta di strumentali che è “Coppers and Brass” del 1977 per la Topic per rendersene ben conto, ma già da questo “No More Forever” emerge sia il suo talento allo strumento che la capacità interpretativa dei brani cantati alcuni dei hanno origini molto antiche. Vedasi la coppia di reels “The Teetotaller · Da Tushker“, strumentali con la sovraincisioni del mandolino sulla chitarra o i canti narrativi come la Child Ballad (#293) “Jock O’Hazeldean” nata da un frammento di una ballad scritta da Sir Walter Scott o ancora “The Thatchers O’Glenrae” risalente al XIX secolo composta da Hector McIlfatrick con il testo abbinato alla melodia di un’altra ballad, “Erin Go Bragh” (nel repertorio di Gaughan) ed infine “Cam’ Ye Ower Frae France” la cui origine risale alle guerre Giacobine del XVIII secolo.

La discografia di Gaughan è tutta da ascoltare e da apprezzare, compreso quel bizzarro ma significativo (rispetto al suo repertorio folk) disco di musica improvvisata, “Fanfare for Tomorrow” pubblicata dalla Impetus nel 1985 con il batterista Ken Hyder.

Gaughan non sta bene al momento, ha sofferto anni fa per un infarto ed i tempi di riabilitazione non sono brevi come è facile immaginare, e l’augurio è quello di rivederlo in attività quanto prima.

Disco da avere, come tutti i suoi. C’è bisogno di dirlo?

FISHERSTREET “Out in the Night”

FISHERSTREET “Out in the Night”

FISHERSTREET “Out in the Night. Music from Clare”

Mulligan Records 057. CD, 1991

di alessandro nobis

Ho davvero poche notizie del sestetto dei Fisherstreet: che provengono dalla Contea di Clare, che uno dei fondatori, il chitarrista Maurice Coyle è prematuramente scomparso nel 2017 e soprattutto che questo loro “Out in the Night” è una splendida selezione di brani strumentali, di danze eseguite in modo eccellente con un ottimo suono complessivo dato dalla somma (che non sempre corrisponde) delle qualità degli strumentisti. Che sono, in questo che credo il loro unico lavoro prodotto dalla benemerita Mulligan Records Seamus McMahon (violino, flauto), John McMahon (concertina, uilleann pipes), Dermot Lernihan (accordion), Noreen O’Donoghue (arpa, tastiere), Frank Cullen (mandolino, mandola), Maurice Coyle (chitarra), Cyril O’Donoghue (bouzouki) e Mick McElroy (chitarra). Ma la cosa non finisce qui perchè il fatto che alcuni di loro siano polistrumentisti aggiunge varietà timbriche ai jigs ed ai reels che sono i protagonisti di questo bel lavoro: John McMahon ad esempio è un eccellente suonatore di concertina che nel set di jigs “Humours Of Kilclogher/Anthony Frawley’s” imbraccia le uilleann pipes all’unisono con il flauto (questo è la traccia che preferisco) mentre nei brani dove la sua concertina si affianca all’accordeon di Dermot Lenihan ed al violino di Seamus McMahon come nei set di reels “Paddy Bartley’s · Aggie White’s · Hanley’s Tweed” e “Brady’s · Lough Mountain · Letterkenny Blacksmith” regala una dimensione sonora rara e particolare che solamente in qualche session informale capita di ascoltare, naturalmente quando si innesca la sfida (e le session informali lo sono sempre ovunque) tra musicisti. Splendide infine anche la slow air che da il titolo all’album, scritta da Dermot Lernihan aperta dal flauto traverso di Seamus McMahon accompagnato dalle lievi tastiere e quindi dall’accordeon ed i jigs presi dal repertorio del violinista di Killconnell, nei pressi di Galway, “Paddy Fahy’s“, scomparso nel 2019, brano inciso anche da Martin Hayes.

Spero che l’ensemble sia ancora in attività. Certo è che umanamente la perdita di Maurice Coyle avrà lasciato un grande dolore ai musicisti e naturalmente alla famiglia, ma sinceramente spero che una band di questo livello abbia proseguito negli anni anche se qui da noi in Italia non abbiamo avuto più notizie della sua attività.

GIORGIO PINARDI · MeVsMyself “Aiòn”

GIORGIO PINARDI · MeVsMyself “Aiòn”

GIORGIO PINARDI · MeVsMyself “Aiòn”

ALTERJINGA RECORDS. CD, 2022

di alessandro nobis

Ho conosciuto la musica di Giorgio Pinardi attraverso il suo ottimo lavoro del 2019 (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2020/01/28/giorgio-pinardi-mevsmyself-mictlan/) e con questo “Aiòn” prosegue il suo lavoro di ricerca e sperimentazione vocale che contraddistingue il suo originale progetto.

Ormai sappiamo che un “disco di musica improvvisata non si improvvisa”: studio, ricerca, ascolti, tecnica sono alcune delle condizioni necessarie per improvvisare, condizioni che Giorgio Pinardi, sperimentatore vocale, quotidianamente coltiva e che lo portano al livello cui si trova oggi, ovvero al piano più alto della musica contemporanea, della musica di oggi. “Aiòn” guarda come fonte di ispirazione all’Africa subsahariana, ai suoi suoni, alle sue tradizioni non nel vano tentativo di riprodurli ma piuttosto come fonte per portarli in un mondo sonoro che le interseca in modo originale ed innovativo. Sarebbe necessario conoscere in modo profondo la puntiforme musica africana e la sua oralità per capir bene il lavoro di Pinardi; non è così, per me, ma ad esempio “Yielbongura” e “Kamtar” celebrano la cultura orale del West Africa ma mi hanno ricordato con quel suo “call and response” anche i canti maschili dello Zimbabwe, anche se qui, naturalmente, tutto è costruito dalla singola voce di Pinardi attraverso loop, raddoppiamento della sua voce e costruzione di nuove linee vocali, “Waldeinsamkeit“, “Solitudine della foresta” è una creazione spontanea, un inno alla contemplazione costruito con una leggera base ritmica e da sovrapposizioni vocali davvero interessanti, ed infine “Rwty” si realizza con un impeccabile connubio tra l’elettronica · la modernità · e della voce naturale · la tradizione · che trasporta l’ascoltatore in un indefinito altrove. Un lavoro quindi “multistrato” che non può non affascinare anche chi affronta l’ascolto musicale in modo diciamo “superficiale” e per questo lo consiglio vivamente al popolo dei curiosi che mi sembra in un certo qual modo in estinzione.

Insomma la improvvida scomparsa di Demetrio Stratos del 1979 non ha di certo segnato la fine della sperimentazione vocale, e lo dimostrano i numerosi musicisti che in giro per il mondo seguono percorsi diversi alla ricerca di un limite che naturalmente resterà sempre sconosciuto. Va da sè che tra questi c’è Giorgio Pinardi.

www.mevsmyself.it

associazione.alterjinga@gmail.com

https://mevsmyselfvoicesolo.bandcamp.com/

DOC WATSON · MERLE WATSON “On Stage”

<strong>DOC WATSON · MERLE WATSON</strong> “On Stage”

DOC WATSON · MERLE WATSON “On Stage”

Vanguard Records. 2LP, 1971

di alessandro nobis

Il primo disco di Doc Watson non si scorda mai: doppio ellepì, edizione francese, adrenalina pura. Come molti, credo, sono arrivato al chitarrista di Stoney Fork – e a molti altri – ascoltando e ri-ascoltando il libro sacro del folk americano, quel triplo ellepì dall’immenso valore musicologico che risponde a nome di “Will the Circle Be Umbroken” dove Watson interpreta tra le altre una strepitosa “Tennessee Stud” di Jimmy Driftwood e “Wabash Cannonball” con Earl Scruggs tra gli altri.

Tra i numerosi concerti che nel ’70 Watson Tenne con il figlio Merle ci sono quelli newyorkesi, alla Town Hall ed alla Cornell University che in parte vennero pubblicati appunto in un doppio ellepì dalla Vanguard l’anno seguente (nel 1990 vennero pubblicati in CD, dove per mancanza di spazio dovettero rinunciare a “Movin’ On”.

E’ un florilegio della chitarra acustica e senza dover dir nulla sul perfetto stile chitarristico dei due Watson bisogna certamente rilevare la complicità e la perfetta sintonia tra padre e figlio, figlia sì di numerosi concerti ma soprattutto delle ore passate a suonare nella casa del North Carolina assieme alla “Watson Family” che tanto ha dato alla diffusione del patrimonio folklorico di quella parte degli States. “On Stage” è un po’ un viaggio attraverso l’America rurale fatta di piccoli centri e di comunità molto legate, qui ci sono venticinque brani che la descrivono tra brani originali, tradizionali e riletture di spartiti altrui. Ci sono naturalmente “storie” di treni come il classico “Wabash Cannonball” e “The Wreck of 1262” accreditata come tradizionale ma in realtà scritta da Carson Robinson che racconta dell’incidente ferroviario del 29 novembre del 1929 dovuto alla rottura dei freni, c’è “Banks of Ohio” (una murder ballad che racconta di un omicidio compiuto nel 19° secolo) e voglio ricordare anche un brano dei Delmore Brothers (“Brown’ Ferry Blues“, erroneamente segnato come tradizionale), uno di Mississippi John Hurt (“Spikedriver Blues“) ed una composizione di Doc Watson, “Southbound”, anche titolo del suo splendido album del 1966.

Un disco che non dovrebbe mancare nella collezione di ama e suona la chitarra acustica e di chi ama il folk americano. Se poi siete dei completisti allora certo è che non vi mancherà; in questo caso riposizionatelo sul vostro giradischi e riascoltatelo.

FRANCESCO CALIGIURI · NICOLA PISANI “Monastere Enchanté · L’Ensemble Créatif”

FRANCESCO CALIGIURI · NICOLA PISANI “Monastere Enchanté · L’Ensemble Créatif”

FRANCESCO CALIGIURI · NICOLA PISANI “Monastere Enchanté · L’Ensemble Créatif”

Dodicilune Dischi Ed529. CD, 2022

di alessandro nobis

Questo è davvero un disco “fuori dall’ordinario”. Intanto per l’idea che sta dietro al progetto, ovvero quello di suonare, ri-scrivere la musica antica introducendo metodologie esecutive che appartengono ad un linguaggio lontano da essa cinque secoli, almeno, ovvero quello del jazz e delle metodologie improvvisative. Poi perchè coinvolge due ensemble, il quartetto “Monastere Enchanté” e il sestetto “Ensemble Creative” guidati rispettivamente dai fiatisti e compositori Francesco Caligiuri e Nicola Pisani che si alternano nell’esecuzione dei brani secondo il progetto di “Locrum Sacrum” festival di Spezzano, sulla Sila calabrese, uno dei pochi festival jazz che non si limita ad assemblare un programma scegliendo dai roster delle agenzie ma che produce eventi come questo. L’idea di due ensemble sullo stesso disco potrebbe far storcere il naso a qualcuno, ma l’ascolto testimonia una grande piacevolezza e curiosità con un equilibrio sonoro davvero invidiabile nonostante i due gruppi si muovano su terreni apparentemente diversi.

L’ambientazione è quella di una sorta di “rinascimento al limite dell’apocrifia”; le otto composizioni di Caligiuri (con lui ci sono Michel Godard, Paolo Damiani e Luca Garlaschelli) si ispirano a quello straordinario periodo storico, ne rispettano ritmi e suoni (“C’est la bonheur“) ma inseriscono assoli come quello di Godard e di Damiani di chiara ambientazione jazzistica con uno straordinario quanto inedito risultato: “Sombra Misterieux I” è un bellissimo brano per solo violoncello (e qui il ricchissimo repertorio per viola da gamba viene “richiamato” all’ascoltatore) con un’improvvisazione incastonata nella struttura del brano mentre la seconda parte è più vicina all’idioma jazzistico visto che il baritono di Caligiuri ne è l’assoluto protagonista (il sassofonista pugliese ha davvero fatto sua bene la lezione di un tal John Surman).

D’altro canto l’Ensemble Créatif di Nicola Pisani sceglie un percorso diverso, ovvero quello di intrepretare brani del repertorio storico (a parte due interpretazioni di Charlie Haden · Our Spanish Living Song” e “Silence” · rese perfettamente “coeve” a questo progetto): lo fa sì rispettando gli spartiti ma lasciando grande libertà espressiva ai musicisti come ad esempio in “O Let Me Weep (The Plaint)”  composta da Henry Purcell e Thomas Betterton facente parte della semi-opera “La regina delle fate” (The Fairy-Queen; Catalogo Purcell numero Z.629) eseguita per la prima volta nel 1692 (lo spartito venne perso e ritrovato quattro secoli più tardi). L’inizio con la voce magnifica di Francesca Donato rispetta l’originale partitura, ma poi si susseguono improvvisazioni (il flauto di Eugenio Colombo e le percussioni, il trombone di Giuseppe Oliveto, il sassofono di Pisani, i cordofoni di Checco Pallone) che separano le strofe cantate in modo efficacissimo: un perfetto mosaico di suoni e di storie musicali che raramente mi è capitato di ascoltare.

Che ascoltiate il disco rispettandone la scaletta o separando i brani dei due ensemble – andando contro quindi l’idea originale, ma ne vale la pena per capirne di più – non ne cambia la sua straordinarietà; credo che quel geniaccio indimenticato di David Munrow (1942 · 1972) che ebbe secondo i puristi l’ardire mezzo secolo fa di mettere a contatto due mondi paralleli come quelli della musica medioevale e quello del folk inglese avrebbe senz’altro apprezzato moltissimo questo progetto. Due generi lontani in apparenza che oggi si incontrano, il jazz e la musica antica: un nuovo sentiero da percorrere, tutto da scoprire e da ascoltare.

BIRKIN TREE “40.”

BIRKIN TREE “40.”

BIRKIN TREE “40. · Forty Years of Irish Music”

Felmay Records. CD, 2022

di alessandro nobis

Come si evince dal titolo, questo recentissimo lavoro dei Birkin Tree intende festeggiare – più che celebrare – il traguardo di quaranta anni di attività del gruppo fondato dall’uilleann piper Fabio Rinaudo che ha saputo in questo lungo periodo mantenere viva la proposta nonostante, ma forse anche per questo, numerosi cambi di formazione che come detto non hanno influito né sulla qualità delle registrazioni e nemmeno sulla qualità delle esibizioni – molto richieste – dal vivo. A questa registrazione partecipano oltre a Rinaudo Laura Torterolo (chitarra e voce), Luca Rapazzini (violino), Claudio De Angeli (Bouzouky e banjo) Michel Balatti (flauti) oltre a prestigiosi ospiti che intervengono a vario titolo nei brani.

Il repertorio, come gli estimatori dei Birkin Tree possono facilmente immaginare, comprende brani delle tradizioni irlandese e scozzese assieme ad un paio di convincenti composizioni di Michel Balatti, ovvero il valzer “Gabriella’s” e la seconda parte della splendida ballata che chiude il disco, “Bonny Light Horseman” con la voce dello scozzese Tom Stearn, un brano che si riferisce alle guerre napoleoniche il cui testo è una accurata composizione di strofe di diversa provenienza.

Al solito segnalo due brani che hanno catturato la mia attenzione · senza sminuire il resto del lavoro ·:

Edward on Lough Erne’s Shore” ed il set di danze “Trip to Athlone / Chapel Bell / The road to Glountane“. La prima è una ballata che racconta ancora una volta i soprusi dei latifondisti britannici sui piccoli proprietari terrieri ed in particolare narra la vicenda di Edward Cassidy e dei suoi due figli, cacciati dal loro appezzamento nel 1829 ed in seguito condannati a morte per una presunta uccisione di un cavallo; pena tramutata in due anni di galera per il padre · troppo vecchio · ed in esilio forzato in Australia per i figli. Notevole l’arrangiamento con la concertina di Caitlin Nic Gebhann e la chitarra di Tom Stearn ma notevole soprattutto la voce di Laura Torterolo che interpreta questo testo.

Il set di danze “O’ Rourke” si compone di due reels (“All About Weaving” del grande Charile Lennon e il tradizionale “O’Rourke“) e di due gighe (“Trip to Athlone“, tradizionale e “Chapel Bell” composto dal violinista Frank McGollum) ed eseguito · ci tengo a dirlo · solo dai Birkin Tree; esecuzione perfetta, solita eleganza stilistica e rispetto dei repertori che sono da sempre le caratteristiche dell’ensemble italiana.

Andate a riascoltare il loro concerto al Quirinale romano dello scorso febbraio (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2021/04/04/da-remoto-the-birkin-tree-a-i-concerti-del-quirinale/) per farvi un’idea del livello del gruppo ………… andateci, ne val la pena.

http://www.felmay.it

BEPPE GAMBETTA “Dialogs”

<strong>BEPPE GAMBETTA</strong> “Dialogs”

Hi,Folks! Records. LP, 1989

di alessandro nobis

La vicenda musicale che ha generato questo disco è davvero interessante e testimonia la passione del ligure Beppe Gambetta, ai tempi della band di bluegrass Red Wine, che lo ha portato ad affrontare un incredibile viaggio attraverso il continente nordamericano per incontrare quelli che al tempo erano i migliori strumentisti flatpicking in circolazione; incontrarli a casa loro, conoscerli personalmente e registrare con loro riuscendo a stanare perfino uno come Norman Blake dalla sua oasi di Rising Fawn. Ne esce un disco davvero interessante, con repertori anche diversi, con riletture di grandi classici, un originale di Gambetta ed una bella quanto inaspettata rilettura di un brano beatlesiano, per la precisione “All you Need is Love” eseguito con Mike Marshall.

Dicevo Norman Blake, con il quale Gambetta suona “Bully Of The Town“, murder ballad scritta nel 1895 da Charles Trevathan che si riverisce ad un omicidio avvenuto in quegli anni a New Orleans ma poi anche lo scoppiettante swing di “Model 400 Buckboard” di Jimmy Bryant e il duetto con Phil Rosenthal – lo ricordo in una delle line up della leggendaria Seldon Scene – che con Gambetta esegue un altra pietra miliare del chitarrismo d’oltreoceano, ovvero “Arkansas Traveller“. Questo per citare solamente tre brani del disco, ma in realtà sarebbero tutti da citare, basti pensare che attraverso questi incontri il Gambetta è entrato in modo profondo con alcuni delle band che hanno segnato la storia del folk americamo come la già citata Seldom Scene ma anche la Country Gazette (Joe Carr e Alan Munde), i Dillards (David Grier) o gli Hot Rize di Charles Sawtelle ed infine il David Grisman Quintet (Mike Marshall) senza contare Dan Crary – con il quale Gambetta tenne anche alcuni concerti in Italia -.

Insomma “Dialogs” potrebbe sembrare una semplice collezione di “medaglie” da citare nel proprio curriculum ma è tutt’altro, sono momenti di “dialogo” e di conoscenza reciproca fatti con grande umiltà da parte di Gambetta e con altrettanto grande rispetto da parte di questi strumentisti, e la musica che si ascolta è lì a dimostrarlo. Ma ho una domanda per Beppe Gambetta: non credo che sia stato registrato un solo brano per incontro, e quindi dove sono finite le altre registrazioni?

http://www.beppegambetta.com