RALPH TOWNER · GLEN MOORE “Trios · Solos”

RALPH TOWNER · GLEN MOORE “Trios · Solos”

RALPH TOWNER · GLEN MOORE “Trios · Solos”

ECM RECORDS. LP, 1973

di alessandro nobis

Alla fine di novembre del 1972 il chitarrista e pianista Ralph Towner ed il contrabbassista Glen Moore entrano in studio a New York per l’ECM al fine di registrare le tracce contenute in questo bellissimo album al quale partecipano anche il percussionista Collin Walcott ed l’oboista Paul McCandless: sebbene l’ensemble Oregon fosse al completo “Trios · Solos” è accreditato solamente a Towner e Moore: forse per ragioni contrattuali (la band aveva già registrato il primo disco, che venne però pubblicato nell’80 ed erano sotto contratto con la Vanguard Records e “Music Of Another Present Era” era stato pubblicato nel ’72) o forse anche perchè in questo ellepì i quattro non suonano mai tutti assieme come facilmente si evince dal titolo. Per me “Trios Solos” rappresentò la porta d’ingresso all’innovativo suono degli Oregon che poi scoprii in tutta la bellezza di “Winter Light” (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/03/29/oregon-winter-light/).

il disco sia apre con un brano di Towner, “Brujo“: tabla, chitarra a 12 corde, e contrabbasso con un solo di accordi di Towner ed uno di Moore; “Belt of Asteroids” che chiude la prima facciata è uno splendido, lungo ed improvvisato solo di contrabbasso, una rarità ai quei tempi. Pianoforte e chitarra con contrabbasso ci regalano una versione del celeberrimo standard di Bill Evans “Re: Person I Knew” e penso che il “Towner pianista” sia stato non abbastanza considerato dai critici, “Raven’s Wood” (che Oregon riproporranno in “Violin” del 1978) scritta da Towner con Paul McCandless e Moore è uno dei brani più significativi di questo disco con la melodia cantata dall’oboe e con un perfetto interplay tra contrabbasso e chitarra, un anticipo di quello che gli Oregon avrebbero regalato in seguito agli appassionati di un jazz che pur avendo riferimenti nel maistream già mezzo secolo fa si rivolgeva al mondo dell’improvvisazione e della composizione.

At the end of November 1972 the guitarist and pianist Ralph Towner and the double bass player Glen Moore enter the studio in New York for the ECM in order to record the tracks contained in this beautiful album in which the percussionist Collin Walcott and the oboist also participate Paul McCandless: although the Oregon ensemble was complete “Trios · Solos” is only credited to Towner and Moore: perhaps for contractual reasons (the band had already recorded their first album, which however was released in '80 and they were under contract with Vanguard Records and "Music Of Another Present Era" had been released in '72) or maybe also because in this LP the four never play all together as easily deduced from the title. For me "Trios Solos" represented the gateway to the innovative sound of Oregon which I later discovered in all the beauty of "Winter Light" (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/03/29/oregon-winter -light/).

the record opens with a Towner tune, "Brujo": tabla, 12-string guitar, and upright bass with one chord solo by Towner and one by Moore; "Belt of Asteroids" which closes the first side is a splendid, long and improvised double bass solo, a rarity in those days. Piano and guitar with double bass give us a version of Bill Evans' famous standard "Re: Person I Knew" and I think that the "Pianist Towner" has not been considered enough by the critics, "Raven's Wood" (which Oregon will reproduce in "Violin" from 1978) written by Towner with Paul McCandless and Moore is one of the most significant songs on this record with the melody sung by the oboe and with a perfect interplay between double bass and guitar, an anticipation of what Oregon would later give to enthusiasts of a jazz that, despite having references in the mainstream already half a century ago, turned to the world of improvisation and composition.
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JON HISEMAN’ TEMPEST “BBC Session 1973”

JON HISEMAN’ TEMPEST “BBC Session 1973”

JON HISEMAN’ TEMPEST “BBC Session 1973”

CASTLE · SANCTUARY RECORDS. CD, 2005

di alessandro nobis

Nel 2005 la Sanctuary Records pubblica il doppio CD “Under The Blossom” che contiene i due lavori dei Tempest ovvero “Tempest” del 1973 (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2022/03/17/jon-hisemans-tempest-tempest/) e “Living in  Fear” del 1974 entrambi pubblicati originariamente dalla Bronze Records e che soprattutto contiene sette tracce finora ufficialmente inedite (ma presenti nel bootleg “Live in London ’74”, titolo fuorviante oltre che errata data) provenienti dall’archivio BBC; si tratta del concerto della durata di circa un’ora che il 2 giugno 1973 che il quintetto tenne per la BBC RADIO ONE al Golders Green Hippodrome e che quindi presenta un repertorio di brani tratti dal disco d’esordio.

Quintetto perchè l’aspetto più interessante di queste sette brani è la presenza dei due chitarristi Alan Holdsworth e Ollie Halsall che vanno ad aggiungersi naturalmente a Jon Hiseman, Mark Clarke e Paul Williams, una line-up che va ulteriormente ad arricchire le potenzialità espressive dei Tempest soprattutto nelle esibizioni dal vivo. Un esempio può essere la “dilatazione” di “Brothers“, già presente sull’album di esordio con una durata di poco più di tre minuti e qui portata ad oltre un quarto d’ora grazie al notevole interplay tra i due chitarristi che dialogano supportandosi vicendevolmente durate i rispettivi assoli; “Drums Away” è naturalmente un brano creato da John Hiseman, con un solo iniziale che prelude all’esposizione del riff delle chitarre, per poi proseguire lungamente mettendo a mio avviso in evidenza tutte le capacità creative del batterista in questo ambito musicale, un efficace rock blues dal suono molto marcato e piuttosto lontano dalle sonorità dei Colosseum, “Grey and Black” è una ballad eseguita in duo (sempre dal primo disco) con il Rhodes di Ollie Halsall che accompagna la voce di Paul Williams e con un bel arrangiamento per le voci

Insomma un’ora di Tempest dal vivo che fortunatamente oggi possiamo ascoltare con un audio decisamente professionale, un gruppo che avuto una breve durata ma che, in studio e dal vivo, ha sempre soddisfatto i palati più fini; qualcuno rimase stupito dalla svolta “hard” di Hiseman fatto salvo poi, dopo un attento ascolto comprendere ed applaudire …………..

JON HISEMAN’S TEMPEST “Tempest”

JON HISEMAN’S TEMPEST “Tempest”

JON HISEMAN’S TEMPEST “Tempest”

Bronze Records. LP, 1973

di alessandro nobis

Terminata (o, con il senno di poi, interrotta) l’avventura con i Colosseum, Mark Clarke (il bassista) e Jon Hiseman ovvero la sezione ritmica della band chiamano lo straordinario chitarrista Alan Holdsworth (e violinista) ed il cantante Paul Williams per formare questo eccellente “Power Trio + 1” direi diverso dagli altri gruppi con lo stesso tipo di formazione come il trii di Rory Gallagher, i Cream o quello di Jeff Beck con Tim Bogert e Carmine Appice (gli ultimi due come noto la ritmica dei Vanilla Fudge) o ancora quello di Leslie West. Otto composizioni, sei scritte con lo zampino del batterista, una da Holdsworth (con John Edwards) ed una da Clarke (con Suzy Bottomley) sono la scaletta del disco, musica parecchio distante dal blues rispetto ai Colosseum e più orientata verso un rock più robusto ed efficace, e per questa “deviazione” piuttosto criticata dai fans dei Colosseum all’epoca.

Ascoltato cinquanta anni dopo il progetto John Hiseman’s Tempest (questo il primo nome del gruppo) è ancora interessante e ben “vivo”, naturalmente splendidamente suonato e vario nel repertorio; la duttilità di Hiseman in coppia con l’efficace basso elettrico di Clarke si sposano perfettamente con la straordinaria chitarra e con la potente voce di Williams e i tre brani della prima facciata scritti da trio Hiseman / Clarke / Holdsworth presentano agli appassionati tutto il talento dell’allora sconosciuto ventisettenne chitarrista (che al tempo ancora non aveva pubblicato alcun album) attraverso i suoi assoli per lo stile rimasto inimitato vuoi per la tecnica che per la capacità di mescolare diversi idiomi ed ottenerne uno personale (ascoltare “Metal Fatigue” del 1985 per capire). In “Upon Tomorrow” si respira aria di jazz acustico ed elettrico e svela anche Holdsworth come violinista (bello il suo solo iniziale) confermando l’indovinatissima scelta dei due ex Colosseum di ingaggiare il talentuoso musicista che si adatta benissimo ai ritmi più vicini come detto al jazz elettrico come un paio di anni dopo confermerà registrando l’ottimo “Bundles” dei Soft Machine. Ma le sorprese non finiscono qui, in “Grey And Black” ballad scritta e suonata esclusivamente da Mark Clarke, ascoltiamo il tocco appropriato al Fender Rhodes e la voce del bassista con un efficace arrangiamento a due voci.

Un disco riuscitissimo, per gustarlo nel migliore dei modi è necessario però scordarsi per un’oretta il sound dei Colosseum.

HOT TUNA “The Phosphorescent Rat”

HOT TUNA “The Phosphorescent Rat”

HOT TUNA “The Phosphorescent Rat”

Grunt Records. LP, 1973

di alessandro nobis

Questo è uno dei miei favoriti album del Tonno Caldo vuoi per le belle composizioni di Kaukonen, per il suono elettro-acustico che caratterizza gli arrangiamenti ed anche per la sua grafica “a pallini” ripresa anche nella busta che contiene il vinile e sull’etichetta dove spunta la parola Grunt tra i pallini colorati. E’ anche il primo album dopo l’uscita di Casady e Kaukonen dai Jefferson Airplane che da lì a poco sarebbero diventati i Jefferson Starship arruolando il violinista Papa John Creach, con gli Hot Tuna in “Burgers” e “First Pull up Then Pull Down“; il trio presenta alla batteria ancora un volta il fedelissimo Sammy Piazza e rispetto ai precedenti lascia intravedere in alcuni brani (“Easy Now“) la tendenza della band di evolversi verso un suono ancora più elettrico che li distinguerà negli album seguenti come “American Choice” o “Yellow Fever”. Qui comunque il suono è ancora, come detto, un perfetto equilibrio tra l’acustico e l’elettrico, con indovinate e deliziose orchestrazioni curate dagli archi diretti da Tom Salisbury (“Corners Without Exits” e “Soliloquy for 2“) nella quale emergono anche le accurate sovraincisioni delle chitarre di Kaukonen, suono ancora legato cristallino fingerpicking degli strumentali “Seeweed Strut” e della rilettura del brano di Reverend Gary Davis “Sally, Where’d You Get Your Liquor From?” che chiude il disco ed anche questa fase degli Hot Tuna, fase riaperta comunque più avanti. Brani come “I see the light” sono rimasti fortunatamente nel repertorio degli Hot Tuna per decenni, a cominciare dal doppio live “Double Dose”, in “And Furthermore …”e nel secondo volume di “Live at Sweetwater”.

Grande disco, lo ascolto ancora spesso e sempre mi entusiasma.

This is one of my favorite Hot Tuna albums either for Kaukonen's beautiful compositions, for the electro-acoustic sound that characterizes the arrangements and also for its "dot" graphics, also found in the envelope containing the vinyl and on the label where the word Grunt appears between the colored dots. It is also the first album after Casady and Kaukonen's departure from Jefferson Airplane which would soon become Jefferson Starship enlisting violinist Papa John Creach, with Hot Tuna on "Burgers" and "First Pull up Then Pull Down "; the trio once again features the faithful Sammy Piazza on drums and compared to the previous ones, lets glimpse in some tracks ("Easy Now") the trend of the band to evolve towards an even more electric sound that will distinguish them in the following albums such as "American Choice" or "Yellow Fever". However, here the sound is still, as mentioned, a perfect balance between the acoustic and the electric, with guessed and delightful orchestrations curated by the strings directed by Tom Salisbury ("Corners Without Exits" and "Soliloquy for 2") in which emerge also the accurate overdubs of Kaukonen's guitars, still crystalline legato fingerpicking sound of the instrumental "Seeweed Strut" and the reinterpretation of the Reverend Gary Davis song "Sally, Where'd You Get Your Liquor From?" which closes the disc and also this phase of Hot Tuna, a phase reopened later on. Tracks like "I see the light" have fortunately remained in Hot Tuna's repertoire for decades, starting with the double live "Double Dose", in "And Furthermore ..." and in the second volume of "Live at Sweetwater".

HOT TUNA “Burgers”

HOT TUNA “Burgers”

HOT TUNA “Burgers”

Grunt Records FTR 1004. LP, CD, 1972

di alessandro nobis

Probabilmente gli Hot Tuna sono l’unica band che ha pubblicato il loro primo album in studio dopo due dischi dal vivo, e già questo dà la misura della cura che Kaukonen e Casady hanno riservato alla registrazione di Burgers, una delle più interessanti dell’intera discografia del gruppo che da costola degli Airplane ha saputo avere un’identità ben definita e sopravvivere di oltre quaranta anni alla band madre. Quest’anno è il cinquantesimo anniversario di Burgers e per festeggiare l’avvenimento alla Carnegie Hall si terrà il 22 aprile uno straordinario concerto dove la band eseguirà l’integrale dell’album pubblicato dalla Grunt Records e si festeggerà l’ottantesimo compleanno di quello che Bill Graham ebbe a definire “The Sex Symbol of Scandinavia”.

“Burgers” è un signor disco che pur mantenendo un forte legame con le radici del blues acustico contiene alcune delle più significative composizioni di Jorma Kaukonen alcune delle quali ancora in repertorio sebbene rinnovate negli arrangiamenti nelle esibizioni live oltreoceano, numerose e sempre sold-out. Blind Boy Fuller (“Keep on Truckin’” con la slide di Richard Talbott, autore di un album per la Grunt nello stesso anno, e le tastiere di Nick Buck), l’immancabile Gary Davis (“Let’s Together Right Down Here“), il padre spirituale della band e Julius Davis con la sua “99 Year Blues” la cui versione si può ascoltare nel monumentale cofanetto “Anthology of American Folk Music” curata da Harry Smith; ma da sottolineare sono, come dicevo, i brani originali tra i quali lo splendido “True Religion” un blues con il sempre puntuale violino di Papa John Creach – esemplare il suo assolo – ed il pianoforte di Nick Buck, una brano che si “elettrifica” man mano che si sviluppa, ed il solo di chitarra sovrainciso certifica la cura certosina degli arrangiamenti o la seguente “Highway Song” la cui parte vocale è impreziosita dall’intervento a supporto della voce di Kaukonen di David Crosby. Da ultimo voglio citare il mio brano preferito, lo strumentale “Water Song” con l’incipit della chitarra fingerpicking che fa contraltare all’elettrica e l’incisivo basso di Casady, sicuramente uno dei massimi bassisti in assoluto, ed anche probabilmente uno dei meno conosciuti.

Il suono del gruppo qui è molto solido ed equilibrato, il drumming di Sammy Piazza e le intricate linee di basso di Jack Casady formano una sezione ritmica di primissimo livello, sulla quale il violino e le chitarre sovraincise regalano uno dei più interessanti dischi prodotti dai musicisti della scena californiana di quegli anni.

Probably Hot Tuna are the only band that has released their first studio album after two live records, and this already gives the measure of the care that Kaukonen and Casady have reserved for the recording of Burgers, one of the most interesting of the whole discography of the band that from the rib of Airplane has been able to have a well-defined identity and survive the mother band for over forty years. This year is Burgers’ 50th anniversary and to celebrate the event at Carnegie Hall there will be an extraordinary concert on April 22nd where the band will perform the complete album released by Grunt Records and will celebrate the 80th birthday of the one who Bill Graham defined it as “The Sex Symbol of Scandinavia”.

“Burgers” is a disc that while maintaining a strong link with the roots of the acoustic blues contains some of the most significant compositions by Jorma Kaukonen some of which are still in the repertoire although renewed in the arrangements in the live performances overseas, numerous and always sold-out. Blind Boy Fuller (“Keep on Truckin’” with the slide by Richard Talbott, author of an album for Grunt in the same year, and the keyboards of Nick Buck), the inevitable Gary Davis (“Let’s Together Right Down Here“), the band’s spiritual father and Julius Davis with his “99 Year Blues” version of which can be heard in the monumental “Anthology of American Folk Music” box set edited by Harry Smith; but to underline are, as I said, the original pieces including the splendid “True Religion” a blues with the ever punctual violin by Papa John Creach – his solo is exemplary – and the piano by Nick Buck, a piece that “electrifies itself” as it develops, and the overdubbed guitar solo certifies the painstaking care of the arrangements or the following” Highway Song” whose vocal part is embellished by the intervention in support of the voice of Kaukonen by David Crosby. Lastly I want to mention my favorite song, the instrumental “Water Song” with the incipit of the fingerpicking guitar that contrasts with the electric and incisive bass of Casady, certainly one of the greatest bassists ever, and also probably one of the less known.

The sound of the group here is very solid and balanced, the drumming of Sammy Piazza and the intricate bass lines of Jack Casady form a rhythm section of the highest level, on which the violin and the overdubbed guitars give one of the most interesting records produced by the musicians of the Californian scene of those years.

PLANXTY “Planxty”

PLANXTY “Planxty”

PLANXTY “Planxty”

Polydor Records. LP, 1973

di alessandro nobis

Il primo disco dei Planxty ha avuto nella storia del folk revival irlandese ma a mio avviso in quello dell’Europa Continentale un impatto decisivo, e questo per almeno un paio di ragioni: la prima per la cura e l’innovazione negli arrangiamenti che prevedevano l’utilizzo di strumenti e quindi di sonorità nuove per i cultori del folk irlandese più ortodosso come il bozouky e gli strumenti a plettro in generale e la seconda per la produzione di materiale nuovo scritto seguendo la tradizione portato da tutti i componenti ovvero Liam O’Flynn, Andy Irvine, Christy Moore e Donal Lunny ed a ciò aggiungo che il loro sguardo era rivolto anche altrove dalla cui tradizione pescheranno in seguito “gemme” riarrangiate con grande maestria provenienti dai repertori d’oltreoceano e balcanici.

All’autore dell’ottimo volume “The Humours of Planxty”, Leagues O’Toole (Hodder Headline Ireland, 2006), Liam O’Flynn racconta: “Il materiale del primo album fu il risultato dell’apporto che ognuno di noi mise sul tavolo. E molto materiale fu portato, che fu ben valutato e selezionato. Io portai quattro strumentali, Christy ed Andy portarono quattro canzoni ciascuno e Donal assunse le vesti di direttore artistico”. “Sì, lui ebbe quel ruolo” annuisce Andy; “lui e solo lui aveva la capacità di ascoltare il suono dell’intera band mentre suonava. Personalmente trovavo questo per me impossibile da fare, quando suonavo mi isolavo totalmente.”

Questo disco che si può definire iconico e seminale contiene brani che hanno sempre identificato i  Planxty come l’arrangiamento di “Raggle Taggle Gipsy”, brano dell’Irish Traveller John Reilly, o i due composti da Turlough O’Carolan ovvero “Planxty Irwin” e “Seabeg and Seemore” (una versione diversa rispetto a quella apparsa su 45giri) con uno splendido arrangiamento dove le pipes di O’Flynn suonano sopra gli intrecci dei plettri). Tra le ballate naturalmente voglio citare “The Blacksmith” a chiusura dell’album, l’antimilitarista “Arthur McBride” proveniente dalla Contea di Donegal con la voce solista di Irvine (ballata raccolta da P.W. Joyce ai primi del Novecento e che fa riferimento ai reclutamenti forzati per la Prima Guerra Mondiale) e “Sweet Thames” omaggio al grande Ewan McColl che la compose per una riduzione radiofonica di una versione londinese di “Giulietta e Romeo”.

Forse non il migliore lavoro in studio dei Planxty, personalmente sono molto affezionato a “The Woman I Loved so Well (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2021/01/19/suoni-riemersi-planxty-the-woman-i-loved-so-well/) ma comunque di sicuro una pietra miliare del nuovo folk irlandese.

Planxty's first album had a decisive impact in the history of the Irish folk revival but in my opinion in that of Continental Europe, and this for at least a couple of reasons: the first for the care and innovation in the arrangements which included the 'use of instruments and therefore of new sounds for the more orthodox Irish folk enthusiasts such as the bozouky and plectrum instruments in general and the second for the production of new material written following the tradition brought by all the components or Liam O'Flynn , Andy Irvine, Christy Moore and Donal Lunny and to this I add that their gaze was also directed elsewhere from whose tradition they would later draw "gems" rearranged with great mastery from overseas and Balkan repertoires.

To the author of the excellent volume “The Humours of Planxty”, Leagues O'Toole (Hodder Headline Ireland, 2006), Liam O'Flynn tells: “The material of the first album was the result of the contribution that each of us put on table. And a lot of material was brought in, which was well evaluated and selected. I brought four instrumentals, Christy and Andy each brought four songs, and Donal took over as artistic director." “Yeah, he had that role,” Andy nods; “he and only he had the ability to hear the sound of the whole band as he played. Personally I found this impossible for me to do, when I played I totally isolated myself.”

This disc that can be defined as iconic and seminal contains songs that have always identified Planxty as the arrangement of "Raggle Taggle Gipsy", a song by Irish Traveler John Reilly, or the two composed by Turlough O'Carolan or "Planxty Irwin" and “Seabeg and Seemore” (a different version than the one that appeared on 45rpm) with a splendid arrangement where O'Flynn's pipes play above the interlacing of the picks). Among the ballads of course I want to mention "The Blacksmith" at the end of the album, the anti-militarist "Arthur McBride" from County Donegal with the lead voice of Irvine (ballad collected by P.W. Joyce in the early twentieth century and which refers to forced for the First World War) and "Sweet Thames" a tribute to the great Ewan McColl who composed it for a radio reduction of a London version of "Romeo and Juliet".

Perhaps not the best studio work by Planxty, personally I am very fond of “The Woman I Loved so Well (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2021/01/19/suoni-riemersi-planxty-the-woman-i -loved-so-well/) but certainly a cornerstone of the new Irish folk.

PADDY MOLONEY · SEAN POTTS “Tin Whistles”

PADDY MOLONEY · SEAN POTTS “Tin Whistles”

PADDY MOLONEY · SEAN POTTS

“Tin Whistles”

Claddagh Records. LP, 1973

di alessandro nobis

Il tin whistle irlandese è lo strumento “propedeutico” a chi vuole affrontare le “uilleann pipes”, e questo lavoro del ’73 può essere considerato come una sorta di “libro sacro” di questo strumento dove la qualità della musica e l’abilità di Potts e Moloney raggiungono livelli probabilmente inarrivabili.

Qui i due Chieftains – tre se consideriamo l’apporto ritmico del bodhran di Peadar Mercier, con Il gruppo dal ’66 al ‘76 – compilano un’antologia della tradizione musicale irlandese che al primo ascolto può sembrare un poco ostico ma che invece ha il grande pregio di mettere a nudo il folk irlandese nella sua quintessenza e in modo scevro anche da i più semplici arrangiamenti, un ritorno alle origini a mio avviso, quasi alla sua probabile origine pastorale.

Ecco quindi la splendida “Julia Delaney” che apre la seconda facciata con il bodhran di Mercier, reel tramandato a Potts dallo zio Tommy, la melodia raccolta nel Connacht di “An Draighneàn” nella quale Moloney suona un tin whistle in Si bemolle, ci sono la slow air eseguita in solo dal piper dei Chieftain (“Seolaim Araon na Géanna Romhainn”) e la celebre “George Brabazon” di Turlogh O’Carolan – e come poteva mancare una composizione dell’arpista della quale i Chieftains propongono una versione live nel loro album dal vivo; un altro brano tramandato è “The Cock of the North Side” – abbinato a “The Ballyfin Slide”- , uno slide tramandato a Moloney dal nonno ed infine voglio segnalare un classico dei pipers, eseguito qui dai flauti diritti, ovvero il jig “The Hug of the Spinning Wheel”.

Non pensate di trovare qui freddi esercizi di stile o autoreferenzialità, qui ci sono “solamente” due straordinari musicisti chiusi in uno studio di registrazione dove la loro amicizia ed il loro rispetto reciproco hanno dato vita a questo importante manuale di altissimo livello del flauto diritto irlandese.

Imperdibile.

THE CHIEFTAINS “4”

THE CHIEFTAINS “4”

THE CHIEFTAINS “4”

CLADDAGH RECORDS. LP, CD 1973

di alessandro nobis

Il quarto album degli irlandesi Chieftains è considerato una svolta nel suono e nella storia del gruppo, svolta dovuta all’ingresso dell’arpista Derek Bell con il suo bagaglio classico e con il suo straordinario talento che ha reso qualche modo più soffice il sound dei Chieftains che, lo ricordo, nell’ambito del folk revival irlandese si caratterizzava in quegli anni per la totale assenza degli strumenti a plettro prediligendo il suono del violino (Sean Keane e Martin Fay), delle uilleann pipes di Paddy Moloney, dei flauti (Sean Potts e Michael Turbridy) e delle percussioni di Peadar Mercier.

La copertina Italian del 45 giri “Woman of Ireland” con l’errore nel titolo.

Ascoltate per esempio lo standard “Carrickfergus” introdotto dalla maestosa arpa di Bell un arrangiamento cameristico e la linea melodica vocale è sostituita dall’arpa e dal violino o le composizioni attribuite a Turlogh O’Carolan “Morgan Magan” e “Sláinte Bhreagh Hiulit (Hewlett)”:è la magia del suono dei Chieftains che all’epoca soprese anche il regista Stanley Kubrick che per la colonna sonora del suo capolavoro “Barry Lyndon” scelse la slow air “Mná na hÉireann (Women of Ireland)”,scritta dal grande Sean O’Riada, perfetta per ambientare le vicende narrate nel film grazie alla sua potenza descrittiva e dal suo arrangiamento straordinario, uno dei (tanti) capolavori del gruppo irlandese che aumentò a far crescerne la popolarità.

La seconda facciata si apre con il dialogo tra il bodhran di Peadar Mercier e il tin whistle di Sean Potts che apre “The Mornig Dew” – uno dei cavalli di battaglia live del gruppo – e se cercate altri riferimenti ai maestri irlandesi delle precedenti generazioni ne trovate uno nel set di danze che chiude la facciata, quel “An Suisin Ban (The White Blanket)” che Moloney ascoltò dal violinista Junior Crehan ai funerali di Willie Clancy.

Il quarto ellepì dei Chieftains è considerato uno dei migliori della loro sterminata discografia assieme a “Bonaparte’s Retreat” ed appartiene alla prima fase artistica del gruppo nella quale l’attaccamento alle radici irlandesi era assoluto: poi iniziarono le collaborazioni con artisti “alloctoni” che diedero a Moloney & C. meritati visibilità e successo planetario. “Irish Heartbeat” con Val “The Man” Morrison pubblicato nel 1988 fu una straordinaria eccezione di quel periodo.

QUI UN ARTICOLO SUL PRIMO DISCO DEI CHIEFTAINS: https://ildiapasonblog.wordpress.com/2020/02/05/suoni-riemersi-the-chieftains/

SÉAMAS MAC AONGHUSA (SEAMUS ENNIS) “Strains On Wind Once Blown – Vol. 1: The Pure Drop”

SÉAMAS MAC AONGHUSA (SEAMUS ENNIS) “Strains On Wind Once Blown – Vol. 1: The Pure Drop”

SÉAMAS MAC AONGHUSA (SEAMUS ENNIS)

“Strains on Wind Once Blown. Volume 1; the Pure Drop”

TARA RECORDS 1077. LP, 1974

di Alessandro Nobis

Non c’è mai stata nella musica tradizionale irlandese una personalità così forte ed importante come quella di Séamas Mac Aonghusa, Seamus Ennis.” Così lo definisce il piper John McSherry nel suo importante volume “The Wheels of the World” (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/02/09/colin-harper-john-mcsherry-the-wheels-of-the-world/) la cui copertina ritrae appunto Ennis mentre viene registrato da Jean Ritchie: narratore, etnomusicologo, ricercatore, conduttore radiofonico e soprattutto straordinario piper, Seamus Ennis è stato uno dei “fari” che hanno illuminato la storia della musica popolare irlandese nel XX° secolo, e continua a farlo visto che al suo lavoro come quello di William Clancy o Sean O’Riada – per citare due figure fondamentali – fanno riferimento anche le nuove generazioni di pipers e musicisti tradizionali in generale.

Molto del repertorio che suono qui l’ho appreso da mio padre” scrive nell’interno della copertina del disco che contiene le sue registrazioni del 1973 e pubblicata dalla benemerita Tara l’anno seguente e che riporta sul retro uno scritto di Liam O’Flynn. Questo lavoro, uno dei più alti esempi di musica per uilleann pipes mai registrati, contiene quindici tracce tra le quali ve ne voglio segnalare alcune per me particolarmente significative del lavoro di ricerca e di interpretazione. Inizierei con le due gighe in 6/8 “Chase me Charlie & The Dingle Regatta (Two Single Jigs)”, una delle 212 arie che Ennis trascrisse ascoltando tale Colm Keane di Glynsk nei pressi di Carna nel Connemara (costa occidentale), e quindi il set di reels “The Pure Drop & The Flax in Bloom”, una sorta di passaggio per i pipers che si trova nella raccolta O’Neill (1903). Del repertorio tramandatogli dal padre ecco la slow air “The Fairy Boy” (una melodia il cui testo era cantato in irlandese) ed il set di hornpipes “The Groves Hornpipe & Dwyer’s Hornpipe”.

Ennis non ha una corposa discografia alle spalle ma la sua importanza travalica l’aspetto prettamente strumentale visti i suoi interessi che abbiamo citato in apertura. Il suo set di cornamuse, che il padre James liutaio e piper aveva costruito nel 1908 (il padre era considerato l’ultimo rappresentante della vecchia scuola di pipers, la madre era invece una violinista della Contea di Mo

Wheels
SEAMUS ENNIS & JEAN RITCHIE

naghan), andò in eredità al suo grande amico Liam O’Flynn che per tre anni condivise con lui un appartamento, fino a quando si trasferì in un caravan a Naul in un appezzamento che aveva acquistato. Come racconta Peter Browne, “il set venne lasciato alla morte di O’Flynn a Páraic MacMathúna, figlio del collezionista ricercatore e speaker radiofonico della RTE Ciarán; al 100° anniversario della nascita di Seamus Ennis, vennero suonate da valenti pipers al Seamus Ennis Centre di Naul, nella Contea di Dublino, area di origine della famiglia Ennis”.

Pensate che Seamus Ennis si esibì al di fuori dell’Irlanda, solamente nel Regno Unito ed a Rotterdam, nel 1976, durante un festival di musica “celtica” (il virgolettato è di John McSherry) e fu invitato anche ad una edizione del Newport Folk Festival. Di lui Paddy Glackin dice a John McSherry che “quando Seamus Ennis saliva sul palcoscenico pur esibendosi da solo con la sua personalità e carisma riempiva l’intero spazio, catturando la totale attenzione del pubblico presente”. O’Flynn racconta come Ennis fosse uno strumentista insuperato nella tecnica e nell’espressività: “il suo stile era impeccabile, aveva il totale controllo dello strumento ma non gli piaceva stupire il pubblico solamente con la tecnica alla quale preferiva l’eleganza”.

Una settimana prima della sua dipartita O’Flynn e Glackin, lo accompagnarono per una visita medica: infinito rispetto ed amicizia verso un uomo che seppe trasmettere la sua eredità musicale ed il suo contagioso entusiasmo alla generazione successiva.

TRACK LIST:

  1. The Pure Drop & The Flax in Bloom (Two Reels)
  2. The Fairy Boy (Slow Air)
  3. The Groves Hornpipe & Dwyer’s Hornpipe (Hornpipes)
  4. O’Sullivan the Great (March)
  5. When Sick, Is it Tea You Want? & The Humours of Drinagh (Double Jigs)
  6. By the River of Gems & The Rocky Road to Dublin (Slow Air and Slip-Jig)
  7. Ask My Father & Pat Ward’s Jig (Two Single Jigs)
  8. Valencia Harbour (Slow Air)
  9. The Standing Abbey & The Stack of Barley (Hornpipes)
  10. The Leitrim Thrush & Miss Johnson (Two Reels)
  11. The Return From Fingal (March)
  12. Chase me Charlie & The Dingle Regatta (Two Single Jigs)
  13. White Connor’s Daughter, Nora (Slow Air)
  14. Slieve Russell & Sixpenny Money (Two Double Jigs)
  15. Stay for Another While : I Have No Money & The Cushogue (Three Reels)
  16. The Brown Thorn (Slow Air)

 

 

 

JOHNNY SHINES “The Blues Came Falling Down: live 1973”

JOHNNY SHINES “The Blues Came Falling Down: live 1973”

540 – JOHNNY SHINES “The Blues Came Falling Down: live 1973”

Omnivore Records, CD 2019

di Alessandro Nobis

Questi ottanta minuti rappresentano una sorte di Santo Graal per gli estimatori di Johnny Shines, uno di quelli che come padrini musicali ebbe due tizi come Howlin’ Wolf e Robert Johnson. Non so se mi spiego. La registrazione, di ottima qualità, ci riporta al 1973 quando assieme a Leroy Jodie Pierson (che lo accompagna in tre brani) tenne un concerto a St. Louis presso la Washington University.

81imKmX6NBL._SY355_Classe 1915, nato dalle parti di Memphis lungo il corso del Mississippi, Shines fa parte di quella schiera di straordinari talenti che ad un certo punto della carriera, con varie motivazioni, sparirono letteralmente dal mondo della musica per poi essere riscoperti da compagnie discografiche, da musicisti europei ed americani e da impresari bianchi. Nel caso specifico Shines effettuò delle sedute di registrazione nella seconda parte degli anni Quaranta per la Columbia e la Chess che non portarono però ad alcuna pubblicazione e nel ’52 registrò un ottimo disco che non ebbe alcun risultato commerciale tanto da far decidere a Shines di abbandonare la strada del musicista per dedicarsi ad altro, l’intenzione di andare in Africa e poi il duro lavoro in un’impresa di costruzioni.

Alla metà degli Sessanta – nel 1966 – la lungimirante Vanguard records lo trovò che fotografava (si avete capito bene, che “fotografava”) altri bluesman in un club del Southside e non perse l’occasione di registrare nei suoi studi alcuni brani che divennero parte del terzo volume della prima serie “Chicago: the Blues Today” (a divedersi le due facciate c’erano con Shines anche Johnny Young e Big Walter Horton) che finalmente contribuì a far conoscere questo straordinario bluesman al pubblico dei bianchi americani ed europei assieme agli altri che ebbero spazio in questi tre fondamentali LPs. Erano i tempi in cui negli Stati Uniti ma soprattutto in Inghilterra c’era un forte interesse verso il blues americano ed infatti lì emersero straordinari talenti della cosiddetta corrente del British Blues, cito solamente i Bluesbreakers, gli Stones, i Fleetwwod Mac, la Graham Bond Organisation e gli Yardbirds.

In questa registrazione c’è la sua potente voce (ascoltatela e ascoltate la slide nella sua “Have you ever loved a woman”), la sua straordinaria chitarra, c’è la sua storia personale e la storia del blues americano con i suoi protagonisti, da Robert Johnson (“Kind Hearted Woman”, “I’m a steady Rollling Man”, “They are red hot” e Sweet Home Chicago), c’è Sleepy John Estes (“Someday Baby Blues”), c’è anche Wllie Johnson (“It’s nobody fault but mine”) ma soprattutto ci sono i suoi blues, le sue sofferenze accumulate in dura vita che improvvisamente gli regala una chance di riscatto sociale.

Per me disco imperdibile. “Chicago Blues Legend”, recita lo sticker nel cellophane che avvolge il cd: niente di più vero.