DICK HECKSTALL · SMITH “A Story Ended”

DICK HECKSTALL · SMITH “A Story Ended”

DICK HECKSTALL · SMITH “A Story Ended”

Bronze Records. LP, 1972. Esoteric Records. CD, 2009

di alessandro nobis

Visto che il gruppo di John Hiseman a metà del 1971 si sciolse, Dick Heckstall · Smith, il sassofonista dei Colosseum e dello scenario del blues inglese · un nome per tutti la Graham Bond Organisation · decide di incidere un disco a proprio nome e “convoca” una serie di amici per registrare queste sei tracce da lui composte; se cercate i “Colosseum” ne trovate traccia (e che traccia!) nella lunga “The Pirate’s Dream” dove la band di Hiseman è quasi al completo, con Graham Bond all’Hammond e Chris Spedding alla chitarra e nella seguente “Same Old Thing“, composte come la precedente dal sassofonista con Clem Clempson e Hiseman ed eseguita da Paul Williams (voce), Caleb Quayle (chitarra), Mark Clarke (basso) e Rob Tait alla batteria oltre naturalmente a D. H·S. Inconfondibili soprattutto nel primo brano citato la sua costruzione, i passaggi strumentali e la voce di Chris Farlowe, un brano in perfetto idioma “Colosseum”.

Le altre quattro composizioni sono scritte da Heckstall · Smith e di queste voglio citare “What The Morning Was After” con il testo di Pete Brown, la brillante chitarra acustica di Caleb Quaye e due pianoforti, quello di Graham Bond e quello di Gordon Beck che ricordo essere uno dei più interessanti pianisti della scena del jazz europeo: è una ballad introdotta dal sax tenore con una bellissima parte di chitarra ed un importante ruolo dei pianoforti e con la voce di Williams perfettamente calibrata. Nella seconda parte il ritmo accelera ed il sax esegue un efficace “solo”, il ritmo quindi rallenta e lascia spazio alla chitarra che sottolinea la voce, bellissimo a mio avviso. Disco da riscoprire assolutamente, non solo per completisti, anche perchè nella versione CD della Esoteric Records sono presenti cinque brani inediti, tre esecuzioni live della band che Heckstall Smith mese assieme per promuovere il disco (“Moses in the Bullrushhourses“, “The Pirate’s Dream” e “No Amount of Loving“) e due registrazioni provenienti dal progetto “Manchild“, gruppo che presentava James Litherland alla voce e chitarra ma che non pubblicò nemmeno un singolo e la cui musica, diversa da quella alla quale ci aveva abituato il sassofonista, ruota attorno ad un robusto rock che al di là dei soli di sax a mio avviso decisamente non regge il tempo. Bene comunque la Esoteric ad inserire i due brani, è sempre interessante conoscere gli “sviluppi” post Colosseum.

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HOT TUNA “Yellow Fever”

HOT TUNA “Yellow Fever”

HOT TUNA “Yellow Fever”

Grunt Records. LP, 1975

di alessandro nobis

Penso che i tre album usciti tra il 1975 ed il 1976 ovvero “America’s Choice”, “Hopkrov“, parte di “Double Dose” e “Yellow Fever” – del quale per il Record Store Day ne è stata pubblicata una versione con vinile naturalmente giallo – spiazzarono non dico tutti · ma quasi tutti · i followers dell’epoca innamorati di quel suono magico elettro·acustico costruito da Jorma Kaukonen e Jack Casady, suono che poi avrebbero ripreso più avanti fino ai nostri giorni. Qui Kaukonen opta per un nuovo suono, più hard, effettato dall’elettronica come non gli conoscevamo con assoli efficacissimi come in “Song for the Fire Maiden” e ingaggia con Casady un batterista incisivo in grado di assecondare questa sua svolta come Bob Steeler, un secondo chitarrista John Sherman (in “Baby What You Want Me To Do) ed il tastierista Nuck Buck (suo è il suono del sintetizzatore in “Bar Room Crystal Ball“).

“Hard Blues”,  “Hard Rock”, “Mainstream Rock” chiamatelo come volete ma questo e gli altri due lavori della tripletta citata in apertura restano a mio avviso degli ottimi dischi; Kaukonen non abbandona le sue origini di suonatore di blues e propone in “Yellow Fever” due rivisitazioni di brani accredidati a Mathis James “Jimmy” Reed (il già citato “Baby What You Want Me To Do) e “Hot Jelly Roll Blues” del misconosciuto bluesman George Carter, vissuto nella prima metà del XX secolo che registrò, questo per la cronaca, solamente quattro brani su 78giri; i due brani aprono “Yellow Fever”, quasi il chitarrista californiano volesse avvisare i suoi estimatori che non aveva abbandonato il blues e che non aveva l’intenzione di farlo ma che aveva trovato un modo diverso (più moderno? più innovativo?) per suonarlo.

Tra i brani di nuova composizione voglio citare “Half / Time Saturation” scritto dai tre Tuna e con notevolissimo assolo “effettato” di Kaukonen ed il conclusivo brano del chitarrista “Surphase Tension” con il fingerpicking elettrico in apertura ed una interessante sovrapposizione di chitarre ma con un andamento che sembra riportare il suono della band a quello dei primi album.

“Yellow Fever” è un album da rivalutare a mio parere. Chi ce l’ha lo estragga dallo scaffale e lo riposizioni sul giradischi.

JOHN HENRY DEIGHTON (a.k.a. CHRIS FARLOWE) & THE THUNDERBIRDS

JOHN HENRY DEIGHTON (a.k.a. CHRIS FARLOWE) & THE THUNDERBIRDS

Chris Farlowe & The Thunderbirds “Buzz With the Fuzz”

Decal Records. LP, 1987

di alessandro nobis

Narra la leggenda che John Henry Deighton, classe 1943, ad un certo punto della sua appena iniziata carriera si inventò un nuovo nome e cognome, il primo suggerito da un amico ed il secondo ispirato dal chitarrista jazz Tal Farlow: Chris Farlowe appunto come tutti noi lo conosciamo, il cantante dei Colosseum dal 1970 ai giorni nostri.

E prima della band di Jon Hiseman? Parte di questo “prima” è racchiuso in questo vinile edito dalla Decal nl 1987 e raccoglie le registrazioni effettuate per la EMI dal contante con i Thunderbirds nel 1963 e pubblicate come singoli fino al 1965; la voce è potente, “nera” quasi travolgente nelle sue interpretazioni e se Farlowe è ancora attivo un motivo ci sarà anche se naturalmente ad ottanta anni suonati non si può pretendere che la voce resti quella di un tempo, lui lo sa e la usa in modo intelligente a quanto raccontano i report tedeschi sui recenti concerti dei Colosseum.

Dai Thunderbirds sono transitati lasciando una traccia significativa musicisti del calibro di Nicky Hopkins, Dave Greelskade, Carl Palmer e Albert Lee, e da cantante di skiffle degli inizi il baricentro della musica di Farlowe si è gradatamente spostato verso il blues, il rock’n’roll,  al soul  fino al rock venato di jazz come lo era quello della band di Hiseman; “Reelin’N’Rocking” di Chuck Berry del ’62, le due versioni dello straordinario slow blues “Stormy Monday Blues” di T-Bone Walker del ’65 che porterà in eredità ai Colosseum, i blues di “What you gonna do” e “Hound Dog” di Big Mama Thornton (la sua versione è su “Ball and Chain) con gli assoli di Albert Lee sono solo alcuni dei 45 giri di questo notevole “Buzz with the Fuzz“, antologia importante dei Thunderbirds, gruppo sciolto nel ’68 per le scarse vendite discografiche, e soprattutto per conoscere le origini del cantante londinese che dal ’70, come detto, andò a completare quella sorte di “Dream Team” che furono (e sono ancora) i Colosseum.

PETER KAUKONEN “Black Kangaroo”

PETER KAUKONEN “Black Kangaroo”

PETER KAUKONEN “Black Kangaroo”

GRUNT RECORDS. LP, CS, stereo8, 1972

di alessandro nobis

In realtà, parafrasando le parole di Bill Graham, i “sex symbol of Scandinavia” sono due, non solo Jorma ma anche il fratello Peter Kaukonen, chitarrista pure lui che nel 1972 per l’etichetta di famiglia dei Jefferson Airplane pubblicava con il suo gruppo questo primo disco, “Black Kangaroo“. La notevole chitarra di Peter la si può ascoltare anche in due pietre miliari della west coast musicale, ovvero “Blows Against the Empire” (una sorta di Arca di Noè del rock californiano) accreditato a Paul Kantner e “Sunfighter” della coppia Kantner / Grace Slick, oltre che in “Manhole” della stessa cantante e nel disco che riunì nell’89 i J. A. per l’ultima volta in studio.

Detto questo, la musica di “Black Kangaroo” a parte i due brani acustici che aprono e chiudono la seconda facciata ovvero “Barking Dog Blues” per chitarra acustica e mandolino (il mandolinista non compare nei credits, forse è lo stesso kaukonen?) e “That’s a Good Question” con il violoncello di Terry Adams è un rockblues d’autore (tutti i brani sono originali) piuttosto robusto con evidenti riferimenti a quello hendrixiano (vedi il brano iniziale “Up or Down” e “Dynamo Snackbar“), eseguito per lo più in trio al quale hanno contribuito tra gli altri il batterista Joey Covington (scomparso nel 2013 e con i Jefferson dal 1969 al 1972), il tastierista Nick Buck (con gli Hot Tuna) ed l’ottimo bassista elettrico Larry Weisberg. Pregevoli il solo di Kaukonen in “What all we know a Love” e l’introspettiva ballad “Billy’s Tune“.

Un disco ed un autore caduti nell’oblio, un vero peccato perchè la vena compositiva e la chitarra di Peter Kaukonen avrebbero meritato altra gloria; il disco venne pubblicato in Cd dal Wounded Knee Records nel 2007 con quattro inediti e lo spot radio promozionale.

In reality, paraphrasing Bill Graham's words, there are two "sex symbols of Scandinavia", not only Jorma but also his brother Peter Kaukonen, also a guitarist who in 1972 for the Jefferson Airplane family label released with his group this first record, "Black Kangaroo". Peter's remarkable guitar can also be heard on two West Coast musical milestones, namely "Blows Against the Empire" (a sort of Noah's Ark of Californian rock) credited to Paul Kantner and "Sunfighter" by the duo Kantner / Grace Slick, as well as in "Manhole" by the same singer and in the album that brought together J.A. for the last time in the studio in 1989.

That said, the music of "Black Kangaroo" apart from the two acoustic pieces that open and close the second side or "Barking Dog Blues" for acoustic guitar and mandolin (the mandolinist does not appear in the credits, maybe it's kaukonen himself?) and "That's a Good Question" with Terry Adams' cello is a rather robust signature rockblues (all the songs are original) with clear references to the Hendrixian one (see the initial song "Up or Down" and "Dynamo Snackbar"), performed mostly as a trio to which contributed, among others, drummer Joey Covington (who died in 2013 and with Jeffersons from 1969 to 1972), keyboardist Nick Buck (with Hot Tuna) and the excellent electric bass player Larry Weisberg. Valuable Kaukonen's solo in "What all we know a Love" and the introspective ballad "Billy's Tune".

A disc and an author fallen into oblivion, a real pity because Peter Kaukonen's compositional vein and guitar would have deserved more glory; the album was released on CD by Wounded Knee Records in 2007 with four unreleased tracks and the promotional radio spot.

PAPA JOHN CREACH

PAPA JOHN CREACH

“Papa John Creach”

Grunt Records FTR 1003. LP, 1971

di alessandro nobis

Grace Slick, Carlos Santana con Greg Rolie e Dave Brown, Jack Casady e Jorma Kaukonen, Jerry Garcia, John Cipollina, Paul Kantner, Joey Covington, Pete Sears sono i musicisti che hanno collaborato alla registrazione di questo primo disco solista del violinista Papa John Creach (1917 – 1994), al tempo membro dei Jefferson Airplane e degli Hot Tuna e con un brillante passato nel mondo del jazz e del blues dove ebbe modo di suonare con Big Joe Turner e T-Bone Walker tra gli altri, fino a quando nel ’70 entrò a far parte dei J.A. con i quali registrò i tre dischi prodotti dalla Grunt Records (“Bark“, “Long John Silver” e “Thirty Seconds over Winterland“) e “Jefferson Airplane” (la reunion dell’88), dei Jefferson Starship (“Dragon Fly“, “Red Octopus“, “Sunfighter” e “Baron Von Toolboth …..”) e degli Hot Tuna (“First Pull Up …” e “Burgers). E’ lapalissiana la considerazione che PJC godeva nell’ambiente westcoastiano a cavallo del 1970, tutti corrono a dare il loro contributo e quello che ne esce è, forzatamente, un disco eterogeneo dal quale però emergono pienamente sia il suo talento come violinista e come cantante che le personalità degli ospiti: “Plunk a Little Funk“, “String Jet Rock” e “Everytime i hear her name” (con sezione fiati) sono in pratica brani degli Hot Tuna (il gruppo è al completo), splendidi anche “Soul Fever” con Garcia alla chitarra e l’hammond di Rolie ma altrettanto interessanti ho trovato il super classico “St. Louis Blues” e “Over the Rainbow” (il passato di Creach che ritorna) e “Down Home Blues” con Carlos Santana alla chitarra e Doug Rauch (della band del chitarrista) al basso.

Su tutto, come detto, la classe cristallina di Papa John Creach che finalmente esprime tutta la sua tecnica e la sua vitalità. Un bel disco, probabilmente il suo più significativo. Non credo, infine che sia stato ristampato in CD.

JON HISEMAN’S TEMPEST “Tempest”

JON HISEMAN’S TEMPEST “Tempest”

JON HISEMAN’S TEMPEST “Tempest”

Bronze Records. LP, 1973

di alessandro nobis

Terminata (o, con il senno di poi, interrotta) l’avventura con i Colosseum, Mark Clarke (il bassista) e Jon Hiseman ovvero la sezione ritmica della band chiamano lo straordinario chitarrista Alan Holdsworth (e violinista) ed il cantante Paul Williams per formare questo eccellente “Power Trio + 1” direi diverso dagli altri gruppi con lo stesso tipo di formazione come il trii di Rory Gallagher, i Cream o quello di Jeff Beck con Tim Bogert e Carmine Appice (gli ultimi due come noto la ritmica dei Vanilla Fudge) o ancora quello di Leslie West. Otto composizioni, sei scritte con lo zampino del batterista, una da Holdsworth (con John Edwards) ed una da Clarke (con Suzy Bottomley) sono la scaletta del disco, musica parecchio distante dal blues rispetto ai Colosseum e più orientata verso un rock più robusto ed efficace, e per questa “deviazione” piuttosto criticata dai fans dei Colosseum all’epoca.

Ascoltato cinquanta anni dopo il progetto John Hiseman’s Tempest (questo il primo nome del gruppo) è ancora interessante e ben “vivo”, naturalmente splendidamente suonato e vario nel repertorio; la duttilità di Hiseman in coppia con l’efficace basso elettrico di Clarke si sposano perfettamente con la straordinaria chitarra e con la potente voce di Williams e i tre brani della prima facciata scritti da trio Hiseman / Clarke / Holdsworth presentano agli appassionati tutto il talento dell’allora sconosciuto ventisettenne chitarrista (che al tempo ancora non aveva pubblicato alcun album) attraverso i suoi assoli per lo stile rimasto inimitato vuoi per la tecnica che per la capacità di mescolare diversi idiomi ed ottenerne uno personale (ascoltare “Metal Fatigue” del 1985 per capire). In “Upon Tomorrow” si respira aria di jazz acustico ed elettrico e svela anche Holdsworth come violinista (bello il suo solo iniziale) confermando l’indovinatissima scelta dei due ex Colosseum di ingaggiare il talentuoso musicista che si adatta benissimo ai ritmi più vicini come detto al jazz elettrico come un paio di anni dopo confermerà registrando l’ottimo “Bundles” dei Soft Machine. Ma le sorprese non finiscono qui, in “Grey And Black” ballad scritta e suonata esclusivamente da Mark Clarke, ascoltiamo il tocco appropriato al Fender Rhodes e la voce del bassista con un efficace arrangiamento a due voci.

Un disco riuscitissimo, per gustarlo nel migliore dei modi è necessario però scordarsi per un’oretta il sound dei Colosseum.

HOT TUNA “Burgers”

HOT TUNA “Burgers”

HOT TUNA “Burgers”

Grunt Records FTR 1004. LP, CD, 1972

di alessandro nobis

Probabilmente gli Hot Tuna sono l’unica band che ha pubblicato il loro primo album in studio dopo due dischi dal vivo, e già questo dà la misura della cura che Kaukonen e Casady hanno riservato alla registrazione di Burgers, una delle più interessanti dell’intera discografia del gruppo che da costola degli Airplane ha saputo avere un’identità ben definita e sopravvivere di oltre quaranta anni alla band madre. Quest’anno è il cinquantesimo anniversario di Burgers e per festeggiare l’avvenimento alla Carnegie Hall si terrà il 22 aprile uno straordinario concerto dove la band eseguirà l’integrale dell’album pubblicato dalla Grunt Records e si festeggerà l’ottantesimo compleanno di quello che Bill Graham ebbe a definire “The Sex Symbol of Scandinavia”.

“Burgers” è un signor disco che pur mantenendo un forte legame con le radici del blues acustico contiene alcune delle più significative composizioni di Jorma Kaukonen alcune delle quali ancora in repertorio sebbene rinnovate negli arrangiamenti nelle esibizioni live oltreoceano, numerose e sempre sold-out. Blind Boy Fuller (“Keep on Truckin’” con la slide di Richard Talbott, autore di un album per la Grunt nello stesso anno, e le tastiere di Nick Buck), l’immancabile Gary Davis (“Let’s Together Right Down Here“), il padre spirituale della band e Julius Davis con la sua “99 Year Blues” la cui versione si può ascoltare nel monumentale cofanetto “Anthology of American Folk Music” curata da Harry Smith; ma da sottolineare sono, come dicevo, i brani originali tra i quali lo splendido “True Religion” un blues con il sempre puntuale violino di Papa John Creach – esemplare il suo assolo – ed il pianoforte di Nick Buck, una brano che si “elettrifica” man mano che si sviluppa, ed il solo di chitarra sovrainciso certifica la cura certosina degli arrangiamenti o la seguente “Highway Song” la cui parte vocale è impreziosita dall’intervento a supporto della voce di Kaukonen di David Crosby. Da ultimo voglio citare il mio brano preferito, lo strumentale “Water Song” con l’incipit della chitarra fingerpicking che fa contraltare all’elettrica e l’incisivo basso di Casady, sicuramente uno dei massimi bassisti in assoluto, ed anche probabilmente uno dei meno conosciuti.

Il suono del gruppo qui è molto solido ed equilibrato, il drumming di Sammy Piazza e le intricate linee di basso di Jack Casady formano una sezione ritmica di primissimo livello, sulla quale il violino e le chitarre sovraincise regalano uno dei più interessanti dischi prodotti dai musicisti della scena californiana di quegli anni.

Probably Hot Tuna are the only band that has released their first studio album after two live records, and this already gives the measure of the care that Kaukonen and Casady have reserved for the recording of Burgers, one of the most interesting of the whole discography of the band that from the rib of Airplane has been able to have a well-defined identity and survive the mother band for over forty years. This year is Burgers’ 50th anniversary and to celebrate the event at Carnegie Hall there will be an extraordinary concert on April 22nd where the band will perform the complete album released by Grunt Records and will celebrate the 80th birthday of the one who Bill Graham defined it as “The Sex Symbol of Scandinavia”.

“Burgers” is a disc that while maintaining a strong link with the roots of the acoustic blues contains some of the most significant compositions by Jorma Kaukonen some of which are still in the repertoire although renewed in the arrangements in the live performances overseas, numerous and always sold-out. Blind Boy Fuller (“Keep on Truckin’” with the slide by Richard Talbott, author of an album for Grunt in the same year, and the keyboards of Nick Buck), the inevitable Gary Davis (“Let’s Together Right Down Here“), the band’s spiritual father and Julius Davis with his “99 Year Blues” version of which can be heard in the monumental “Anthology of American Folk Music” box set edited by Harry Smith; but to underline are, as I said, the original pieces including the splendid “True Religion” a blues with the ever punctual violin by Papa John Creach – his solo is exemplary – and the piano by Nick Buck, a piece that “electrifies itself” as it develops, and the overdubbed guitar solo certifies the painstaking care of the arrangements or the following” Highway Song” whose vocal part is embellished by the intervention in support of the voice of Kaukonen by David Crosby. Lastly I want to mention my favorite song, the instrumental “Water Song” with the incipit of the fingerpicking guitar that contrasts with the electric and incisive bass of Casady, certainly one of the greatest bassists ever, and also probably one of the less known.

The sound of the group here is very solid and balanced, the drumming of Sammy Piazza and the intricate bass lines of Jack Casady form a rhythm section of the highest level, on which the violin and the overdubbed guitars give one of the most interesting records produced by the musicians of the Californian scene of those years.

JOHN MAYALL’S BLUESBREAKERS “Bare Wires”

JOHN MAYALL’S BLUESBREAKERS “Bare Wires”

SUONI RIEMERSI: JOHN MAYALL’S BLUESBREAKERS “Bare Wires”

Decca Records. LP, 1968

di alessandro nobis

Questa reincarnazione dei Bluesbreakers ebbe vita breve dopo la registrazione di questo significativo “Bare Wires” avvenuta nell’aprile del ’68 e prodotto da Mike Vernon e John Mayall: dopo qualche mese, in agosto, Tony Reeves, Dick Heckstall Smith presero armi e bagagli ed assieme a John Hiseman lasciarono Mayall per dedicarsi al nuovo progetto del batterista, la band Colosseum andando registrare il loro primo disco.

John Mayall in quegli anni “svezzò” chitarristi come Peter Green ed Eric Clapton e qui, alla chitarra, c’è un altro strumentista molto influenzato dal blues, Mick Taylor: il repertorio di Bare Wires comprende un’interessante eponima suite che occupa a prima facciata suddivisa in sette movimenti e composta dallo stesso Mayall nella quale emerge sì l’ambientazione blues ma anche le influenze del jazz: l’apporto dei tre futuri Colosseum è ad un attento ascolto rilevante contribuendo al suono dell’ensemble ed anche con interessanti, direi anzi notevoli interventi solisti. Il tenore di H.S. sul finire del blues “Open a new door” chiusa dalla sezione fiati di Heckstall Smith, Henty Lowther e Chris Mercer, lo splendido duetto batteria – armonica (di Mayall) di “Fire” (una personale rilettura del tradizionale americano “Dark is the colour of my true love’s hair”) e lo splendido lavoro di Tony Reeves in ”Look in the Mirror” che chiude la suite con la batteria di Hiseman e il sax di Heckstall Smith (non sentite già il profumo di Colosseum?) sono solo tre momenti della suite, forse una delle composizioni più articolate uscite dalla penna di John Mayall che splende anche per gli arrangiamenti e per la composizione dei Bluesbreaker nei quali oltre alla voce e le tastiere del leader brilla per i sempre indovinati interventi della chitarra del grande Mick Taylor.

La seconda facciata si apre con lo slow blues “I’m a Stranger” con la sezione fiati in evidenza che sostengono la voce e marcano il tempo – notevole il lavoro del drumming di Hiseman – ed infine tengo a citare “She’ Too Young”, un altro blues a firma Mayall con i soli del sax tenore e di batteria.

Bare Wires” è a mio avviso l’ultimo grande disco di John Mayall, “British Blues” ed ha avuto anche il “grande merito” di essere stato la causa del divorzio dai tre futuri Colosseum.

Per completezza segnalo in oltre che nell’antologia “Thru The years” pubblicata nel 1971 che contiene registrazioni dal ’65 all’aprile del ’68 sono presenti altri due brani provenienti dalle session di “Bare Wires”, ovvero “Knockers Step Forward” con Heckstall Smith, Hiseman e Reeves e “Hide and Seek” con i soli Hiseman e Reeves; nella ristampa su CD con 6 inediti son presenti ai due già citati inediti “Jenny”, “Knocker’s Step Forward”, “Start Lookin’” e “Intro – Look at the Girl”.

(Google English)

This reincarnation of the Bluesbreakers was short-lived after the recording of this significant “Bare Wires” in April of ’68 and produced by Mike Vernon and John Mayall: after a few months, in August, Tony Reeves, Dick Heckstall Smith took up their instruments and together with John Hiseman they left Mayall to devote themselves to the new project of the drummer, the Colosseum band, going to record their first album.

John Mayall in those years “weaned” guitarists like Peter Green and Eric Clapton and here, on the guitar, there is another instrumentalist very much influenced by the blues, Mick Taylor: the repertoire of Bare Wires includes an interesting eponymous suite that occupies a prima facade divided into seven movements and composed by Mayall himself in which the blues setting emerges but also the influences of jazz: the contribution of the three future Colosseum is to a careful and relevant listening contributing to the sound of the ensemble and also with interesting, I would say indeed notable solo interventions. The tenor of H.S. at the end of the blues “Open a new door” closed by the wind section of Heckstall Smith, Henty Lowther and Chris Mercer, the splendid drum – harmonica duet (by Mayall) of “Fire” (a personal reinterpretation of the traditional American “Dark is the color of my true love’s hair “) and Tony Reeves’ magnificient work in” Look in the Mirror” which closes the suite with Hiseman’s drums and Heckstall Smith’s sax (don’t you already smell Colosseum?) are just three moments of the suite, perhaps one of the most articulated compositions to come out of John Mayall’s pen which also shines for the arrangements and for the composition of the Bluesbreaker in which in addition to the voice and keyboards of the leader shines for the always guessed interventions of the guitar of the great Mick Taylor.

The second side opens with the slow blues "I'm a Stranger" with the horn section in evidence that support the voice and mark the time - notable the work of Hiseman's drumming - and finally I want to quote "She 'Too Young" , another blues signed by Mayall with the solos of the tenor sax and drums.
In my opinion, "Bare Wires" is John Mayall's latest great album, "British Blues" and also had the "great merit" of being the cause of the divorce from the three future Colosseums.
For the sake of completeness, in addition to the anthology "Thru The years" published in 1971, which contains recordings from '65 to April '68, there are two other songs from the sessions of "Bare Wires", or "Knockers Step Forward" with Heckstall Smith, Hiseman and Reeves and "Hide and Seek" with only Hiseman and Reeves; in the reissue on CD with 6 unreleased tracks, the two previously mentioned unreleased songs "Jenny", "Knocker's Step Forward", "Start Lookin '" and "Intro - Look at the Girl" are present.

SUONI RIEMERSI: THE WHISTLEBINKIES

SUONI RIEMERSI: THE WHISTLEBINKIES

SUONI RIEMERSI: THE WHISTLEBINKIES “The Whistlebinkies”

Claddagh Records. LP, 1977

di alessandro nobis

Ricordo che ai tempi della pubblicazione dei dischi degli scozzesi Whistlebinkies questi venivano definiti dalle nostre parti con troppa faciloneria “i Chieftains di Scozia”; allora bastava un’arpa ed una cornamusa ed il gioco era fatto. Sicuramente il quintetto scozzese non era molto seguito dai fans della musica celtica nostrani sebbene facessero parte della scuderia della dublinese Claddagh Records e questo è stato davvero un peccato come lo è stato non vederli mai dal vivo.

Questo album è datato 1977 e nonostante siano passati oltre quattro decenni lo si ascolta molto volentieri perché il suono dalla band era diverso dalle altre compagini conterranee come Ossain, Battlefield Band, Silly Wizard o Boys Of The Lough per citarne quattro; il clarsach di Charles Guard (qui indicato come ospite ma presente nella foto di copertina), le cornamuse di Rab Wallace, i flauti di Eddie McGuire, la voce e le percussioni di Mick Broderick ed il violino di Rae Siddall sono gli strumenti ed i componenti del gruppo con un suono fortemente caratterizzato dalle bagpipes e dalla voce e con un repertorio che affronta la tradizione scozzese ma non solo, come testimonia il brano che apre la seconda facciata, “Ireland”, interpretazione caledoniana della tradizione irlandese (la marcia “Brian Boru”, “Morrison’s Jig” e l’aria “Eileen Aaron”) e “Brittany” dedicato naturalmente alla Bretagna.

Del repertorio scozzese molto interessante “Donald MacGillivray” (interpretato anche dalla Battlefield Band) che ci riporta ai tempi della ribellione Giacobita del 1745 che narra storia di duecento uomini guidati da una donna, Lady of Moy, “The Battle of Sheriffmoore” che ricorda l’omonimo scontro del 13 novembre 1715 tra Highlanders e le truppe inglesi e per finire davvero particolare “Mrs MacLeod and Friends”, un reel tradizionale che introduce brevi interventi solistici dei Whistlebinkies.

Gruppo come dicevo in apertura di grande valore per il lavoro di recupero della musica e della orgogliosa storia del popolo di Caledonia, i suoi dischi per la Claddagh sono da avere, non credo sia una ricerca così difficile …….

COLOSSEUM “The Grass is Greener”

COLOSSEUM “The Grass is Greener”

COLOSSEUM “The Grass is Greener”

ABC DUNHILL Records. LP, 1970

di alessandro nobis

The grass is greener” ovvero “una copertina per due dischi” verrebbe da dire per il terzo album pubblicato per il mercato americano nel 1970 diventato già nel ’70 oggetto di collezionismo in Europa, dove pochissimi ebbero l’occasione di acquistarlo sul mercato d’importazione come si chiamava mezzo secolo fa (personalmente, questa versione non l’ho mai vista!). Altri gruppi dell’epoca come i Van Der Graaf Generator o i Gentle Giant pubblicarono dischi con copertine diverse (“H to He Who am The Only One” e “Octopus” rispettivamente)  ma i Colosseum seppero fare di meglio utilizzando la copertina del precedente “Valentyne Suite” virandola leggermente al blue e cambiandone anche il font delle scritte; giusto quel poco per farne un rompicapo capace di far dannare i non pochi fans dell’epoca (ora si chiamerebbero followers) della straordinaria band di John Hiseman & C; band che seppe mescolare con equilibrio ed eleganza il blues elettrico, il rock ed il jazz ma che fu erroneamente spesso collegata alla corrente che molti chiamano “progressive”, un termine a mio avviso senza alcun significato tanto meno se accostato al suono dei Colosseum.

Ma andiamo con ordine: l’unico brano che hanno in comune i due album è “Elegy”, mentre altri tre (“Betty’s Blues”, “The Machine Demands a Sacrifice” aperta dal flauto di H.S. e dal basso di Tony Reeves e lo splendido brano eponimo introdotto dai sassofoni, con un bel solo di basso ed una davvero notevole parte di chitarra) presentano una versione differente rispetto a “Valentyne Suite” con il chitarrista Clem Clempson anche come voce solista in sostituzione di Litherland che nel frattempo aveva lasciato il gruppo diventando quindi una chicca preziosa per gli appassionati dei Colosseum visto il suono più legato al blues elettrico di Clempson che caratterizzerà l’ultima fase di vita della band. Il nuovo missaggio risale al ’69 durante il quale vennero registrati anche i quattro brani inediti: due diventarono cavalli di battaglia dei concerti, e mi riferisco in particolare al blues scritto da Jack Bruce e Pete Brown “Rope Ladder to the Moon” con un bell’arrangiamento per la marimba ed a “Lost Angeles” scritta a quattro mani da Greenslade ed Heckstall – Smith, una versione che in questo lavoro ha la durata di cinque minuti e mezzo ma che nelle esibizioni dal vivo supera il quarto d’ora grazie all’immaginifica introduzione dell’Hammond di Dave Greenslade. Gli altri due brani inediti sono un arrangiamento del “Bolero” di Maurice Ravel (personalmente lo ritengo il brano più debole, non mi sono mai piaciuti gli arrangiamenti rock di brani classici, lo devo dire) ed una bella composizione di Mike Taylor e Dave Tolin, “Jumpin’ Off the Sun” introdotta dalle campane tubolari di Hiseman e con significativo assolo di chitarra.

A fare un po’ d’ordine ci ha pensato nel 2002 la Sanctuary Records pubblicato un doppio CD che contiene sia “Valentyne Suite” che “The Grass is Greener” con due inediti (“Arthur’s Moustache” e “Lost Angeles” provenienti dalla trasmissione Top Gear re mandati in onda il 22 novembre del 1969.