DALLA PICCIONAIA: LA GHIRONDA DI MICHÈLE “Incontro con Silvio Orlandi”

DALLA PICCIONAIA: LA GHIRONDA DI MICHÈLE  “Incontro con Silvio Orlandi”

DALLA PICCIONAIA: LA GHIRONDA DI MICHÈLE  “Incontro con Silvio Orlandi”

Palazzo Tadea, Spilimbergo, 4 ottobre 2020

di alessandro nobis

L’edizione 2020 di Folkest ed in particolare le ultime giornate che come di consueto si svolgono a Spilimbergo, non è stata come le precedenti come potete immaginare; un’edizione forzatamente procrastinata alla fine dell’estate e più raccolta, una direzione che a mio avviso andrebbe seguita anche in futuro e che può essere complementare a quella degli spazi aperti più adatti alle grandi performance. Il bellissimo e funzionale Teatro Miotto di Spilimbergo, che avrebbe dovuto essere una soluzione di ripiego rispetto alla stupenda piazza a fianco del Duomo, ha nel migliore dei modi accolto le tre serate finali che hanno assegnato l’ambito il Premio Cesa ai lombardi Musica Spiccia.

Tra gli eventi programmati per quest’ultimo lungo week end (da mercoledì 30 settembre a lunedi 5 ottobre) voglio soffermarmi sull’interessante incontro con Silvio Orlandi, liutaio e ghirondista e fondatore intorno alla metà degli anni settanta con Maurizio Rinaldi e Gianni Vaccarino dell’ensemble “Prinsi Raimund” autore di un ottimo disco, “Lo stallaggio del Leon d’Oro” pubblicato nel 1979 e protagonisti di due edizioni di Folkest, quelle del ’79 e dell’80.

L’incontro si è svolto in una sala gremita – rispettando il distanziamento personale grazie ad un discreto ma attento servizio d’ordine – del bellissimo Palazzo Tadea, sala utilizzata per la prima volta da Folkest; brillantemente incalzato da Marco Salvadori (responsabile dell’area cultura del Comune di Spilimbergo) e Andrea Del Favero (direttore artistico di Folkest), Orlandi ha piacevolmente e puntualmente raccontato la storia della ghironda, ed in particolare di quella di “Michèle”, Michèle Fromentau.

La “storia” nasce in un armadio, quello dell’ufficio di Marco Salvatori che poco dopo l’inizio del suo incarico per l’amministrazione di Spilimbergo decide di dare un’occhiata al mobilio ed in particolare al contenuto degli armadi in uno dei quali rinviene una custodia nera dalla forma un poco strana, l’apre e ci trova una ghironda: telefona quindi ad Andrea Del Favero per saperne di più e viene a sapere che la ghironda giaceva lì inutilizzata addirittura dal 2001.

Del Favero racconta molto affabilmente che in quell’anno si era parlato di un gemellaggio tra la città di Spilimbergo e quella Saint Chartier nella regione del Berry, in Francia, considerata la patria della ghironda e sede di un importantissimo festival di liutai e musicisti organizzato da Michèle Fromentau, ricercatrice e naturalmente suonatrice di ghironda. Spilimbergo donò a Saint Chartier un mosaico – e non poteva essere diversamente – e Saint Chartier ricambiò su idea di Michèle con una ghironda – e non poteva essere diversamente. La Fromentau lascia la direzione del festival nel 2019 nelle mani di Philippe Krumm ed il rapporto tra Folkest ed il Festival Francese lentamente si raffreddò e qualcuno a quel punto a Spilimbergo ripose lo strumento nel già citato armadio. L’occasione della chiacchierata con Silvio Orlandi era davvero ghiotta, ovvero quella di riportare “in vita” questo straordinario strumento in particolare, ricordando che la ghironda con tutte le sue evoluzioni morfologiche e tecniche ha accompagnato la musica tradizionale, medioevale, rinascimentale e barocca attraverso il tempo e che ancora oggi gode una notevole popolarità e seguito in Francia grazie ai numerosi liutai ed alle scuole di Saint Chartier ed in Italia grazie a musicisti e costruttori come appunto Silvio Orlandi.

La chiacchierata ha quindi raccontato la storia della “ghironda di Michèle” ma è stata anche l’occasione di ascoltare la storia di questo strumento (un modello arcaico si trova perfino nelle miniature che accompagnano le Cantigas di Santa Maria raccolte da Alfonso X El Sabio nel XIII° secolo) attraverso appropriati esempi musicali e, lo voglio ribadire, grazie alla grande competenza e comunicatività di Orlandi e Del Favero.

Serate riuscite come questa sono il semplice corollario al festival ma sono la sua essenza, almeno all’idea di festival che ho in mente io. Ed è un vero peccato che alunni ed insegnanti delle scuole di Spilimbergo e dintorni, solitamente chiuse nel periodo estivo, non ne possano godere; potrebbe essere un formidabile volano per il Festival.

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FRANK GET BAND “False Flag”

FRANK GET BAND “False Flag”

FRANK GET BAND “False Flag”

TM Production. CD, 2020

di alessandro nobis

Ascoltando la musica che esce da questo notevole “False Flag” intriso di rock americano e di blues elettrico ti viene da pensare ai panorami dei sobborghi di Atlanta, delle highways che attraversano l’immensa piana del Mississippi o alle città texane circondate dal deserto. Nulla di tutto questo, Frank Get e la sua band fanno propri i suoni più viscerali del nordamerica per raccontarci, in lingua inglese, della storia e della gente della sua terra, la bellissima Trieste con i suoi confini, quello “di terra” e quello “di mare”, da sempre terra di contrasti anche forti, di incontri e di una cultura cosmopolita che non sempre è stata valorizzata pienamente, una terra da sempre contesa per la sua posizione strategica. Comunque, ribadisco, bellissima.

C’è il rock di impronta sudista di “Tramway’s Tales”, la storia del vecchio tram di Villa Opicina che arranca sui binari combattendo strenuamente con la bora triestina (“Ora sei di nuovo fuori servizio / solo per le stranezze delle leggi / e noi abbiamo pagato il riscatto / e ci dicono che così tornerai in servizio”), ci sono “Freedom Republic” (“Dopo trentacinque giorni gloriosi / il nostro sogno è volato via / eravamo pochi e male armati / ma la nostra resistenza fu così fiera”) convincente ballata acustica che racconta la rivolta del 1921 del popolo del quartiere multiculturale di San Giacomo, uno degli highlights di questo lavoro la storia di Anton Dreher inventore della birra “Lager” ed il robusto rock blues di “What’s the Patriot”, storia del nonno di Frank Get combattente con l’esercito austroungarico nella Grande Guerra e che si domanda l’utilità della guerra – domanda universale e perennemente senza risposta – (“Vorremmo vivere in un mondo migliore / siamo finiti in Nord Europa / a combattere un nemico che non abbiamo mai conosciuto”).

Frank Get (voce e plettri )assieme a Marco Mattietti e (batteria), Tea Tidic (basso e voce) sono un trio tosto e con le idee chiare, un chiaro progetto la cui origine risale a qualche decennio fa, quattro per essere esatti, e che mi auguro possa proseguire a lungo per la sua originalità e schiettezza musicale. Per come la vedo io, però, sarebbe stato bello, stampare nel libretto allegato al CD anche la traduzione in italiano dei testi, ne sarebbe davvero valsa la pena.

Comunque, a scanso di equivoci, un gran bel lavoro. Go on, Frank.

GIANNI LENOCI TRIO “Wild geese”

GIANNI LENOCI TRIO “Wild geese”

GIANNI LENOCI TRIO  “Wild geese”

DODICILUNE Records. CD, 2020

di alessandro nobis

Ascoltando queste registrazioni il pensiero non può non andare anche a Massimo Urbani, a Luca Flores e naturalmente a tutti i talenti che il jazz italiano ha visto crescere e poi tragicamente scomparire come Gianni Lenoci. Fortunatamente ogni tanto vengono pubblicati concerti o registrazioni in studio come questa del pianista pugliese in compagnia del batterista Bob Moses e del contrabbassista Pasquale Gadaleta: era il 23 novembre del 2017 ed il repertorio è quello del jazz che Lenoci amava studiare, sviscerare, ri-adattare per il pianoforte ed infine suonare, quello di Ornette Coleman, di Carla Bley e di Gary Peacock e quindi, considerata la qualità della musica benissimo ha fato la Dodicilune a pubblicare questa session in occasione del primo anniversario della scomparsa del pianista.

Lenoci è stato uno di quei rari musicisti ad entrare in sintonia e ad interiorizzare le teorie armolodiche colemaniane: qui troviamo quattro emblematici esempi di questo, a cominciare dalla lunga ed evocativa “Sleep Talking” (registrata da Coleman per “Sound Grammar nel 2006) con una splendida intro “africana” del grande batterista Bob Moses e caratterizzata da un ispiratissimo interplay con Lenoci e Gadaleta, una bella ricostruzione del brano attorno alle note del riconoscibile “tema” colemaniano e “The Beauty is a rare thing” un brano scritto nel 1960 e pubblicato in “This is our music”: qui il pianoforte ed il contrabbasso ci conducono al tema del brano esposto da Lenoci ed anche in questo caso – ma è una preziosità di tutta la session – il livello di intesa tra i musicisti è di assoluto livello ed è sempre una piacevole sensazione prestare attenzione a come si sviluppa il concetto di jazz di Coleman e quindi di Gianni Lenoci. Ma non ci sono solo le composizioni del sassofonista texano, ci sono anche uba scrittura di Gary Peacock e quattro spartiti di Carla Bley (bellissima l’atmosfera nelle rivisitazione delle ballad “And Now, the Queen” che apre il disco con anche qui una parte free davvero intensa e di “Ida Lupino” che lo chiude) che aiutano a fornire una precisa fotografia sonora della sensibilità e dello straordinario talento di questo musicista ed intellettuale pugliese che il trenta settembre di solo un anno fa, all’età di cinquantasei anni, ha lasciato un vuoto enorme del mondo del jazz.

Disco secondo il mio modestissimo parere imperdibile, una vera gemma. Spero sia solo la prima ….

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SUONI RIEMERSI: P. BRADY · A. IRVINE · P. BROWNE · D. LUNNY · M. MOLLOY · T. POTTS · T. NI DOMHNAILL “The Gathering”

SUONI RIEMERSI: P. BRADY · A. IRVINE · P. BROWNE · D. LUNNY ·  M. MOLLOY  · T. POTTS · T. NI DOMHNAILL “The Gathering”

SUONI RIEMERSI: P. BRADY · A. IRVINE ·P. BROWNE ·D. LUNNY ·  M. MOLLOY  ·T. POTTS ·T. NI DOMHNAILL “The Gathering”

SRUTHÁIN/ GREENHAYS RECORDS. LP, 1981

di alessandro nobis

Nel 1977 Diane Meek, dublinese appassionata di musica tradizionale irlandese e titolare dell’etichetta discografica Srutháin riunisce in uno studio alcuni tra i più significativi esponenti del folk revival irlandese di quegli anni per registrare un disco ma passano però quattro anni prima che venga pubblicato in America dalla Greenhays Records. Non si tratta in realtà di vero e proprio ensemble – in nessuna delle tracce suonano tutti assieme -, ma la musica registrata mette in evidenza la qualità del repertorio e la coesione in tutti i piccoli combo che via presentano materiale di nuova composizione. Insomma, lo spirito ed il sentimento di una “Will the Circle Bill Umbroken” irlandese e, oltre ai nomi che appaiono in copertina vanno aggiunti il batterista Paul McAteer, il chitarrista Arty McGlynn e  la clavicembalista Triona Ni Dhomnaill.

Brani eseguiti in completa solitudine come le due gighe del piper Peter Browne (“Hardinan the Fiddler” dedicata a James H. che nel 1831 pubblicò “Irish Minsterlsy” e “Banish Misfortune” Dalla raccolta di O’Neill) e, tra i canti narrativi, non posso esimermi dal citarne almeno due: la prima interpretata da Paul Brady – Paddy’s Lamentation-, la storia di un irlandese emigrato in America che viene forzatamente arruolato nell’esercito dell’Unione durante la Guerra di Secessione (la leva era obbligatoria per tutti gli uomini tranne che per quelli che potevano permettersi di pagare una tassa di 300 $ e di mandare un altro in loro vece) e la seconda cantata da Andy Irvine, “The Mall of Lismore” che narra la vicenda di una giovane ragazza che si innamora di un altrettanto giovane e focoso soldato venendo così disconosciuta dal padre, che comunque spera di re-incontrare un giorno ……

“The Gathering” è un disco che all’epoca passò quasi inosservato nonostante l’eccezionale livello dei musicisti coinvolti da Diane Meek: un vero peccato perché a mio avviso resta un lavoro significativo che va oltre i capolavori incisi dai gruppi storici del folk revival irlandese di quegli anni, un lavoro dove la collaborazione ed il piacere di suonare e di comunicare emerge a piè sospinto durante l’ascolto.

LAPROVITERA · VERGERIO “Il Giglio Bianco di Stalingrado”

LAPROVITERA · VERGERIO  “Il Giglio Bianco di Stalingrado”

LAPROVITERA ·VERGERIO  “Il Giglio Bianco di Stalingrado”

Edizioni Segni d’Autore. Volume 21×30 cm, 2020. € 20,00

di alessandro nobis

Con questo volume illustrato da Luca Vergerio e sceneggiato da Andrea Laprovitera che avevano già collaborato per “San Martino 1859” assieme ad Emilio Maffei  (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2019/12/27/maffei-laprovitera-vergerio-san-martino-1859/), la casa editrice Segni D’Autore dà il via ad una nuova serie dedicata alle grandi battaglie aeree ed in particolare a piloti che durante il secondo conflitto mondiale di distinsero per l’ardimento e per la loro abilità nel portare aeroplani da combattimento.

“Il Giglio Bianco di Stalingrado” ci riporta ai mesi del cruentissimo assedio da parte delle truppe tedesche, ungheresi, rumene, croate e italiane della città sovietica che dal 28 agosto 1943 fino ai primissimi giorni del febbraio successivo mieté tra i difensori 380.000 i militari dell’Armata Rossa e 650.000 civili di ogni età e, come la storia insegna, il loro sacrificio diede una svolta decisiva al secondo conflitto mondiale. A simbolo di quei mesi tragici Laprovitera e Vergerio raccontano la storia poi tramutatasi in leggenda della “Cacciatrice Libera” (onorificenza assegnatale dall’aviazione sovietica) Lidija Litvjak e del Capitano Aleksej Solomatin, piloti dell’aviazione sovietica che assieme a molti loro compagni combatterono strenuamente a bordo di Yakovlev Yak-1 i caccia avversari, trasformandosi spesso in incubi per i piloti del Messerschmidt 109.

Le tavole di Luca Vergerio, al solito dettagliate, espressive e cromaticamente molto efficaci e le ”nuvolette” stringate quanto basta di Laprovitera di questo raccontano, dei duelli nei cieli tra il Volga ed il Don, della storia tra “Il Giglio Bianco” (chiamata così perchè aveva il vezzo di portarne uno all’interno della cabina di pilotaggio) ed il Capitano e soprattutto della loro fine, quella in combattimento del secondo e quella misteriosa della Litvjak che per poco gli sopravvisse: la carcassa  dell’aereo ed il corpo, nonostante le accurate ricerche non vennero mai ritrovati.

Qui inizia la leggenda del “Il Giglio Bianco di Stalingrado”.

FRANCESCO CALIGIURI ORCHESTRA “Arcaico Mare”

FRANCESCO CALIGIURI ORCHESTRA “Arcaico Mare”

FRANCESCO CALIGIURI ORCHESTRA  “Arcaico Mare”

DODICILUNE RECORDS. CD, 2020

di alessandro nobis

Il fiatista cosentino Francesco Caligiuri nel 2017 aveva pubblicato l’ottimo “Olimpo” (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2017/07/22/francesco-caligiuri-olimpo/) registrato in completa solitudine e due anni dopo, alla testa di un quintetto l’altrettanto significativo “Reinassance” (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2019/05/10/francesco-caligiuri-quintet-renaissance/); da poche settimane ha pubblicato sempre per la Dodicilune Records questo “Arcaico Mare” cambiando ancora formazione e decidendo di comporre per un’orchestra di undici elementi che si distingue per la presenza di un quintetto di ottoni e per la presenza di due voci che si affiancano alla sezione ritmica. Le onde stilizzate della copertina, la produzione dello storico Festival Jazz di Roccella Ionica e lo spartito scritto dall’indimenticato Maestro George Russell su commissione dello stesso festival fanno pensare al Mediterraneo, ma ancora di più fanno pensare al mare come vettore di culture diverse in terre diverse e lontane come quella afroamericana e quella del lontano nord. E questo lavoro di Caligiuri raccoglie frammenti di diverse storie di popoli, li interiorizza e li presenta con una veste musicale omogenea, raffinata, coerente e convincente.

Certo, affiancare il medioevo nordico alla contemporaneità ed ai grandi padri della musica afroamericana non é certo facile, tutt’altro, ma provate ad ascoltare la “modernità” di “Völuspà“, l’inizio della narrazione della creazione del mondo fatta da una veggente ad Odino con le voci di Federica Perre e di Alessandro C. Scanderberg e l’apertura della “tromba marina” di Giuseppe Oliveto, che muta “in contemporary  jazz orchestrale” con un lungo solo al baritono di Caligiuri, o “La Follia” di Russell introdotta al piano di Giuseppe Santelli e con le voci evocative che ti riportano sulle sponde del mare ed ancora la “marcetta” che introduce “Rocellanea” di Paolo Damiani e Gianluigi Trovesi che ti trasporta per alcuni istanti nelle feste paesane ed al suono delle bande – patrimonio culturale italiano e fucina di jazzisti e non solo -, e qui voglio evidenziare lo splendido, lungo ed efficace quanto raro in ambito jazz solo di flauto diritto del leader. Nel suono dell’orchestra gioca un ruolo decisivo la sezione degli ottoni e gli arrangiamenti sempre accurati e calibrati; insomma anche se ascolti dei super classici come “Fly me to the moon” o “Nostalgia in Times Square” trovi sempre qualcosa che li differenzia dalla “semplice” proposta calligrafica, ora per il duetto vocale nella seconda accompagnato dai fiati ad esempio o per i sempre misurati ed efficaci soli (quello di pianoforte, di tromba e di contrabbasso nella prima).

Bellissimo lavoro, il mare ha trasportato a riva frammenti di culture diverse e qualcuno (Francesco Caligiuri) ha saputo ordinarli e ridare loro vita, disco da ascoltare e riascoltare.

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CHRIS HORSES BAND “Dead End & a Little Light”

CHRIS HORSES BAND  “Dead End & a Little Light”

CHRIS HORSES BAND  “Dead End & a Little Light”

C.H.Band ·A-Z Blues Made In Italy. CD, 2019

di alessandro nobis

La copertina di Antonio Boschi

Per raccontare le proprie storie o per raccontare storie di altri ogni musicista sceglie il linguaggio più adatto alla sua personalità, alle sue passioni. Cristian Secco, a.k.a. Chris Horses scegli quello del più robusto, ispido e sanguigno rock americano riportandoci per gli otto brani di questo convincente “Dead End & a Little Light” ai tempi della Capricorn di Macon, Georgia. Solo per questo “Chris” ed i suoi compagni di viaggio (il bassista Marc “Don Quagliato, il batterista Marcu T, il chitarrista Mattia “Reez” Rienzi ed tastierista e fiatista Giulio “Snap” Jesi) vanno ringraziati se non altro da quelli che “quel suono” hanno lungamente amato: va sottolineato che questa non è una tribute band o una cover band, sia chiaro, questo è un quintetto che fa della coesione sonora, della tecnica e dell’ispirazione il suo marchio di fabbrica e le scritture di “Chris Horses” sono caratterizzate da riff molto pregevoli (“In Silence” con una graffiante ed incisiva chitarra elettrica che mantiene alta la tensione per tutto il brano, il ”Southern Rock” di “A Little Light” con la voce che canta all’unisono con il sax) ma anche da ballate elettroacustiche di pregevole fattura come “Lost” e “This Old Town” scandita dagli arpeggi di chitarra e con la credibilissima voce del leader e con il flauto traverso che mi ha riportato piacevolmente al suono della ……………….. (sapete, non mi piace fare citazioni, ma dai, questa è facile facile).

La strada metafora della vita (“Ma da qualche parte, in qualche modo, dobbiamo andare / quindi è meglio percorrere la nostra strada” di “In Silence”), l’inquietudine (“Così tanti pensieri da pensare / se continuo così, credo che affonderò”, “Dead End” ed anche “Sono stanco di sprecare il mio tempo / ho solo bisogno di un po’ di luce” di “A little Light”) ed anche l’indifferenza e la delusione di “This Old Town” (“Amo questo paese così tanto da odiarlo / Ha preso di me più di quanto avessi / ora devo andare / forse non tornerò, non so”) sono temi comuni anche nella letteratura musicale d’oltreoceano ma sono sentimenti della condizione umana e quindi universali. Bravo Cristian Secco & C. a saperli descrivere in modo così diretto e semplice. Un bel disco, una sorpresa per me.

ALESSANDRO BERTOZZI “Trait d’union”

ALESSANDRO BERTOZZI “Trait d’union”

ALESSANDRO BERTOZZI  “Trait d’union”

LEVEL 49 RECORDS, 2020

di alessandro nobis

Questo “Trait d’Union” è il primo lavoro del sassofonista Alessandro Bertozzi che ho l’occasione di ascoltare e la musica che ha composto e registrato in compagnia di Pap Yeri Samb (voce), Andrea Pollione (tastiere), Alex Carreri (basso), Maxx Furian (batteria) ed Ernesto da Silva (percussioni) tiene coerentemente fede al titolo, una linea di unione tra l’Europa, l’Africa Subsahariana e la musica afroamericana; qui del mondo africano ce ne è in abbondanza e non solamente perché Da Silva viene dalla Guinea Bissau (ma è percussionista apprezzatissimo nel nostro Paese oramai da molto tempo) e Pap Yeri Samb dal Senegal ma anche perché Bertozzi ha calato la sua passione e la sua conoscenza per il clima sonoro africano scrivendo questi otto brani che, come detto profumano dell’Africa di oggi. “Samaway” ad esempio, è ricco di tradizione nella voce solista e negli arrangiamenti vocali ma anche di spunti jazzistici con gli interventi del piano elettrico e del sassofono che ad essere franco mi ricordano piacevolmente quelli di Napoli Centrale, “Tuuba” si apre con i suoni etnici di Da Silva e Pap Yeri Samb per diventare un robusto e ricco brano soul con i breaks di Alex Carreri, “Melodies Bewewing” che chiude il disco è un brano dal largo respiro, una ballad con la voce che diventa strumento solista che espone il tema assieme al sax (significativo il lungo solo) e “Reguid Pad”, un’altra ballad che presenta un bel solo di basso elettrico con le percussioni che stendono un morbido tappeto oltre naturalmente al bel tema esposto dal sempre ottimo sax del leader della band.

Pubblicato dalla piacentina Level49, “Trait d’union” è in conclusione un disco convincente, un interessante melting pot musicale che mi ha piacevolmente conquistato ascolto dopo ascolto. Fatevi conquistare anche voi

http://www.alessandrobertozzi.it

http://www.level49.it

MASSIMO BARBIERO · GIOVANNI MAIER “Gojn’”

MASSIMO BARBIERO · GIOVANNI MAIER “Gojn’”

MASSIMO BARBIERO · GIOVANNI MAIER “Gojn’”

Bandcamp, 2020

di Alessandro Nobis

Contrabbasso e percussioni formano senz’altro una delle accoppiate più interessanti in ambito della musica improvvisata – ne avevo già parlato in occasione di una recensione del lavoro di John Edwards e Mark Sanders (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/06/14/john-edwards-mark-sanders-jems/)– e questo lavoro del percussionista Massimo Barbiero e del contrabbassista Giovanni Maier, che segue “CODE TALKER”, pubblicato dalla MONKRECORDS nel 2011non fa che confermare la mia convinzione. Si tratta di quindici dialoghi serrati, espressivi e ricchi di spunti tra due dei migliori strumentisti ed improvvisatori del jazz italiano, tra due musicisti che spesso collaborano anche in situazioni più strutturate (vedi Enten Eller) e che hanno dato vita a queste creazioni spontanee, a queste quindici “Gojn’” con una modalità che può essere definita “in remoto”, termine molto usato in questi mesi …….. A questo proposito ci ha detto Massimo Barbiero “Considerato che Maier abita a quattrocento chilometri da dove vivo io, ad Ivrea, abbiamo pensato di registrare il disco ognuno a casa propria. Si definivano alcuni parametri, registravo il mio contributo e Giovanni aggiungeva il suo. Questo è potuto accadere soltanto perché tra me e Maier ci sono una lunga amicizia e grande stima”. In effetti questo processo creativo da “remoto” non si avverte minimamente ascoltando la musica, sembra effettivamente registrato in “presenza”.

Il fatto che Massimo Barbiero sia molto più che un batterista ma sia a totale e perfetto agio anche con il suo arsenale di percussioni che conosce in ogni loro angolo (marimba, vibraphone, tympani, steel drum, gongs) e che Giovanni Maier abbia una tecnica sopraffina e che sfrutti ogni parte del suo contrabbasso suonato con l’archetto e con il pizzicato non fa che aumentare il potenziale sonoro dei due musicisti al quale vanno aggiunte le capacità di interlocuzione durante tutti i movimenti in cui il disco è suddiviso. L’accoppiata vibrafono – contrabbasso pizzicato nel brano iniziale, la marimba – contrabbasso con archetto nell’intensa traccia nove, la steel drum nella coloratissima tre ed infine i gongs dell’introspettiva dodici con il contrabbasso pizzicato e suonato con l’archetto son solo alcuni frammenti di un lavoro importante, pensato in modo profondo e concretizzato.

“Gojin’” al momento è disponibile solo su Bandcamp, ma confidiamo nel futuro prossimo …..

https://massimobarbiero.bandcamp.com/album/gojn

https://massimobarbiero.bandcamp.com/album/code-talker

EDDIE & FINBAR FUREY “The Farewell Album”

EDDIE & FINBAR FUREY “The Farewell Album”

EDDIE & FINBAR FUREY “The Farewell Album”

INTERCORD RECORDS, 2 LP. 1976

di alessandro nobis

Questo doppio ellepì pubblicato dalla tedesca Intercord nel 1976 raccoglie le ultime preziose testimonianze sonore del duo formato da Finbar (Uillenann pipes, voce, chitarra e flauti) ed Eddie Furey (voce, chitarra, mandola e bodhran) con il supporto di Hannes Wader alla voce e chitarra; un disco live ed uno in studio per una delle formazioni che assieme ad altre influenzarono negli anni a seguire il movimento del folk revival irlandese, al di là dell’enorme talento di Finbar come suonatore di uilleann pipes (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2019/10/08/suoni-riemersi-finbar-furey-traditional-irish-pipe-music/). Il disco registrato dal vivo fu registrato nel giugno appunto del ’76 al Folk Club di Witten, dodici brani della tradizione irlandese vicino a folksongs del repertorio folk e di autori inglesi: “Lord Gregory” (“The Lass of Roch Royal” Roud 49 e Child 76) è uno degli standards del folk angloscotoirlandese, “From Clare to Here”. Scritta da Ralph McTell, è una canto legato ai sentimenti di un emigrato irlandese a Londra e “Still he Sings” del grande Allan Taylor racconta l’emozione per la nascita del primo figlio, un inno alla vita. Anche il pregevolissimo disco in studio registrato a Neukirchen contiene alcune preziose gemme e si apre con le pipes di Finbar Furey che accompagnano “Pretty Saro” (Roud 417), ballata di emigrazione anglosassone “ritrovata” nei Monti Appalachi da Ceci Sharp; “The Grave of Wolfetone” (la tomba di trova nella Contea di Kildare, a Sallins, è un canto dedicato a Wolfe Tone,  leader della rivolta anti-inglese del 1978 nella quale protestanti e cattolici si ritrovarono fianco a fianco nei combattimenti e tra gli strumentali particolarmente efficaci mi sono sembrati “Carsten’jig” (composto da Finbar e dedicato a Carsten Linde, produttore del disco) e “Graham’s Flat”, un’altra composizione del piper di Ballifermot.

Un doppio ellepì, prodotto in Germania, che fotografa la passione e l’amore verso la musica irlandese che nell’Europa continentale trovò il suo apice in quegli anni, e che ancora continua.