GIOVANNI FERRO “Evening Trip”

GIOVANNI FERRO “Evening Trip”

GIOVANNI FERRO “Evening Trip”

ZONACUSTICA, CD. 2023

di alessandro nobis

C’è un anello che lega · nonostante il divario temporale · “Chitarrista” del 2008 a questo recentissimo “Evening Trip” di Giovanni Ferro: è il brano di Joe Zawinul “In a Silent Way” che se chiudeva il primo capitolo della discografia di Ferro qui apre questo nuovo lavoro. Scelta non casuale a mio avviso un segnale di ripartenza di una carriera che negli ultimi anni è stata piuttosto sfortunata e travagliata per l’autore. Le letture acustica in “Chitarrista” e questa in quartetto di uno spartito che ha segnato la storia del jazz moderno, sono due modi originali e personali di vedere questo standard ed appunto lo studio e l’approccio a questi sono un poco il succo del disco. Qui Ferro utilizza una Gibson ES·335, il suo è un prezioso lavoro di cucitura ed i suoi soli sono misurati e sempre molto gradevoli: è strumentista che anche quando imbraccia l’acustica non cerca voli pindarici ma piuttosto si concentra sulla purezza delle linee che traccia, siano nell’accompagnamento che nell’esecuzione dei soli.

Evening Trip” si compone di sette capitoli, dei quali il brano eponimo è scritto dal chitarrista. Interessante, si muove inizialmente con un frammento quasi da “marching band” per mutarsi in una swingante ballad impreziosita dalla tromba di Mezuru Takahashi e dal violino dell’ospite Carlo Cantini per poi tornare al tema in “New Orleans Style”: uno dei più convincenti brani del disco, per la scrittura e per l’arrangiamento.

“Il resto” (la virgolettatura è d’obbligo) è un viaggio d’andata a ritroso nella letteratura afroamericana e di ritorno per dare nuovi suoni a brani piuttosto frequentati e leggendari come quelli di Wayne Shorter (“Nefertiti“) con preziosi assoli del violino e della tromba, Miles Davis (“Blue in Green“) o il già citato Joe Zawinul o poco conosciuti come “Olhos de Gato” di Carla Bley (precisa e opportuna l’esposizione del tema del contrabbasso e della tromba, incisivi gli arpeggi di chitarra) e la straordinaria “Peace” che il poco frequentato pianista Horace Silver incise nel 1959. Programma eterogeneo quello di “Evening Trip” ma caratterizzato da una omogeneità sonora davvero notevole, una sezione ritmica importante come quella di Roberto Facchinetti (batteria) e Nicola Monti (contrabbasso) che per tutto il lavoro sostiene e partecipa con classe affiancando gli strumenti solisti: a tratti se chiudi gli occhi ti ritrovi in un attimo immerso una notte nebbiosa  all’interno di un fumoso jazz club · Brera, Monmartre, non importa dove · ad ascoltare queste ballad che riscaldano l’anima.

Un quartetto che merita di proseguire questo percorso, di musica bella come questa ne abbiamo tutti necessità.

Informazioni qui:

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iron.giovanni65@gmail.com

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OREGON “In Performance”

OREGON “In Performance”

OREGON “In Performance”

ELEKTRA Records. 2LP, 1980

di alessandro nobis

Registrato alla Carnegie Hall di NYC alla Saint Foy University di Quebec City e all’Outremont Theatre di Montreal durante la tourneè nordamericana nel novembre del 1979, “In Performance” è il terzo e ultimo album pubblicato dagli Oregon per la Elektra Records dopo “Out on the woods” del 1978 e “Roots in the Sky” del 1979 ed è inoltre la seconda testimonianza di un loro concerto dopo “In Concert” del 1975. Dall’ascolto di questo doppio ellepì emerge in tutto il suo fascino la capacità improvvisativa del quartetto con una capacità di creazione spontanea interessante ancor più se gli strumenti utilizzati provengono sì dall’ambiente del jazz ma anche dalle varie musiche etniche che portano nella loro storia: “Free Piece“, “Buzzbox” ed il solo di Collin Walcott · ossia quasi venticinque minuti di musica dei quasi settanta presenti · sono lì a dimostrare quanto detto e anche, consentitemi, l’importanza di questo “In Performance“. Anche le composizioni più strutturate sono eseguite in modo più ampio delle loro versioni registrate in studio, e qui voglio citare “Deer Path” (in “Winter Light”, 1974) e “Waterwheel”, una composizione di Towner che appariva anche in “Out of the Woods” del 1978; la prima è preceduta da una bella composizione di Paul McCandless, “Wanderlust“, dove protagonista è l’oboe che apre e chiude, disegnando melodie e soli negli oltre sette minuti della sua durata lasciando lo spazio anche ad un bell’intervento solista di Moore sul tappeto delle percussioni (qui Towner è impegnato al pianoforte). Di “Deer Path” abbiamo già detto, è la “rilettura” della composizione di Glenn Moore introdotta dal pianoforte con Walcott che improvvisa al sitar, introducendo il tema di quella che si può definire una introspettiva “ballad” in perfetto stile Oregon.

Nati da una costola del Paul Winter Consort, gli Oregon hanno segnato una strada che collega il jazz ai suoni acustici della musica etnica ed alla creazione spontanea con un livello qualitativo altissimo per tutta la loro carriera nonostante la perdita prematura di Colin Walcott, subito sostituito dall’indiano Trilok Gurtu; musica ancora freschissima e piacevolissima da ascoltare, insomma un autentico “marchio di fabbrica” rimasto ineguagliato. E questo “In Performance” è a mio avviso una delle loro opere migliori. Splendido.

Recorded at Carnegie Hall in NYC at Saint Foy University in Quebec City and at the Outremont Theater in Montreal during their North American tour in November 1979, “In Performance” is the third and last album released by Oregon for Elektra Records after “Out on the woods” from 1978 and “Roots in the Sky” from 1979 and it is also the second testimony of one of their concerts after “In Concert” from 1975. From listening to this double LP, the improvisational capacity of the quartet emerges in all its charm with a capacity for spontaneous creation that is even more interesting if the instruments used come from the jazz environment but also from the various ethnic music that they carry in their history: “Free Piece”, “Buzzbox” and Collin Walcott’s solo i.e. almost twenty-five minutes of music by the almost seventy present · they are there to demonstrate what has been said and also, allow me, the importance of this “In Performance”. Even the more textured compositions are more widely performed than their studio-recorded versions, and here I want to mention “Deer Path” (on “Winter Light”, 1974) and “Waterwheel”, a Towner composition that also appeared on “Out of the Woods” from 1978; the first is preceded by a beautiful composition by Paul McCandless, “Wanderlust”, where the protagonist is the oboe that opens and closes, drawing melodies and solos in the more than seven minutes of its duration, leaving space also for a beautiful solo intervention by Moore on the percussion mat (here Towner is engaged at the piano). We have already mentioned “Deer Path”, it is the “rereading” of Glenn Moore’s composition introduced by the piano with Walcott improvising on the sitar, introducing the theme of what can be defined as an impressive “ballad” in perfect Oregon style.

Born from a rib of the Paul Winter Consort, Oregon have marked a path that connects jazz to the acoustic sounds of ethnic music and spontaneous creation with a very high quality level throughout their career despite the premature loss of Colin Walcott, immediately replaced by ‘Indian Trilok Gurtu; music that is still very fresh and very pleasant to listen to, in short, an authentic “trademark” that has remained unmatched. And this “In Performance” is in my opinion one of their best works. Gorgeous.

MATTEO ADDABBO ORGAN TRIO “L’Asino che vola”

MATTEO ADDABBO ORGAN TRIO “L’Asino che vola”

MATTEO ADDABBO ORGAN TRIO “L’Asino che vola”

Dodicilune Records. CD, 2023

di alessandro nobis

Tutti, o almeno gli appassionati di jazz, conoscono l’albero genealogico degli organisti (per lo più hammondisti) la cui origine si trova negli cinquanta, quando cioè il ruolo dell’organo passò dall’accompagnamento di cori gospel nei luoghi di culto ad un vero e proprio ruolo nella musica jazz e blues soprattutto grazie a Jimmy Smith. Anche in Italia l’organo jazz ha un suo proprio ruolo nel jazz soprattutto ad Alberto Marsico, Roberto Gorgazzini e più recentemente a Matteo Addabbo · che di Marsico è stato allievo ·. In questo suo nuovo “L’asino che vola” pubblicato dalla Dodicilune presenta il suo “Organ Trio” con il chitarrista Andrea Mucciarelli e il batterista Andrea Beninati coinvolgendo anche Stefano Negri, tenorista, e Cosimo Boni, trombettista, nello swingante “A scuola da Joe” (Di Francesco?). Per i restanti otto brani c’è l’Organ Trio, l’ambientazione è quella dal maistream del tempo passato ma non si tratta di ricalcare standard pluri·suonati ma piuttosto di creare nuova musica con i caratteri assimilati dallo studio e dagli ascolti dei grandi Maestri; sono composizioni uscite dalla penna di Addabbo durante l’isolamento forzato dei lunghissimi mesi della pandemia di Covid·19 che ha “costretto” parecchi musicisti a concentrarsi sulla composizione vista l’inevitabile e forzata assenza di concerti. A parte il già citato “A scuola di Joe” voglio segnalare le due ballad “Carlos” e “Se mi vedi guardami” entrambe introdotte dalla pulitissima chitarra di Andrea (Mucciarelli), la bossa nova di “O la Bossa o la Vita” · carino il gioco di parole del titolo · e ancora “Il Ladro dello Swing” che inizia con l’hammond in “odore di spiritual” per poi riportarci ai nostri tempi, un po’ una brevissima sintesi della storia di questo strumento. L’apporto ritmico della batteria · che ricordo in questo genere di trio spesso non lavora con il contrabbasso ma con le linee dettate da Addabbo · e quello della splendida chitarra di Mucciarelli · un altro che deve conoscere bene la storia del suo strumento nella musica afroamericana · è davvero decisivo alla riuscita del disco.

Scrive Matteo Addabbo nelle liner notes del disco: “Mi piacerebbe che questo disco fosse inteso dall’ascoltatore non solo come l’ascolto di una musica evocativa di emozioni, di ricordi, di paesaggi e di persone, ma anche come una sorta di monito a reagire quando nella vita ci troviamo davanti ad un momento di difficoltà apparentemente insormontabile.

Se questo era il suo obbiettivo, è stato centrato, senza ombra di dubbio.

http://www.dodicilune.it

BLEY · DITMAS · METHENY · PASTORIUS

BLEY · DITMAS · METHENY · PASTORIUS

BLEY · DITMAS · METHENY · PASTORIUS

Improvising Artist Inc.  Records. LP, 1974

di alessandro nobis

Dopo una settimana di concerti con Jaco Pastorius e Bruce Ditmas al Cafè Wha? di New York dove Paul Bley ospitò sul palco anche un imberbe Pat Metheny appena uscito dalla Berklee School of Music, il quartetto si reca agli studi Blue Rock per registrate un disco: era il 16 giugno 1974 e l’ellepì venne prodotto dall’etichetta di Paul Bley e ripubblicato nel 1976 con il titolo “Jaco” dalla DIW giapponese, successivamente anche in CD ma con diversa copertina. Racconta lo stesso Bley nella sua bella autobiografia*: “Quella era una band fantastica, anche grazie alla potenza ritmica prodotta da due virtuosi come Pastorius e Ditmas. Dopo il primo brano, il chitarrista Ross Traut mi chiese se un suo amico chitarrista della Berklee School of Music poteva suonare con con noi. Pat Metheny suonò con noi quella sera, quella dopo e per tutto il resto della settimana.” Questo lavoro è importante sia per il suo valore storico che per quello musicale: il valore storico deriva dal fatto che si tratta delle prime registrazioni fatte in studio da Jaco Pastorius e Pat Metheny (incontro fatale vista la bellezza di “Bright Size Life” che incideranno l’anno seguente per l’ECM con Bob Moses alla batteria) e anche perchè fa parte del catalogo dell’interessante etichetta di Bley, il secondo perchè queste tracce testimoniano il periodo nel quale Paul Bley progettava di dare una veste elettrica al free jazz di cui da tempo era una delle personalità più importanti, un progetto che però pensò di abbandonare considerato che i colleghi dell’epoca da Corea, Zawinul a Hancock erano passati all’uso intensivo dell’elettronica e quindi virò la sua idea in senso contrario per ritornare alla dimensione acustica.

Il disco in questione consiste di nove brani, cinque composti da Carla Bley tra i quali la melodia iniziale del lunghissimo “Vashhkar” con all’interno un bel duetto di basso e batteria e due soli di Metheny e Pastorius, uno di Annette Peacock (“Blood“) che chiude la seconda facciata eseguiti rispettando la melodia ma con un intenso uso della pratica improvvisativa; i rimanenti sono attribuiti a Paul Bley ma in realtà si tratta di improvvisazioni dove si concretizza l’ottimo interplay costruito nella settimana di concerti che precedettero la registrazione. Magnifica la sezione ritmica · così la definì lo stesso pianista di Montreal · con l’onnipresente Pastorius a costruire trame, assoli e “reggere” il lavoro del Rhodes, ed in Metheny è già riconoscibile il suo stile anche se il suono della sua chitarra non è ancora quello pulito che ben conosciamo: come in “Vampira” aperto da un incisivo quanto breve riff di basso, un bel solo di Bley ed una bella improvvisazione solistica di chitarra, un lungo brano, a mio avviso il più significativo del disco che esprime molto bene il concetto musicale che Bley aveva a quel tempo. Ma al di là della bellezza della musica, questo ellepì svela agli appassionati di jazz il mostruoso talento di Jaco Pastorius che un paio di anni dopo venne chiamato da Wayne Shorter e Joe Zawinul.


*PAUL BLEY & DAVID LEE · “Liberare il tempo. Paul Bley e la trasformazione del jazz“. QUODLIBET CHORUS, 2022

  1. Vashkar – 9:55 (musica: C. Bley)
  2. Poconos – 1:00 (musica: P. Bley)
  3. Donkey – 6:28 (musica: C. Bley)
  4. Vampira – 7:15 (musica: P. Bley)
  5. Overtoned – 1:04 (musica: C. Bley)
  6. Jaco – 3:45 (musica: P. Bley)
  7. Batterie – 5:12 (musica: C. Bley)
  8. King Korn – 0:29 (musica: C. Bley)
  9. Blood – 1:28 (musica: A. Peacock)
After a week of concerts with Jaco Pastorius and Bruce Ditmas at Cafè Wha? of New York where Paul Bley also hosted a beardless Pat Metheny on stage just out of the Berklee School of Music, the quartet went to the Blue Rock studios to record a record: it was June 16, 1974 and the LP was produced by the Paul Bley and re-released in 1976 under the title "Jaco" by the Japanese DIW, later also on CD but with a different cover. Bley himself recounts in his beautiful autobiography*: "That was a fantastic band, also thanks to the rhythmic power produced by two virtuosos like Pastorius and Ditmas. After the first song, guitarist Ross Traut asked me if a guitarist friend of his from the Berklee School of Music could play with us. Pat Metheny played with us that night, the next and throughout the rest of the week." This work is important both for its historical value and for its musical value: the historical value derives from the fact that it is the first studio recordings made by Jaco Pastorius and Pat Metheny (a fatal encounter given the beauty of "Bright Size Life" which will affect the following year for ECM with Bob Moses on drums) and also because it is part of the catalog of Bley's interesting label, the second because these tracks bear witness to the period in which Paul Bley was planning to give an electric guise to free jazz by which he had been one of the most important personalities for some time, a project which however he thought of abandoning considering that his colleagues of the time from Korea, Zawinul to Hancock had switched to the intensive use of electronics and therefore he veered his idea in the opposite direction to return to the acoustic dimension. The disc in question consists of nine songs, five composed by Carla Bley including the initial melody of the very long "Vashhkar" with a beautiful duet of bass and drums inside and two solos by Metheny and Pastorius, one by Annette Peacock (" Blood") which closes the second side performed respecting the melody but with an intense use of improvisational practice; the remaining ones are attributed to Paul Bley but in reality they are improvisations where the excellent interplay built up in the week of concerts that preceded the recording takes shape. The rhythm section is magnificent · as the Montreal pianist himself defined it · with the ubiquitous Pastorius building textures, solos and "supporting" the work of the Rhodes, and in Metheny his style is already recognizable even if the sound of his guitar is not is still the clean one we know well: as in "Vampira" opened by an incisive but short bass riff, a beautiful solo by Bley and a beautiful solo guitar improvisation, a long piece, in my opinion the most significant of the album which expresses very well the musical concept that Bley had at that time. But beyond the beauty of the music, this LP reveals to jazz enthusiasts the monstrous talent of Jaco Pastorius who a couple of years later was called by Wayne Shorter and Joe Zawinul.

CRISPINO · LANCIAI · BASILE · SABELLI “Kobayashi”

CRISPINO · LANCIAI · BASILE · SABELLI “Kobayashi”

CRISPINO · LANCIAI · BASILE · SABELLI “Kobayashi”

Dodicilune Records. CD, 2023

di alessandro nobis

Basta un ascolto di questo sorprendente “Kobayashi” per intuire come le provenienze culturali di Luca Crispino (chitarra), Roberto Lanciai (sax baritono), Fabio Basile (basso elettrico a sei corde) e Luigi Sabelli (batteria) non siano rigorosamente accademiche, ma provengano da frequentazioni musicali · come musicisti e come ascoltatori attenti · estremamente variegate con interessi diciamo “multipli” e lo si può intuire attraverso i numerosi indizi che i quattro forniscono all’attento fruitore. Il jazz più legato al mainstream, l’uso mai invasivo dell’elettronica, certi ritmi più legati al rock, il gusto per la melodia il tutto abilmente fuso nelle nove tracce composte da Crispino, Lanciai e Basile che costituiscono questo lavoro di un quartetto a cui auguro lunga vita artistica. Il baritonista Lanciai sposta ad esempio il baricentro verso il jazz più vicino al maistream con tre ballate tra le quali tengo a segnalare in modo del tutto personale “Jungle“, una languida ballad dal sapore caraibico con il tema esposto dal sax ed un bel solo di chitarra, il bassista Basile scrive ad esempio anche lo splendido brano finale, “Strummer“, ispirato da quel rock intriso di reggae del quale inventori furono appunto i Clash (e il titolo sembra confermare ciò) con altro bel solo di baritono, il tutto permeato da elaborazioni elettroniche per mano di Crispino che compone tre brani tra i quali segnalo l’intrigante “Ombre sul Borgo” dal ritmo compassato e guidato dalla chitarra che dialoga con il sax. L’album nonostante i compositori siano tre risulta molto omogeneo, piacevolissimo anche all’ascolto ripetuto, e naturalmente il ruolo della sezione ritmica è decisivo, il drumming di Sabelli si adatta alla perfezione ai vari paesaggi sonori ed il basso di Basile è struttura portante della musica, il fatto che Basile sia anche ottimo chitarrista e che qui abbia scelto il basso a sei corde gli consente di andare oltre il limite del suo strumento in modo del tutto efficace. L’affiatamento e l’interplay mi paiono sempre adeguati, sembra quasi che i “quattro” si frequentino musicalmente da tempo, molto tempo. Mah!

RALPH TOWNER · GARY BURTON “Slide Show”

RALPH TOWNER · GARY BURTON “Slide Show”

RALPH TOWNER · GARY BURTON “Slide Show”

ECM Records 1306. LP, 1986

di alessandro nobis

Da solo (recentemente alla veneranda età di 83 anni ha pubblicato un super album, “At First Light“), in duo (con Gary Peacock e John Abercrombie) o con gli Oregon Ralph Towner ha sempre stupito per la sua straordinaria capacità di unire la composizione con la superba tecnica lasciando sempre ai suoi partner lo spazio per creare e per arricchire le sue scritture, e questo secondo capitolo · il primo “Matchbook” fu pubblicato nel ’75 sempre dalla fedele ECM · della collaborazione con un altro gran musicista, il vibrafonista Gary Burton a mio avvisa conferma quanto detto.

Questa “carrellata di diapositive” a parte una splendida rilettura · qui la scelta è la 12 corde · di uno dei più interpretati brani del songbook davisiano, “Blue in Green” (scritto con Bill Evans) con il tema esposto dal vibrafono ed uno splendido solo di Towner che chiude la prima facciata, presenta ben otto originali composti dal chitarrista americano, brani dalla grande cantabilità e contraddistinti da un profondo interplay che lascia ampio spazio alle improvvisazioni pur rimanendo nei paletti fissati da Towner. Eterea ed introspettiva la ballad “Beneath an Evening Sky” che apre il lato B, come davvero inusuale · per i due musicisti · è “The Donkey Jamboree” dall’aria caraibica con Burton impegnato alla marimba (che suona anche con la solita maestrìa in “Innocenti“, brano che chiude il disco) e le chitarre di Towner mentre “Charlotte’s Tangle” ci riporta al duo vibrafono · classica ed è a mio avviso uno dei brani più emblematici della collaborazione tra i due per la sua complessità, la sua purezza e l’architettura sonora.

Disco che come “Matchbook” dopo oltre quaranta anni si apprezza in tutta la sua bellezza cristallina, come solo i veri classici del jazz sanno fare.

Alone (recently at the age of 83 he released a super album, “At First Light”), in duo (with Gary Peacock and John Abercrombie) or with Oregon Ralph Towner has always amazed by his extraordinary ability to unite the composition with the superb technique always leaving his partners the space to create and enrich his writings, and this second chapter · the first “Matchbook” was published in ’75 always by the faithful ECM · of the collaboration with another great musician, the vibraphonist Gary Burton in my opinion confirms what has been said.

This “Slide Show” apart from a splendid reinterpretation · here the choice is the 12 strings · of one of the most interpreted pieces of Davis’ songbook, “Blue in Green” (written with Bill Evans) with the theme exposed by the vibraphone and a splendid Towner’s solo which closes the first side, features eight originals composed by the American guitarist, songs of great melodies and characterized by a profound interplay that leaves ample space for improvisations while remaining within the limits set by Towner. Ethereal and introspective the ballad “Beneath an Evening Sky” which opens the B side, as truly unusual · for the two musicians · is “The Donkey Jamboree” with a Caribbean air with Burton playing the marimba (who also plays with the usual mastery in “Innocenti”, the track that closes the disc) and Towner’s guitars while “Charlotte’s Tangle” brings us back to the vibraphone · classical duo and is in my opinion one of the most emblematic songs of the collaboration between the two for its complexity, its purity and sound architecture.

Disco that like “Matchbook” after more than forty years can be appreciated in all its crystalline beauty, as only true jazz classics can do.

TEO EDERLE 4 · 5et “Fishes”

TEO EDERLE 4 · 5et “Fishes”

TEO EDERLE 4 · 5et “Fishes”

Flying Robert Music. CD, 2023

di alessandro nobis

Teo Ederle è un polistrumentista (e anche abile “manipolatore di suoni”) molto apprezzato con una lunga carriera alle spalle · ha iniziato praticamente da bambino con il flauto e la chitarra · durante la quale ha preso parte a interessanti progetti tra i quali voglio citare “The Bang” (con Roberto Zorzi, Bobby Previte, Tim Berne, Percy Jones, Herb Robertson e Mark Feldman), il trio “Blue Neptune” con Tiziano Zattera e Stefano Menato, i “Garlic” con Terragnoli ed il percussionista Sbibu, e ancora gli “Art·Erios” (Con Nicola Salerno e Fabio Basile): oltre a ciò è stato, e lo ancora, attento e curioso ascoltatore degli sviluppi che la musica “rock” in tutte le sue sfaccettature ha avuto negli ultimi decenni.

Fishes“, pubblicato dall’etichetta di Nelide Bandello fotografa lo “status quo”, del percorso musicale del polistrumentista veronese visto che tra i suoi solchi si nascondono molti degli elementi essenziali che a mio avviso hanno costituito il punto di partenza per la composizione delle sette tracce del disco alla registrazione delle quali hanno contribuito Enrico Terragnoli alla chitarra, Stefano Menato al sax, Davide Veronese alla tromba e Nelide Bandello alla batteria.

E, giusto per fare qualche esempio tra i brani del CD che più ho apprezzato, “Manta Matilde” è una delicata ballad dedicata alla madre (“A Dugongo Called Arnold” che apre il disco è invece tutta per il papà poeta Arnaldo) ed è introdotta dal basso e dal clarinetto di Menato, “Dennis the Sand Hopper” · in quintetto, aperta dal drumming di Bandello · è una significativa dedica all’attore americano che comprende una lunga sezione totalmente libera, “Octopus Full Moon Dance” introdotta dalle pulsazioni del basso di Ederle è un ritmo di danza orientaleggiante (forse di ispirazione Otto · Mana per stare al gioco di parole del titolo …..) che al suo interno ha gli assolo del sax di Menato e della chitarra di Terragnoli.

Infine voglio citare la pur breve ma interessante “One Minute Plancton“, sul versante “ambient · improvvisato” con la tromba sordinata di Davide Veronese: che queste sonorità presumano il tema del prossimo lavoro di Teo Ederle? Lo aspettiamo al varco ….. intanto godiamoci questo “Fishes”.

Il CD si può acquistare presso il negozio Dischi Volanti in Via Fama a Verona mentre dall’8 giugno potrà essere scaricato da BandCamp sulla pagina di Flying Robert Music.

SERGIO ARMAROLI “Vibraphone solo in four part(s)”

SERGIO ARMAROLI “Vibraphone solo in four part(s)”

SERGIO ARMAROLI “Vibraphone solo in four part(s)”

Dodicilune Records. CD ED536, 2023

di alessandro nobis

“Introspezione”. È la prima parola alla quale ho pensato appena finito di ascoltare questo disco in “solo” del vibrafonista Sergio Armaroli registrato nel 2022 e pubblicato dalla Dodicilune, un musicista il cui interesse si muove attorno al jazz, alla musica contemporanea, alla sperimentazione ed alla creazione istantanea come testimonia la sua discografia delle sue più recenti frequentazioni: dalle composizioni di Monk alle collaborazioni con Schiaffini, Curran, Prati e Centazzo per citarne alcune.

Questo “Vibraphone solo in four part(s)” come si evince facilmente dal titolo è un percorso di ricerca in completa solitudine che Armaroli ha compiuto con il suo strumento, un viaggio in quattro tappe che attraversa il quotidiano non solo nei suoni più reconditi del vibrafono ma anche dentro sè stesso, introspettivo appunto.

La costruzione delle quattro tracce è una creazione spontanea e il poter riascoltare il processo di concretizzazione delle idee dà l’esatta percezione non solo della tecnica e della conoscenza delle potenzialità del vibrafono ma anche della visione musicale “solistica” che Sergio Armaroli ha pensato lasciando a sè stesso la più totale libertà mentale e quindi creativa. Dal vivo sarà tutto diverso, come si conviene ………..

Non è certo uno dei dischi più facili da ascoltare prodotti dall’etichetta pugliese · tra le più attive ed attente al panorama jazz e dintorni italiano · , non ci sono melodie da seguire o assoli da apprezzare, ma per questo di certo è uno dei più interessanti perchè consente di apprezzare uno strumento e la musica che ne scaturisce in tutta la sua purezza e bellezza.

Di Sergio Armaroli ne avevo parlato anche qui:

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2022/01/27/armaroli-%c2%b7-schiaffini-4tet-monkish-round-about-thelonious/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2021/03/14/schiaffini-%c2%b7-armaroli-deconstructing-monk-in-africa/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2020/06/03/centazzo-%c2%b7-schiaffini-%c2%b7-armaroli-trigonos/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2018/10/17/walter-prati-sergio-armaroli-close-your-eyes-oper-your-mind/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2018/03/24/schiaffini-prati-gemmo-armaroli-luc-ferrari-exercises-dimprovisation/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2017/12/23/sergio-armaroli-5et-with-billy-lester-to-play-standards-amnesia/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2017/12/01/curran-schiaffini-c-neto-armaroli-from-the-alvin-curran-fakebook-the-biella-sessions/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2017/05/29/sergio-armaroli-fritz-hauser-structuring-the-silence/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/08/26/sergio-armaroli-trio-with-giancarlo-schiaffini-micro-and-more-exercises/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/03/21/sergio-armaroli-axis-quartet-vacancy-in-the-park/)

DALLA PICCIONAIA: BANDELLO · BEARZATTI · DIENI · MELLA · SAVOLDELLI · ZORZI

DALLA PICCIONAIA: BANDELLO · BEARZATTI · DIENI · MELLA · SAVOLDELLI · ZORZI

DALLA PICCIONAIA: BANDELLO · BEARZATTI · DIENI · MELLA · SAVOLDELLI · ZORZI

“Villafranca di Verona, Esotericproaudio Theater, 31 marzo 2023”

di alessandro nobis

Grazie a Mirko Marogna, titolare dell’Esotericproaudio Theater di Villafranca · a pochi chilometri da Verona · esiste un’altra “tana” (l’altra è il Paratodos, ma in città) per coloro che praticano suonare o amano ascoltare, o entrambe le cose, la musica così chiamata in modo generico di “avanguardia”. A Villafranca ho avuto la fortuna di assistere il 31 marzo ad un concerto di un sestetto di musicisti · esploratori dal grande valore e disponibilità a sperimentare costruito dalla fertile mente del chitarrista Roberto Zorzi: con lui Nelide Bandello alla batteria, Francesco Bearzatti al sax tenore e clarinetto, Pino Dieni al daxofono, Aldo Mella al contrabbasso e Boris Salvoldelli alla voce. Tema della serata l’improvvisazione musicale ripetibile nella forma ma irripetibile nella sostanza che si sviluppa da un’idea iniziale e che può portare ovunque, in questo caso anche al jazz più vicino al maistream, allo spiritual di “Down to the river to pray” ed alla canzone italiana naturalmente rivista e corretta. L’amalgama tra i diversi linguaggi è stato straordinario, la musica creata con tale fluidità che alla fine pure io mi sono chiesto se effettivamente i sei avevano provato o concordato alcuni passaggi perchè dal set di chitarra di apertura alle splendide reinterpretazioni istantanee di Savoldelli di “Parlami d’amore Mariù“, “‘O Sole Mio” e “Non ti fidar (di un bacio a mezzanotte)” che hanno chiuso il concerto mi è parso perfetto, senza cadute di tono, con i musicisti che hanno saputo calibrare i loro interventi e che hanno saputo anche momentaneamente farsi da parte per osservare l’evoluzione della musica e rientrare al momento più opportuno senza alterare il pathos dell’improvvisazione.

Come dicevo, ben progettata e realizzata anche la successione delle presenze sul palco dei sei compagni viaggio, ad iniziare dal set di Roberto Zorzi al quale poi si sono aggiunti Pino Dieni e Borsi Savoldelli mentre per la seconda parte il sestetto si è completato con Aldo Mella, Francesco Bearzatti e Nelide Bandello mantenendo sempre come dicevo una grande fluidità nel suono e nella creazione musicale ed attirando l’attenzione del pubblico che ha seguito “l’evolversi della situazione”.

Tornando a casa in auto mi sono convintamente detto che questo materiale dovrebbe essere pubblicato senza tanti tentennamenti o anche minime post·produzioni:  ripeto, serata straordinaria e al solito chi è rimasto a casa ha avuto torto ancora una volta …

ROBERT WYATT “Radio Experiment · Rome, February 1981”

ROBERT WYATT “Radio Experiment · Rome, February 1981”

ROBERT WYATT “Radio Experiment · Rome, February 1981”

RAI Trade Records. CD, 2009

di alessandro nobis

C’era una volta “Mamma Rai”. C’era una volta un programma radio che andava sul Terzo Canale che si chiamava “Un Certo Discorso” ideato da Pasquale Santoli che andò in onda per cinque giorni la settimana dal 8 novembre 1976 al 1 gennaio 1988. Era un programma di “attualità culturale” così lo definirei e il suo responsabile, Santoli appunto, diede un’imprenta editoriale con produzioni originali nel campo dello spettacolo, dell’intrattenimento, del giornalismo d’inchiesta e nel campo musicale.

Viene così invitato a partecipare la trasmissione una delle menti più lucide del panorama jazz più vicino al rock dell’ultimo mezzo secolo, una delle figure più seguite ed apprezzate dagli appassionati che dai tempi dei Wilde Flowers (correva l’anno 1964) e dei primi Soft Machine ha saputo pensare ad un nuovo percorso musicale: Robert Ellidge (a.k.a. Robert Wyatt) autore, sperimentatore, compositore, cantante e batterista.

Wyatt si trattiene a Roma dal 16 al 20 febbraio del 1961 e nella sala M del Centro di Produzione Radio, il 19 dà vita a queste registrazioni incidendo su un multitraccia pista dopo pista le sue idee: non gli viene chiesto di suonare i suoi brani storici ma gli viene lasciata la più totale libertà per documentare il suo processo creativo, il musicista inglese accetta e ringrazia per avere questa rara possibilità tanto più che viene data da un organismo governativo, la R.A.I. appunto. Ciò che si percepisce è la sintonia tra lo stesso Wyatt e gli autori radiofonici e, ribadisco, l’assoluta libertà lasciata di concretizzare ed espandere le idee senza un “fine discografico”.

Un processo creativo che si realizza con un pianoforte, tastiere, oggetti vari, scacciapensieri, percussioni e naturalmente con la sua voce e il suo genio con una libertà assoluta citando ad esempio il Charlie Parker di “Billie’s Bounce“; è questo cd uno dei più interessanti episodi della discografia di Wyatt anche perchè si avvicina di molto all’universo più sperimentale della musica europea, ovvero quello che pratica la creazione musicale spontanea ed irripetibile.

Once upon a time “Mamma Rai”. Once upon a time there was a radio program that went on the Third Channel called “Un Certo Discorso” created by Pasquale Santoli which went on air for five days a week from 8 November 1976 to 1 January 1988. It was a program of “cultural current affairs This is how I would define it and its manager, Santoli, gave an editorial imprint with original productions in the field of entertainment, investigative journalism and in the music field.

Thus one of the most lucid minds of the jazz panorama closest to rock of the last half century is invited to participate in the broadcast, one of the most followed and appreciated figures by enthusiasts who since the days of the Wilde Flowers (it was the year 1964) and the first Soft Machine has been able to think of a new musical path: Robert Ellidge (a.k.a. Robert Wyatt) author, experimenter, composer, singer and drummer.

Wyatt stays in Rome from 16 to 20 February 1961 and in room M of the Radio Production Center, on the 19th he gives life to these recordings by recording his ideas on a multitrack track after track: he is not asked to play his historical pieces but the most complete freedom is left to him to document his creative process, the English musician accepts and thanks for having this rare possibility especially since it is given by a government body, the R.A.I. precisely. What is perceived is the harmony between Wyatt himself and the radio authors and, I repeat, the absolute freedom left to materialize and expand ideas without a “recording purpose”.

Wyatt tells Michael King in ‘Wrong Movements: A Robert Wyatt History’, SAF Publishing 1994: “If they really want to see how I work before I know what I’m doing, then that’s what they’re going to get and if during that week something comes out of it, then it will do, but if it doesn’t then that will be more honest.  I deliberately went in there and improvised what I was doing as well as how I did it. The point wasn’t to have a finished result that could be listened to, the point was to see a process. It’s only in retrospect that I can see that bits of some of them have some kind of coherence“.

A creative process that takes place with a piano, keyboards, various objects, harps, percussions and of course with his voice and his genius with absolute freedom quoting for example the Charlie Parker of "Billie's Bounce"; this CD is one of the most interesting episodes of Wyatt's discography also because it is very close to the more experimental universe of European music, that is the one that practices spontaneous and unrepeatable musical creation.
1Opium War7:14
2Heathens Have No Souls7:12
3L’albero Degli Zoccoli8:28
4Holy War3:35
5Revolution Without “R”3:24
6Billie’s Bounce1:30
7Born Again Cretin2:35
8Prove Sparse10:10