BAN · MANERI · SURMAN “Transylvanian Folk Songs: the Bela Bartok Field Recordings”

BAN · MANERI · SURMAN “Transylvanian Folk Songs: the Bela Bartok Field Recordings”

LUCIAN BAN · MAT MANERI · JOHN SURMAN “Transylvanian Folk Songs: the Bela Bartok Field Recordings”

SUNNYSIDE RECORDS, CD. 2020

di alessandro nobis

Nativo di Cluj, nel cuore della Transilvania rumena, Lucian Ban è un eccellente pianista innamorato della sua terra, della sua cultura e di conseguenza del monumentale lavoro che Bartok Bela ha raccolto, trascritto e interpretato lasciando un’eredità che come quantità e qualità ha pochi eguali nel mondo; John Surman è uno sperimentatore dei sassofoni e clarinetti considerato uno dei padri della corrente jazzistica formatasi in Europa negli anni Sessanta e protagonista di alcune delle più interessanti pagine incise in questo ambito e l’americano Mat Maneri, dal canto suo, è un violista di grandissime doti, il suo linguaggi si muove tra sperimentazione, musica contemporanea e jazz. Il pianista rumeno ha chiamato “a sé” Surman e Maneri con i quali ha confezionato questo straordinario esempio di come si possa contemporaneamente seguire con rispetto il lavoro di Bartok (ma anche, aggiungo, di Kodaly Zoltan) aggiornando le sue composizioni con suoni e combinazioni sonore più vicine ai nostri giorni. La combinazione pianoforte ·ance ·viola non è per nulla casuale, e si ispira a “Contrast” composta nel 1938 e registrata nel 1940 Bartok assieme a Benny Goodman e Joseph Szigetti, quindi partire dalla tradizione più cristallina per creare qualcosa di nuovo, fare riferimento anche a semplici frammenti bartokiani e svilupparli mantenendo inalterato lo spirito originale. Un progetto complesso ed ambizioso che il trio grazie anche alle esperienze individuali nel campo dell’improvvisazione riesce a realizzare nel migliore dei modi.

Emblematica la melodia natalizia “What a great night is, a Messenger was born”, dove le ance e la viola interpretano nel pieno rispetto lo spartito di Bartok lasciando tutto lo spazio al pianoforte libero nel processo creativo.

Le stupende foto della copertina e del libretto sono di Bela Bartok.

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ANDY IRVINE & DAVY SPILLANE “East Wind”

ANDY IRVINE & DAVY SPILLANE “East Wind”

ANDY IRVINE & DAVY SPILLANE “East Wind”

TARA Records, CD 1992

di Alessandro Nobis

(pubblicato in origine sul numero di settembre 1992 della rivista FOLK BULLETIN)

Finalmente viene coronato, con la pubblicazione di questo “Vento dell’est” (e quale poteva essere il titolo, se non questo?) il sogno dell’irlandese Andy Irvine, quello di registrare cioè un disco interamente dedicato alle musiche balcaniche da lui tanto amate e studiate e che spesso nei lavori precedenti hanno avuto degno spazio (come dimenticare le horo “Mominsko”, “Paidusko” e “Smeceno”?).

Ed in effetti questa osmosi, tanto agognata, offre un risultato più che dignitoso da collocarsi nel novero dei migliori prodotti di Irvine, superiore forse anche al suo recente “Rude Awakening”; grande merito della buona riuscita di questo “East Wind” va comunque sia a Davy Spillane (la cui esuberanza è splendidamente “frenata” dalla produzione di Bill Whelan) che ai musicisti ospiti, nientedimeno che la magiara Marta Sebestyen e il bulgato – leader degli Zsaratnok – Nikola Parov, le gemme più splendenti della musica balcanica di stampo tradizionale i quali, con Noel Eccles, Martin O’Connor, Tony Molloy e Bill Whelan arricchiscono la musica con i loro sempre splendidi e opportuni interventi.

Ottime l’iniziale “Xhetvorno Horo” – con le uilleann pipes di Spillane in evidenza – ,la canzone bulgara “Kadana”, eseguita dal trio Sebestyen Parov Whelan, pregevole l’arrangiamento per uilleann pipes e tastiere della struggente “Illyrian dawn”, e davvero particolare l’esecuzione di “Dance of Suleyman” con i brevi ma efficaci interventi dei fiati e della chitarra di Anthony Drennan.

Purtroppo un “supergruppo” destinato a rimanere “sulla carta” (o meglio su CD), date che sembra quanto meno improbabile ipotizzare un tour per questi super-impegnati musicisti.

Ma la speranza, si sa, è l’ultima a morire.

AA.VV. “Live Recordings from the William Kennedy Piping Festival” Vol. 2

AA.VV. “Live Recordings from the William Kennedy Piping Festival” Vol. 2

AA.VV. “Live Recordings from the WKPF” Volume 2.

WKPF RECORDS, 2CD. 2018

di Alessandro Nobis

Per celebrare la 25^ Edizione del William Kennedy Piping Festival che si tiene ad Armagh, nell’Ulster, intorno alla metà del mese di novembre, viene pubblicata dagli organizzatori questa preziosa antologia – è il secondo volume di una serie che raccoglie registrazioni che coprono un lungo periodo, dal 2003 al 2017. Chi avrò l’opportunità di ascoltare questo doppio CD – e mi riferisco in particolare a coloro i quali sono mai stati tra il pubblico del Festival, scoprirà l’incredibile polimorfismo che la cornamusa ha sviluppato nel secoli praticamente ovunque in Europa.

Qui potrete assaporare – tra le altre – le launeddas di Luigi Lai accanto alle uillean pipes “di casa” di Paddy Keenan, ospite con Paddy Glackin anche nell’edizione 2018, di Cillian Vallely e di Robbie Hannan, la gaita galiziana di Anxo Lorenzo, la Gaida bulgara di Ivan Georgiev e la Sackpipa svedese di Olle Gallmo e la Duda magiara di Balasz Istvanfi, le Northumberland Smallpipes di Andy May accanto alla cornamusa scozzese delle Highlands di Finlay McDonald.

Un vero tripudio della tradizione musicale legata a questo ancestrale strumento legato indissolubilmente alla cultura pastorale che ha trovato il modo, come dicevo, di sviluppare forme e suoni come nessun altro nella cultura europea e mediorientale. Una proposta questa, come lo era il primo volume, che testimonia l’appassionato lavoro e le straordinarie competenza e cura – oltre ad una massiccia dose di curiosità – nella scelta degli interpreti che da un quarto di secolo l’Armagh Pipers Club ha fatto diventare il WKPF un punto di incontro degli appassionati della cultura popolare.

La pubblicazione è supportata dall?arts Council e dall’Irish Traditional Music Archive, ed è acquistabile contattando il Club sul sito www.armaghpipers.com

Per il report dell’edizione 2018 vedi: in Lingua inglese: https://ildiapasonblog.wordpress.com/2018/12/15/william-kennedy-piping-festival-2018-nov-15th-18th-2018-armagh-co-armagh-ireland/ed in lingua italiana https://ildiapasonblog.wordpress.com/2018/12/11/dalla-piccionaia-william-kennedy-piping-festival-2018-15-18-novembre-armagh-co-armagh-irlanda-seconda-parte/e https://ildiapasonblog.wordpress.com/2018/12/04/dalla-piccionaia-william-kennedy-piping-festival-15-18-nov-2018-armagh-co-armagh-irlanda-prima-parte/

SUONI RIEMERSI: MUZSIKAS “Blues For Transylvania / Osz Az Ido”

SUONI RIEMERSI: MUZSIKAS “Blues For Transylvania / Osz Az Ido”

SUONI RIEMERSI: MUZSIKAS “Blues For Transylvania / Osz Az Ido”

Hannibal Records / Hungaroton Records. LP, CD 1990 / 1989

di Alessandro Nobis

Quinto album del gruppo budapestino dei Muzsikas (sesto considerando “Dudoltam en” attribuito alla sola cantante Marta Sebestyen, nel quale però suonano anche gli altri componenti del gruppo) ed ulteriore passo avanti rispetto al precedente “The Prisoner’ Song”. Questo “Blues for Transylvania” è in effetti un ottimo disco, a testimoniare che lo studio ela rielaborazione del materiale etnico dell’Ungheria continua a vivere ed a brillare di luce propria, a dispetto dei tentativi di introdurre anche ad oriente prodotti preconfezionati, spesso di bassa levatura, provenienti dall’area anglo americana.

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La copertina Hungaroton (1989)

Finissimi strumentisti, validi arrangiatori e studiosi preparati, i Muszikas ci offrono con questo “Blues for Transylvania” una galleria di danze tradzionali e di canzoni eseguite secondo lo stile di questa regione, terra in perpetuo fermento divisa – ormai lo sanno tutti – fra Romania ed Ungheria. Il blues, quello inteso come la successione di dodici battute, non c’entra per niente; il termine, intraducibile ma assimilabile alle parole amarezza o sconforto, è appunt riferibile ai sentimenti della gente di Transilvania, alla quale i Muzsikas hanno dedicato questo album.

Questa dedica è comunque solamente ”sulla carta”. Ecco perché: il disco, che nell’edizione ungherese si chiama “Osz az ido” (che in ugherese significa “Tempo Autunnale”) è stato stampato in Occidente dalla Hannibal di Joe Boyd con diversa copertina, diversa successione dei brani e come abbiamo visto diverso titolo, cambiamento quest’ultimo – non sappiamo se in buona fede – fatto per attirare il pubblico inglese ed europeo in generale verso questo prodotto che – lo ripetiamo – è davvero di ottima fattura. Fatto da non tralasciare, il “nostro” (Joe Boyd) ha dimenticato (?) di inserire il foglio interno con i testi che, nell’edizione originale, erano anche tradotti in inglese ed ha inserito un brano di otto minuti (“Osz az ido”) slamente nella stampa su compact disc.

I brani? Su tutti “My Lord, My Lord” con la magnifica voce della Sebestyen che interpreta questa ballata, o ancora la suggestiva “Outlaz song” interpretata da Peter Eri e con in evidenza Sandor Csoori alla ghironda. Trascinanti le danze, con su tutte “Szabora”, combinazione dei due stili “duvo” e “Cszardas”.

In definitiva un bellissimo LP, che rappresenta però solamente la punta dell’iceberg etnico ungherese, patrimonio che aspetta solo di essere finalmente scoperto. (FOLK BULLETIN, DICEMBRE 1990)

 

 

MAKAM “Ezeregyéjszaka (Le Mille e una notte)”

MAKAM “Ezeregyéjszaka (Le Mille e una notte)”

MAKAM “Ezeregyéjszaka (Mille e una notte)”

Fono Records ZPCD020, CD, 2017

di Alessandro Nobis

I Makàm di “Approaches” (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2017/04/10/suoni-riemersi-makam-ensemble-kozelitesek-approaches/) non esistono più da molto tempo; non sono più quelli che qui vennero definiti “gli Oregon danubiani”, di quel gruppo resta il timoniere, chitarrista e compositore Zoltan Krulik che guida il gruppo verso sentieri musicali che seppur intrisi sempre in misura minore di sfumature sonore del lontano Oriente (nel gruppo degli esordi ascrivibili soprattutto a Szabolc Szoke e Peter Szalai che non fanno più parte del gruppo da parecchi anni ormai) hanno assunto la struttura della forma canzone. Non sono migliori o peggiori dei Makam degli esordi, sono solamente diversi. E quindi si rende necessario affrontare questi nuovi lavori senza troppi riferimenti al passato, in modo da apprezzare pienamente le composizioni che il chitarrista e compositore budapestino Krulik Zoltan propone. Questo lavoro è a mio avviso uno dei più riusciti del gruppo, con tre brani costruiti attorno alle liriche di Petofi Sandor, poeta ed una delle figure cardine della rivolta del 1948 guidata da Lajos Kossuth, una vera e propria “primavera magiara” che per quale mese portò alla costituzione di una stato magiaro libero dagli Asburgo che con forza e successo represse con la forza (vi ricorda niente questo?).

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La musica, suonata con strumenti acustici a parte l’elegante basso fretless di Attila Boros, si ascolta molto volentieri, con le melodie ed i ritmi che gli estimatori di Krulik ben conoscono ed apprezzano; “Egi Tunder” con la voce della violinista Barbara Kuczera e la dolcissima ballad “Hat Haiku” con un bel solo di Janos Korényl, ma soprattutto i brani con i testi di Petofi (“Le stelle cadranno” ovvero “A csillagok Lehullanak”, “Petofi Blues” e “Siamo Lontani”, “Mi messze”) che riportano ai nostri giorni le lotte di indipendenza del popolo magiaro son quelli che più mi sono piaciuti e che più ho riascoltato, nonostante la lingua sia veramente ostica per noi non-magiari. Un gran bel lavoro pubblicato dalla Fono Records di Budapest che sta cercando di proseguire il lavoro della leggendaria Hungaroton che ebbe il grande merito di far conoscere la musica ungherese in tutte le sue sfaccettature e fasi storiche.

Oggi, con Zoltan Krulik, fanno parte del Makam Egyuttes Bori Magyar alla voce, i già citati Barbara Kuczera e Attia Boros oltre a Laszlo Keonch alle percussioni. Nella discografia dei Makam segnalo il primo lavoro, quello con i Kolinda e “Szerelem” del 2016.

www.makam.hu

 

LUIGI PANELLA “Colonnello Ferenc”

LUIGI PANELLA “Colonnello Ferenc”

LUIGI PANELLA “COLONNELLO FERENC”

ULTRASPORT EDIZIONI, 2017. Pagg. 189, € 16,00

di Alessandro Nobis

C’è stato un “prima” e c’è stato un “dopo” nella vita di Franz Purczeld a.k.a. Ferenc Puskas jr.

Il solco iniziò ad essere scavato la notte del 22 novembre 1956 quando la sua squadra, l’Honved, giocò e perse 3 – 2 la partita di andata degli Ottavi di finale con l’Athetic Bilbao nei Paesi Baschi e fu completato qualche giorno dopo quando i giocatori, vista la sanguinosa e spietata normalizzazione sovietica in atto a Budapest che mise fine al sogno del popolo ungherese guidato da Imre Nagy, si rifiutarono di tornare in patria e giocarono la partita di ritorno all’Heysel di Bruxelles (3-3) finendo eliminati dal torneo ma rimanendo così in Europa Occidentale.

Colonnello-FerencDel “prima” e del “dopo” si narra in modo molto dettagliato in questo interessante e piacevole volume di Luigi Panella, giornalista di Repubblica ed anche autore di “Roma sul Ring”, 2014 e di “La strategia del Tasso, 2011: vi si narra del Puskas “colonnello” dell’esercito e dei trionfi in patria, del Puskas “zingaro” delle seguenti sue peregrinazioni in giro per l’Europa, del Puskas “spagnolo” – che disputò con le Furie Rosse il Torneo Mondiale del ’62 in Cile e che indossò la casacca dei Blancos assieme all’argentino Alfredo Di Stefano – e del Puskas allenatore che portò alla finale della Coppa dei Campioni l’improbabile Panatinaikos. Fino al suo ritorno in Patria nel 1992 ed alla sua davvero ultima partita persa cercando un’impossibile dribbling al morbo di Alzheimer.

La lettura scorre via veloce, tra dettagliate ricostruzioni sportive e gli indispensabili e puntuali collegamenti geopolitici legati in modo indissolubile a quei tragici giorni – tragici solo per gli ungheresi in verità, considerata l’inerzia ed il disinteresse della comunità internazionale alle prese con la contemporanea crisi di Suez -.

Avvenimenti che non rimarranno unici, visti gli accadimenti che una dozzina di anni dopo coinvolgeranno la Cecoslovacchia di Alexander Dubcek.

Dice Jànos Betlen nella breve prefazione a questo volume che ad oggi almeno 170.000 ungheresi avrebbero o hanno visto Ferenc Puskas giocare a pallone. Le sue gesta, la sua vita, la leggenda dell’Honved e della Grande Ungheria, i trofei vinti e soprattutto il suo piede sinistro resteranno per sempre nella storia non solo sportiva magiara. E non è un caso che lo stadio di Budapest nel 2002 fu chiamato Nèpstadium Ferenc Puskas.

La scena svolge a Riverton, nel Wyoming, un paio di decenni or sono; stavo percorrendo in direzione sud la US 26 quando decisi di pernottare in un motel alle porte di questa anonima cittadina non lontana dalla catena montuosa dei Grand Teton. Era gestito da una coppia di mezza età dallo strano accento; lui non proferiva parola, lei era leggermente più loquace e ospitale. Avevo già sentito quell’accento – dissi fra me e me – ma non riuscivo a ricordare dove. Mi aiutò a ricordare la fotografia – sbiadita in bianco e nero – appesa sullo spoglio muro dietro al bancone, sopra il pannello di legno al quale erano appese le chiavi delle stanze; se quello nella foto era – ed eccome se lo era – il profeta del calcio danubiano Ferenc Puskas con la casacca dell’Honved, allora quella coppia era ungherese ed il loro accento lo avevo sentito a Budapest, giusto l’inverno prima. La mattina seguente ebbi l’occasione di scambiare qualche parola con la signora, le dissi di conoscere abbastanza bene l’Ungheria, di averla visitata quattro volte e che mi aveva colpito di trovare due persone così lontane, in una zona così diversa da casa loro. Mi raccontò che nel ’56 appena ebbero il sentore che le frontiere sarebbero state chiuse dalle truppe sovietiche, raccolsero poche cose e si diressero verso il confine austriaco, che oltrepassarono appena in tempo. Si rifugiarono da conoscenti a Vienna e quando ebbero la possibilità di emigrare in Nordamerica lo fecero: “allora o mai più”, mi disse. E cominciarono una nuova vita. Insomma, quella fotografia di Ferenc Puskas ritagliata da una rivista sportiva era l’unico ricordo tangibile rimasto della loro vita budapestina.

Chi fosse interessato all’argomento può leggere anche “La squadra spezzata – La Grande Ungheria di Puskas e la Rivoluzione del 1956” di Luigi Bolognini, pubblicato una prima volta nel 2007 da Limina e recentemente ristampato (con diversa copertina però) da 66thAND2nd.

 

FERENC SNETBERGER “Titok”


FERENC SNETBERGER “Titok”


FERENC SNETBERGER “Titok”

ECM RECORDS 2468, CD, 2017

di Alessandro Nobis

“Titok” è il secondo lavoro che il chitarrista ungherese pubblica per l’ECM di Manfred Eicher dopo “In Concert” (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/04/23/ferenc-snetberger-in-concert/), dato alle stampe nello 016; e se “In Concert” vedeva Snetberger ripreso in un concerto in piena solitudine, per registrare questo nuovo Cd Eicher ha chiamato in sala d’incisione due “pezzi grossi” del jazz come il contrabbassista francese Andres Jormin ed il batterista americano Joey Baron. Ed un’altra volta l’alchimia di Eicher funziona benissimo visto che la musica contenuta in questi sessanta minuti e registrata nel 2015 è davvero di grande fascino. Le composizioni, tutte scritte dal chitarrista magiaro, acquistano con l’apporto di Jormin e Baron una connotazione più jazzistica, sia si tratti di brani dove l’improvvisazione gioca un ruolo determinante (“Cou Cou” e “Clown”), sia in scritture come le splendide melodie delle ballads “Kék Kerék” (a mio avviso il brano più bello di tutto il lavoro) con il contrabbasso di Jormin che dialoga con la chitarra, la lunga “Alom” e “Orange Tango” introdotta dai tocchi di Joey Baron, uno dei più importanti batteristi in ambito jazzistico emersi in questi ultimi decenni. Concluso dal brano “Interference” eseguito da Snetberger in completa solitudine, questo “Titok” è per me una delle migliori produzioni ECM degli ultimi tempi per la qualità delle composizioni, degli arrangiamenti, per l’atmosfera sincera e di profondo dialogo che si percepisce dall’incontro di questi tre musicisti che, ne sono convinto, dal vivo saprebbero – o mi auguro sapranno – regalare lunghi momenti di grande jazz. Fossi direttore artistico di qualche Festival, il trio finirebbe di certo nel mio cartellone…….

 

MAKÁM ENSEMBLE “Közelitések / Approaches”

MAKÁM ENSEMBLE “Közelitések / Approaches”

MAKÁM ENSEMBLE “Közelitések / Approaches”

HUNGAROTON DISCHI SLPX 18146, LP 1988

di Alessandro Nobis

La prima volta degli ungheresi Makam in Italia fu grazie al circuito di Folkitalia, ed arrivarono preceduti dall’impegnativo appellativo di “Oregon dell’Est”. Avevano appena pubblicato questo ottimo album d’esordio – dopo i due precedenti in collaborazione con i Kolinda -, e la loro musica si staccava in modo nettissimo dalle numerose produzioni dell’etichetta di stato Hungaroton, un esempio per tutta l’Europa per l’attenzione, la cura e la dedizione alla produzione di gruppi che studiavano gli archivi e praticavano la ricerca sul campo, riproponendo le varie forme della tradizione musicale ungherese.

I Makam proponevano con questo disco un repertorio di composizioni originali del chitarrista mancino e leader Zoltan Krulik – che ancora dirige l’ensemble – che per farle eseguire aveva riunito attorno a sé musicisti con una grande preparazione tecnica e culturale realizzando un’alchimia di rara qualità per quei tempi, e che risulta ancora attuale e affascinante: strumenti e suoni ora più legati al jazz vicino ad altri appartenenti a culture balcaniche e del sub continente indiano: contrabbasso e chitarra, gadulka e kaval, tabla, tampura e sarangi, nay ed oboe.

E l’accostamento all’idea concettuale degli Oregon di Ralph Towner ci stava tutto, almeno per questo primo album: musica acustica di composizione fortemente influenzata dai suoni etnici per i Makam, musica acustica più influenzata dal jazz e dalla musica cameristica con forti sonorità etniche (le percussioni di Collin Walcott) per il gruppo americano. Punti di partenza diversi, risultato sonoro che andava ad inventare e quindi descrivere un mondo musicale nuovo.MAKAM_03

All’epoca il sestetto budapestino comprendeva oltre a Zoltan Krulik, Laszlo Bencze ak contrabbasso e percussioni, Endre Juhasz all’oboe, Peter Zsalai alle table e marimba, Szabolc Szoke al gadulka e sarangi, Balasz Thurnai al kava e marimba: “Approaches” è stato pubblicato anche in compact disc (con copertina però diversa). I Makam nel tempo hanno prodotto una discografia cospicua e Krulik ha saputo scegliere i musicisti più adatti ad interpretare le sue composizioni ed i suoi arrangiamenti. Il più recente lavoro del 2016 è “Szerelem”, di quasi impossibile reperibilità sul mercato italiano, bisogna avere una certa dose di pazienza – che io non ho avuto – e “smanettare” sulk web alla ricerca dei CD di questo gruppo, dal suono davvero originale, ungherese.

Questo loro album d’esordio è comunque da avere. Qualche filmato anche su YouTube.

La foto ritrae il gruppo nel loro secondo concerto veronese del 1992, in esclusiva italiana, per la rassegna “suoni in libertà” organizzata da Luciano Benini de “Il Posto Produzioni Zero”, nell’aula magna dell’università di Verona.  Bei tempi andati.

www.makam.hu

ZSOFIA BOROS “Local Objects”

ZSOFIA BOROS “Local Objects”

ZSOFIA BOROS  “Local Objects”

ECM 2498 CD, 2016.

di Alessandro Nobis

Magiara trapiantata a Vienna, Zsofia Boros è una straordinaria chitarrista di formazione classica aperta all’interpretazione della miglior musica di autori contemporanei, e questo “Local Objects” è la sua seconda pubblicazione per l’ECM di Manfred Eicher che prosegue il percorso intrapreso con “En otra parte” pubblicato nel 2013.

005801923_500Se nel suo disco di esordio per l’ECM aveva proposto Leo Brower, Vicente Amigo e Ralph Towner (tra gli altri), in questo “Local Objects” ha registrato otto scritture di altrettanti autori che oramai sono entrati a pieno titolo nel repertorio di chitarristi come Zsofia Boros; dai più conosciuti come il brasiliano Egberto Gismonti (del quale viene eseguita una evocativa “Celebracao de Nupcias” tratta dal magnifico “Danza Dos Cabecas”), la Milonga dell’argentino Jorge Cardosa o l’introspettiva “Vertigo Shadow” di un inaspettato Al Di Meola fino ai quattro movimenti di “Koyunbaba Op 19” composta dal cesenate Carlo Domenichini ed al brano composto dall’ azero Franghiz Ali-Zadeh.

Una parola mi viene spontanea: “eclettismo”, la capacità di adeguare i stili compositivi alla propria sensibilità, dando una nuova forma alle scritture.

Un disco bellissimo, uno dei fiori all’occhiello dell’etichetta di Eicher e della musica europea che nella discoteca di un chitarrista – al di là della sua formazione musicale – e di un amante della “bellezza pura e cristallina” non può certo mancare.

FERENC SNETBERGER “In Concert”

FERENC SNETBERGER “In Concert”

FERENC SNETBERGER

“In Concert”
 ECM RECORDS, CD, 2016

di Alessandro Nobis

Strumentista, compositore ed improvvisatore di grande livello, l’ungherese Ferenc Snetberger approda finalmente alla corte di Manfred Eicher pubblicando un concerto tenuto nel dicembre del 2013 nella splendida location della Listz Academy di Budapest. Studi classici, insegnamenti del padre – anch’egli chitarrista -, influenzato dal jazz, dalla musica brasiliana e dal flamenco oltre che dalla tradizione classica, Snetberger ha negli anni sviluppato uno stile personale soprattutto nell’improvvisazione che padroneggia splendidamente grazie naturalmente alla tecnica sopraffina, soprattutto nelle sue esibizione dal vivo. E questo “In Concert” racchiude una suite di circa cinquanta minuti suddivisa in otto quadri, “Budapest”, che evidenzia quanto detto oltre ad una definirei sountuosa rilettura – probabilmente il bis del concerto – di un brano composto da Arlen & Harburg, ovvero “Somewhere over the Rainbow”. Non sono un chitarrista né tantomeno un musicista, ma a mio avvisto questa registrazione rappresenta una delle migliori produzioni per chitarra acustica degli ultimi anni. Se vi hanno deliziato Ralph Towner, Egberto Gismonti ma anche il nostro Peo Alfonsi, avete l’obbligo assoluto di ascoltare questo concerto di Ferenc Snetberger, ne rimarrete estasiati come il sottoscritto. Venti euri spesi bene.

E se pensate che il primo lavoro solistico era stato registrato e pubblicato in Italia nel 1989 dalla Sentemo Records, possiamo senz’altro dire che i responsabili di quella etichetta trevigiana avevano avuto la vista lunga…..