OSSIAN “Ossian”

OSSIAN “Ossian”

OSSIAN “Ossian”

Springthyme Records. LP, 1977

di alessandro nobis

Nel ’77 viene pubblicato dall’etichetta scozzese Springthyme l’album di esordio di uno dei gruppi che negli anni successivi verrà considerato assieme a pochi altri (Battlefield Band, Silly Wizard, Boys of the Lough) come riferimento del cosiddetto folk·revival della terra di Scozia, gli Ossian. Questa prima line·up era un quartetto, con George Jackson (violino, plettri, flauti e chitarra), Billy Jackson (arpa scozzese, uilleann pipes, flauti), John Martin (violoncello, violino e mandolino) e Billy Ross (chitarra, flauto e dulcimer); ho di proposito tralasciato di citare le quattro voci perchè gli arrangiamenti, le armonie e la bellezza delle parti vocali sono sempre state una delle caratteri che identificano della musica degli Ossian naturalmente assieme il suono dell’arpa scozzese in studio ed anche dal vivo.

Il repertorio degli Ossian · band che prende il nome dell’omonimo bardo del III secolo · è ricchissimo e la scelta è sempre oculata alla ricerca della più pura delle tradizioni e dei poeti, numerosissimi, che nei secoli hanno scritto della loro terra e delle persone che la abitano. Come la ballata “The Corncrake” raccolta nel sud ovest scozzese che apre il disco ed è una love song che fa riferimento al richiamo della quaglia, uccello diventato molto raro a causa della diminuzione del suo habitat lungo il fiume Doune; è una canzone conosciuta in tutta la Scozia continentale e proviene dalla raccolta di Folk Songs di Greig-Duncan stampata nel 1925, qui abbinata a “I Hae a Wife O Ma Ain” una lirica di Robert Burns suonata a tempo di jig. Splendido il set “ The 72nd Highlanders Farewell Tae Aberdeen (Pipe March) / The Favourite Dram (Bumpkin)” eseguito da due violini, clarsach e flauto che combina una pipe·march ad un slip·jig dalla collezione risalente al 1816 di Simon Fraser, come la slow air proveniente dalla roccoltae del violinista e compositore James Scott Skinner (“The Strathsey King”) vissuto tra il 1843 ed il 1927 ed infine voglio citare il set di reels provenienti dalle isole Shetland “ Spootaskerry (Shetland Reels) / The Willow Kishie / Simon’s Wart ” composti rispettivamente da Ian Burns, Willie Hunter Jr. e Wille Hunter Sr..

Questo disco eponimo degli Ossian non dovrebbe mancare in una collezione di musica tradizionale che si rispetti a mio avviso, come peraltro anche “Seal Song” e St. Kilda Wedding (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2022/11/14/ossian-st-kilda-wedding/). A questi aggiungerei anche il disco solo del compianto Tony Cuffe che più tardi entrerà nel gruppo lasciando un’impronta importante (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2021/03/02/suoni-riemersi-tony-cuffe-when-first-i-went-to-caledonia/).

In 1977 the Scottish label Springthyme released the debut album of one of the groups who in the following years would be considered together with a few others (Battlefield Band, Silly Wizard, Boys of the Lough) as a reference of the so-called folk revival of the earth of Scotland, the Ossians. This first line up was a quartet, featuring George Jackson (violin, picks, flutes and guitar), Billy Jackson (Scottish harp, uilleann pipes, flutes), John Martin (cello, violin and mandolin) and Billy Ross (guitar, flute and dulcimer); I deliberately omitted to mention the four voices because the arrangements, the harmonies and the beauty of the vocal parts have always been one of the characteristics that identify Ossian's music naturally together with the sound of the Scottish harp in the studio and also live.

The repertoire of Ossian · a band that takes its name from the 3rd century bard of the same name · is very rich and the choice is always careful in search of the purest of traditions and poets, very numerous, who over the centuries have written about their land and people who inhabit it. Like the ballad "The Corncrake" collected in southwestern Scotland that opens the disc and is a love song that refers to the call of the quail, a bird that has become very rare due to the decrease in its habitat along the Doune river; is a song known throughout mainland Scotland and comes from Greig-Duncan's collection of Folk Songs printed in 1925, here combined with "I Hae a Wife O Ma Ain" a Robert Burns lyric played in jig time. The set "The 72nd Highlanders Farewell Tae Aberdeen (Pipe March) / The Favorite Dram (Bumpkin)" performed by two violins, clarsach and flute that combines a pipe march with a slip jig from the collection dating back to 1816 by Simon Fraser is splendid. like the slow air coming from the violinist and composer James Scott Skinner ("The Strathsey King") who lived between 1843 and 1927 and finally I want to mention the set of reels from the Shetland Islands " Spootaskerry (Shetland Reels) / The Willow Kishie / Simon's Wart" composed by Ian Burns, Willie Hunter Jr. and Wille Hunter Sr. respectively.

This eponymous album by Ossian shouldn't be missing in a self-respecting traditional music collection in my opinion, as well as "Seal Song" and St. Kilda Wedding (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2022/11/14/ ossian-st-kilda-wedding/). To these I would also add the solo album by the late Tony Cuffe who will later join the group leaving an important imprint (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2021/03/02/suoni-riemersi-tony-cuffe-when-first -i-went-to-caledonia/).
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SUONI RIEMERSI: THE WHISTLEBINKIES

SUONI RIEMERSI: THE WHISTLEBINKIES

SUONI RIEMERSI: THE WHISTLEBINKIES “The Whistlebinkies”

Claddagh Records. LP, 1977

di alessandro nobis

Ricordo che ai tempi della pubblicazione dei dischi degli scozzesi Whistlebinkies questi venivano definiti dalle nostre parti con troppa faciloneria “i Chieftains di Scozia”; allora bastava un’arpa ed una cornamusa ed il gioco era fatto. Sicuramente il quintetto scozzese non era molto seguito dai fans della musica celtica nostrani sebbene facessero parte della scuderia della dublinese Claddagh Records e questo è stato davvero un peccato come lo è stato non vederli mai dal vivo.

Questo album è datato 1977 e nonostante siano passati oltre quattro decenni lo si ascolta molto volentieri perché il suono dalla band era diverso dalle altre compagini conterranee come Ossain, Battlefield Band, Silly Wizard o Boys Of The Lough per citarne quattro; il clarsach di Charles Guard (qui indicato come ospite ma presente nella foto di copertina), le cornamuse di Rab Wallace, i flauti di Eddie McGuire, la voce e le percussioni di Mick Broderick ed il violino di Rae Siddall sono gli strumenti ed i componenti del gruppo con un suono fortemente caratterizzato dalle bagpipes e dalla voce e con un repertorio che affronta la tradizione scozzese ma non solo, come testimonia il brano che apre la seconda facciata, “Ireland”, interpretazione caledoniana della tradizione irlandese (la marcia “Brian Boru”, “Morrison’s Jig” e l’aria “Eileen Aaron”) e “Brittany” dedicato naturalmente alla Bretagna.

Del repertorio scozzese molto interessante “Donald MacGillivray” (interpretato anche dalla Battlefield Band) che ci riporta ai tempi della ribellione Giacobita del 1745 che narra storia di duecento uomini guidati da una donna, Lady of Moy, “The Battle of Sheriffmoore” che ricorda l’omonimo scontro del 13 novembre 1715 tra Highlanders e le truppe inglesi e per finire davvero particolare “Mrs MacLeod and Friends”, un reel tradizionale che introduce brevi interventi solistici dei Whistlebinkies.

Gruppo come dicevo in apertura di grande valore per il lavoro di recupero della musica e della orgogliosa storia del popolo di Caledonia, i suoi dischi per la Claddagh sono da avere, non credo sia una ricerca così difficile …….

ATRIUM MUSICAE DE MADRID “Musique Arabo – Andalouse”

ATRIUM MUSICAE DE MADRID “Musique Arabo – Andalouse”

ATRIUM MUSICAE DE MADRID “Musique Arabo – Andalouse”

Harmonia Mundi. LP, CD, 1977

di alessandro nobis

Si parla e si scrive spesso di “dischi seminali” e non spetta certo a me dire se a proposito o a sproposito; certo è che questo lavoro di Gregorio Paniagua e del da lui diretto e fondato Atrium Musicae de Madrid rientra nella categoria a pieno diritto. Fino al ’77, anno della sua pubblicazione, della musica arabo-andalusa, della sua storia, del suo repertorio e dei suoi suoni ben poco o nulla si conosceva dalle nostre parti. Ebbene, la pubblicazione di questo straordinario ellepì per la prestigiosissima Harmonia Mundi rimane a tutt’oggi una pietra miliare, un seme piantato nei musicofili più curiosi per i quali si è aperto un mondo culturale ricchissimo e non è un caso se nei decenni è stato ristampato numerose volte come compact disc. Si tratta di frammenti delle undici “nube” andaluse arrivate fino a noi – molte altre sono andate perse nei passaggi generazionali orali – conservatesi nel nordafrica occidentale (El Maghrib) da quando dopo il lungo assedio di Granada il 2 gennaio del 1492 il califfato fu costretto a “riparare” dalla Spagna Islamica (Al-Andalus) in quello che oggi è il Marocco. Non ci sono “nube” complete qui, e nemmeno le loro esecuzioni orchestrali: sono esecuzioni davvero minimali, più adatte ad ambienti chiusi e raccolti, al cospetto di un pubblico ridotto, familiare, attento alla musica piuttosto che al contorno.

Come sottolineavo in apertura, questo lavoro deve anche essere considerato un compendio, un’introduzione alla musica arabo-andalusa vista la varietà dei repertori e soprattutto la ricchezza timbrica per la quale va assolutamente sottolineato l’enorme lavoro di ricerca sia tra gli strumenti tradizionali tuttora utilizzati (il rabab, i tamburi a cornice ad esempio) sia tra quelli illustrati nelle splendide miniature delle Cantigas de Santa Maria raccolte nel XIII secolo dal Re Alfonso X “El Sabio” che mostrano armi, strumenti ed abbigliamento di quelle parte di Medioevo. Basta leggere gli strumenti suonati dall’ensemble: kamanjeh, rabab, ‘ud, cetra, zamar, qitar(Gregorio Paniagua), rabab, nay, darabukka, surnay, hella, daff, qanun, tarrija, arghul, mizmar, tar, nuqqeyrat(Eduardo Paniagua), jalali, tar, qanun, nay, santur, tarrenas, cliquettes, qaraqeb, jank, zil, gsbab(Christina Ubeda), rabab, al-urgana, tar, qanun (Pablo Cano), tae jalalil, sinj, bandayr, al-buzuq, castagnettes, qanun, ghaita, bordun (Beatriz Amo), tambur, darabukka, ‘ud, zil, rabab, (Luis Paniagua), rabab, darabukka, tarrija, tar, nay, santur, peihne en bois (Carlos Paniagua), ben  descritti nel libretto che accompagna l’ellepì (ma non il CD)

Come detto, disco fondamentale considerato che ha ispirato numerosi ensemble nei decenni successivi ad affrontare repertori e suoni, il prologo all’enorme e prezioso lavoro che Paniagua (Edoardo) sta facendo con la sua etichetta Pneuma.

EUGENE CHADBOURNE with DUCK BAKER and RANDY HUTTON “The Guitar Trio in Calgary 1977″

EUGENE CHADBOURNE with DUCK BAKER and RANDY HUTTON “The Guitar Trio in Calgary 1977″

EUGENE CHADBOURNE with DUCK BAKER and RANDY HUTTON

“The Guitar Trio in Calgary 1977”

EMANEM Records. CD, 2019

di alessandro nobis

Queste registrazioni provenienti dal lontanissimo 1977 danno finalmente luce al talento ed al gusto di Duck Baker nella sua “versione” di improvvisatore radicale, lontano quindi dalla musica irlandese, scozzese, americana, jazz, e blues per le quali è probabilmente più conosciuto ed apprezzato; qui in compagnia di due altri talentuosissimi chitarristi e improvvisatori come i canadesi Eugene Chadbourne e Randy Hutton, Baker sfoggia invece tutta la sua capacità di dialogo, di creatività e di controllo istantaneo del processo improvvisativo.

Onestamente debbo dire che non è un disco facilissimo da ascoltare ma una volta compreso il processo creativo in atto non si possono non apprezzare le trame creative che si creano durante le performance. Sette degli otto brani provengono dal concerto di Calgary del 27 febbraio del ’77, mentre l’ottava e lunga traccia (oltre 27 minuti) era stata già pubblicata dalla Parachute nel medesimo anno. L’ascolto delle metamorfosi di “Cards” di Roscoe Mitchell eseguita in solo da Chadbourne e di “Ornette Mashup” scritta a quattro mani da Coleman e Charlie Haden (qui all’opera il trio al completo) sono una sorta di manifesto di come partendo da uno spartito si possa essere originali nell’interpretazione e nell’approccio stilistico; “White from Foam” è una travolgente performance solista di Baker con la sua chitarra con le corde di nylon, “Mary Mahoney” del duo Chadbourne – Baker è un “quasi blues” serrato e comunicativo dialogo che contribuisce a dare la misura del fascino dell’improvvisazione musicale che suonata a questi livelli tecnici ed ispirativi può veramente essere considerata a pieno diritto come una delle componenti più importanti di quella che nel XX° secolo veniva chiamata “musica contemporanea”.

Una preziosa testimonianza, speriamo ne seguano altre di questo livello.

 (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/07/02/duck-baker-trio/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/11/16/duck-baker-outside/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2017/05/03/duck-baker-shades-of-blue/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2017/05/19/duck-baker-the-preachers-son/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2017/08/25/aa-vv-pareto-sketches-compositions-for-guitar-by-duck-baker/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2018/03/10/duck-baker-plays-monk/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2018/05/16/duck-bakerles-blues-du-richmond-demos-and-outtakes/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2019/05/07/duck-baker-plymouth-rock/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2019/08/20/duck-baker-quartet-coffee-for-three/)

(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2019/12/24/duck-baker-when-you-wore-a-tulip/)

SOSTIENE BORDIN: THE STRANGLERS “IV”

SOSTIENE BORDIN:                                        THE STRANGLERS “IV”

SOSTIENE BORDIN: THE STRANGLERS “IV” (Rattus Norvegicus)

EMI. LP, CD. 1977

di Crstiano Bordin

Il 1977 non è un anno qualsiasi: segna un passaggio generazionale fortissimo anche nella musica. Nuovi gruppi, nuovi suoni, nuove etichette, un approccio completamente diverso, opposto, rispetto al periodo precedente. E’ una scossa creativa che produrrà per diversi anni album e gruppi a getto continuo.  Per tanti tutto è punk in quegli anni. Ma in realtà le sfumature sono tantissime e come sempre succede dare un’etichetta vuol dire appiattire o non considerare le differenze tra gruppo e gruppo. Nel 1977 esce “Rattus Norvegicus” degli Stranglers, il loro esordio. Un disco punk? Un gruppo punk? Per attitudine sicuramente si. Per suono direi di no. E’ un disco che mette insieme tante cose, tanti riferimenti ed è anomalo anche negli strumenti usati dalla band. Le tastiere, ad esempio, qualsiasi gruppo punk non le voleva vedere nemmeno in fotografia. E poi gli Stranglers erano pure un po’ strani: gli piaceva provocare, anche sul palco, si infilavano volentieri in canzoni dai doppi sensi abbastanza evidenti che li avrebbe fatti censurare della Bbc, come successe per uno dei singoli, “Peaches“. E poi nel quartetto c’erano musicisti di età parecchio diversa che contribuivano a dare di loro un’immagine assolutamente particolare. “Peaches” fu un successone, l’album vendette bene e “Hanging around“, con il suo intro di tastiere, e “Get a grip on yourself“, dove compare anche il sax,  diventarono dei classici per i live. Riff di chitarra secchi, come il periodo imponeva, un basso travolgente e minaccioso, e le tastiere che danno a questo album originalità oltre che un suono fuori dagli schemi.  “London lady“, Princess of the street” sono canzoni immediate, veloci, rabbiose come le citate “Peaches” e “Get a grip on yourself”  ma ognuna di queste è diversa dall’altra e nessuna corrisponde  ai canoni punk fino in fondo. C’è sempre qualcosa in più e qualcosa di diverso. Come il pezzo che chiude l’album “Down in the sewer”: una cavalcata incredibile, un crescendo di una potenza devastante dove a guidare la danza sono soprattutto le  tastiere di Dave Greenfield. In quel pezzo di quasi 8 minuti- un’eresia in tempi di punk- c’è un po’ di tutto. Un cocktail esplosivo dove sono tanti gli elementi riconoscibili- psichedelia e progressive –  che diventano nelle loro mani qualcosa di nuovo e  di indefinibile. Un disco “Rattus norvegicus” che chi ha ascoltato allora difficilmente avrà abbandonato.

E per chi non l’ha mai sentito potrebbe essere davvero una bella sorpresa.

Jean Jacques Burnel: basso, voce

Jet Black: batteria

Hugh Cornwell: chitarra, voce

Dave Greenfield: tastiere

DUCK BAKER “Les Blues Du Richmond – Demos and Outtakes”

DUCK BAKER “Les Blues Du Richmond – Demos and Outtakes”

DUCK BAKER “Les Blues Du Richmond – Demos and Outtakes”

TOMPKINS SQUARE Records. CD, LP 2018

di Alessandro Nobis

Ogni volta che Duck Baker apre i suoi archivi e pubblica registrazioni inedite non sai mai che cosa ti aspetta: jazz? americana? blues? folk anglo irlandese? musica improvvisata? Più ascolti i suoi repertori e più comprendi quanto sia importante il ruolo che questo chitarrista di Richmond, Virginia ha non solo nel mondo del fingerpicking ma anche – e forse soprattutto – per il carattere con il quale ripropone e sviluppa la sua musica, originale e rivisitata che sia.

Stavolta tocca al Duck Baker “prima maniera”, ovvero gli anni settanta quando con le sue incisioni per la Kicking Mule attirò l’attenzione degli appassionati e degli estimatori, da subito moltissimi. Le prime sei tracce (registrate in “solo”) arrivano da session americane del ’73, le altre otto (tre con Mike Piggot al violino e Joe Spibey al contrabbasso) da altre europee registrate a Londra tra il ’77 ed il ’79, quindi credo di poter dire tra il suo primo disco “There’s something for everyone in America” e “The kid on the mountain” ovvero del periodo “Kicking Mule”.

Esecuzioni impeccabili, perfette tanto che ti chiedi come mai non furono pubblicate allora, brani alcuni dei quali Baker suona ancora dal vivo – rivisitati, con inserti improvvisativi – come una memorabile “St Thomas” di Sonny Rollins (qui “Fire down there”), l’immortale brano di Scott Joplin “Maple Leaf Rag”. Splendide anche quelle in trio (ne vogliamo ancora, Duck) e quelle di origine europea come “Swedish Jig” e “The Humors of whiskey”.

Stampato dall’attivissima etichetta Tompkins Square, specializzata in ristampe ed edizioni di qualità molto elevata. Buona caccia!

http://www.tompkinssquare.com

MENGELSDORFF MOUZON PASTORIUS “Trilogue Live”

MENGELSDORFF MOUZON PASTORIUS “Trilogue Live”

MENGELSDORFF MOUZON PASTORIUS “Trilogue Live”

MPS Records, 1977

di alessandro nobis

Ora che se sono andati tutti e tre – l’ultimo, Alphonse Mouzon giusto un paio di giorni fa – mi sembra giusto estrarre dallo scaffale e riascoltare questo memorabile vinile registrato al Jazz Festival di Berlino nel lontanissimo 6 novembre 1976. Certo che la bravura e l’intelligenza di un direttore artistico di un festival si misura anche dalla capacità di far incontrare sul palco musicisti e mettere a prova la loro capacità creativa “istantanea”, ovvero la capacità di improvvisare e dialogare mantenendo fermi alcuni “incroci” e lasciando ad ognuno le proprie storie e background musicali, ed in questo Joachim Berendt ha colto nel segno.

trilogue-live-coverAlphonse Mouzon, batterista afroamericano prima con McCoy Tyner e quindi co-protagonista del primo LP dei Weather Report, Albert Mengelsdorff trombonista tedesco uno dei leader del movimento della free music europea e Jaco Pastorius bassista prodigioso a quel tempo parte del gruppo di Shorter & Zawinul si incontrano così per un “accidental meeting” dando vita ad uno dei migliori dischi ascrivibili al jazz di quegli anni, spiazzando parecchio i fans del bassista americano per la musica piuttosto lontana da quella proposta dai W.R. di quel periodo.

“Accidental Meeting”, titolo di uno dei brani, nasce unendo tre frammenti di diversi spartiti caduti “accidentalmente” e “incontratisi” sul pavimento: Mengelsdorff li raccoglie, li unisce e da’ vita al brano con i due degni compari (verità o mito non saprei, ma comunque così sta scritto nelle note di copertina dell’album e comunque conoscendo appena un po’ il mondo della musica eurpea di quegli anni, la “verità” ci sta tutta….). Giusto per dare l’idea di come nascano certo jazz, quello che preferisco.

Per me il miglior disco con la partecipazione di Pastorius, quello più creativo, libero ed anche gustosissimo, e si vi piace il Pastorius extra Weather Report, ripescate anche il disco in trio con Bob Moses e Pat Metheny. Ne vale la pena.

“Trilogue Live”, prodotto dall’autorevole Joachim Berendt, per motivi di spazio riporta solamente una quarantina di minuti del concerto, mentre la performance nella sua interezza può essere ascoltata al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=O-z9JR6EqTA

DUCK BAKER  “Outside”

DUCK BAKER  “Outside”

DUCK BAKER  “Outside”

EMANEM CD, 2016.

di Alessandro Nobis

Se c’è un chitarrista “fingerpicking” che si discosta da tutti gli altri – per quel che ne so io -, questi è l’americano della Virginia – ma trapiantato in Inghilterra – Duck Baker. Questo per almeno due motivi: il primo è legato alla tipologia di chitarra che usa – corde di nylon piuttosto che quelle di metallo – ed il secondo legato alla sua grande capacità di improvvisare, di smontare e rimontare i brani altrui come nessun altro fingerpicker. scansioneQuesto “Outside”, con in copertina una bellissima foto in bianco e nero di Robin Moyer, raccoglie brani tratti dall’archivio dello stesso Baker, che vanno dal 1977 (Calgary) al 1982 (Torino) passando per Londra (1982). A parte due diverse riletture di “Peace” di Ornette Coleman, una di Davis  e Mitchell “You are my sunshine”, il resto sono tutte composizioni e improvvisazioni, da  quelle all’interno dei brani a quelle più radicali: “Klee” o “Torino” e “London Improvisation” lontane anni luce dal Duck Baker alle prese con il blues, il ragtime, il jazz e l’old time, anche se smontati e rimontati alla sua maniera. Segnalo infine anche i due infuocati brani che chiudono questo lavoro, eseguiti in duo con un altro bravissimo innovatore come il chitarrista del Vermont Eugene Chadbourne (andate ad ascoltare le sue rivisitazioni beatlesiane).

Un disco – al quale spero ne seguiranno altri – che contribuisce ad illuminare più a fondo lo spettro sonoro di questo musicista del quale l’eclettismo e l’originalità mi sembrano le qualità migliori. Naturalmente sorvolando sulla padronanza tecnica sulla quale sono stati scritti fiumi di parole.

 

www.emanemdisc.com

info@emanem.info

 

 

 

PEKKA POHJOLA “Mathematician’s Air Display”

PEKKA POHJOLA “Mathematician’s Air Display”

PEKKA POHJOLA “Mathematician’s Air Display”

VIRGIN RECORDS, 1977. LP.

di alessandro nobis

Pubblicato nel 1977 dall’allora lungimirante Virgin Records di Richard Branson, “Mathematician’s Air Display” (titolo originale “Keesoje Lehto”) è il terzo album del violinista e pianista di Helsinki, poi ripubblicato svariate volte con diversi titoli e talvolta accreditato al solo Mike Oldfield (Olanda, 1981) che oltre a suonarvi in alcuni brani ebbe la funzione di co-produttore.

Erano quelli gli anni che registravano l’inizio della parabola discendente del prog inglese ed anche quelli nei quali gli appassionati ed anche le etichette discografiche cercavano fuori dal Regno Unito musicisti e gruppi talentuosi da produrre e promuovere; fu così che Branson trovò in Finlandia Pekka Pohjola, ottimo musicista con una solida preparazione classica e con alle spalle una discreta discografia (due album solisti ed altrettanti con la band Wigwam).

pekkaQuesto è probabilmente il lavoro più significativo di Pohjola e se non altro quello che gli diede una certa notorietà in Europa visto che fu pubblicato in molti Paesi; siamo sempre nell’ambito di un progressive orientato verso certo jazz di stampo britannico, e la suite divisa in tre parti “Consequences of head Bending” è la composizione di più ampio respiro nella quale – oltre alla batteria del “Gong” Pierre Morlen – è evidentissimo il contributo della chitarra di Oldfield e la sua influenza  – direi piuttosto la mano pesante – in fase di arrangiamento e produzione.

“Mathematician’s Air Display” resta ancora un album che ascolto molto volentieri ed è la dimostrazione che in quella metà dei Settanta in ambito prog “c’era qualcosa di molto interessante anche al di fuori della terra d’Albione”.