THE WATSON FAMILY “The Doc Watson Family”

THE WATSON FAMILY “The Doc Watson Family”

THE WATSON FAMILY “The Watson Family”

Folkways Records 2366. LP, 1963

di alessandro nobis

Arthel, Merle, Arnold, Annie, Rosa Lee e Willard Watson, Galther Carlton, Sophronie Miller Greer e Ralph Rinzler sono i protagonisti di questa seminale registrazione risalente al 1963 e originariamente pubblicata dala Folkways Records. Erano gli anni in cui nasceva il folk urbano nei club degli intellettuali della costa orientale che ad un certo punto iniziarono a cercare le origini del loro repertorio, origini che si erano nascoste nelle valli dell’Appalachia dove intere famiglie si tramandavano ballate e melodie per danzare arrivate assieme alle ondate migratorie provenienti dalle isole britanniche; la famiglia “Watson” si recò a suonare nel ’62 per la prima volta in un club a New York, e fu sorpresa dall’atteggiamento del pubblico presente che anzichè ballare come si soleva fare durante le feste nelle zone rurali, era in religioso silenzio ed estremamente interessato a ciò che i musicisti suonavano e cantavano. Stava iniziando una nuova era per il folk americano.

Nell’edizione in compact disc vi sono 26 tracce, 15 sull’ellepì originale ed 11 inedite ed ognuna suonata da due, trii, soli da musicisti naturalmente riconducibili alla famiglia di Arthel “Doc” Watson ed il repertorio presenta melodie ballate tratte da 78 giri vicino a quello di tradizione orale. Tra questi ultimi uno è cantato da Annie Watson con l’accompagnamento al violino di Gaither Carlton, “The House Carpenter” (raccolta Child 243) che entrò in seguito nel repertorio dei folksinger urbani come Joan Baez e di gruppi del folk britannico come i Pentangle o la murder ballad “The Triplett Tragedy” cantata da Sophronie Miller Greer, vedova Columbus Triplett del quale il testo racconta; essenziali nella loro esecuzione anche “Bonaparte’s Retreat” di orgine irlandese qui suonata da Doc Watson e Gaither Carlton. Splendida la celeberrima “The Train that Carrried my Girl from Town” tratta da un 78 del grande Frank Hutchinson ed eseguita in solo da Doc Watson e per finire non posso esimermi dal citare un inno religioso, quel “When I Die” che la famiglia Watson qui accompagnata dalla chitarra di Doc cantava durante i riti celebrati in chiesa.

Disco davvero importante, come “Live at Folk City” (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2022/01/10/jean-ritchie-and-doc-watson-at-folk-city/)

Arthel, Merle, Arnold, Annie, Rosa Lee and Willard Watson, Galther Carlton, Sophronie Miller Greer and Ralph Rinzler star in this seminal 1963 recording originally released by Folkways Records. These were the years in which urban folk was born in the clubs of the intellectuals of the east coast who at a certain point began to look for the origins of their repertoire, origins that had hidden in the valleys of Appalachia where entire families handed down ballads and melodies to dance arrived together with the migratory waves from the British Isles; the “Watson” family went to play in ’62 for the first time in a club in New York, and was surprised by the attitude of the audience who, instead of dancing as they used to do during parties in rural areas, was in religious silence and extremely interested in what the musicians played and sang. A new era was beginning for American folk.

In the compact disc edition we have 26 tracks, 15 on the original LP and 11 unreleased and each played by two, trios, solos by musicians naturally attributable to the family of Arthel “Doc” Watson and the repertoire features ballad melodies taken from 78 rpm  close to that of oral tradition. Among the latter, one is sung by Annie Watson with the fiddler Gaither Carlton, “The House Carpenter” (Child 243 collection) which later entered the repertoire of urban folksingers such as Joan Baez and British folk groups such as the Pentangle or the murder ballad “The Triplett Tragedy” sung by Sophronie Miller Greer, widow Columbus Triplett of which the text tells; essential in their performance also “Bonaparte’s Retreat” of Irish origin played here by Doc Watson and Gaither Carlton. The famous “The Train that Carrried my Girl from Town” is splendid, taken from a 78 by the great Frank Hutchinson and performed in solo by Doc Watson and finally I cannot fail to mention a religious hymn, that “When I Die” that the Watson family here accompanied by Doc’s guitar sang during the rites celebrated in the church.

Really important record, like “Live at Folk City” (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2022/01/10/jean-ritchie-and-doc-watson-at-folk-city/)

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ARMAROLI · SCHIAFFINI 4tet “Monkish (‘round about Thelonious”

ARMAROLI · SCHIAFFINI 4tet “Monkish (‘round about Thelonious”

ARMAROLI · SCHIAFFINI 4tet “Monkish (‘round about Thelonious”

Dodicilune Dischi. CD, 2022

di alessandro nobis

A meno di un anno dalla pubblicazione dell’eccellente “Deconstructing Monk in Africa” (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2021/03/14/schiaffini-%c2%b7-armaroli-deconstructing-monk-in-africa/) Giancarlo Schiaffini (trombone) e Sergio Armaroli (balafon cromatico e vibrafono) assieme a Giovanni Maier (contrabbasso) e Urban Kušar (batteria, percussioni) affrontano nuovamente lo straordinario songbook di Thelonious Monk, pianista, straordinario interprete (vale per tutti il disco dedicato a Duke Ellington con Kenny Clarke e Oscar Pettiford) e  autore di alcune della pagine più importanti della musica afroamericana. Lo fanno scegliendo dodici tra i temi più conosciute ma anche tra quelli poco interpretati dandone una lettura a mio avviso molto originale e per questo altrettanto interessante; gli spartiti di Monk sono tra i più amati dai musicisti ed i più interpretati non solo tra coloro che gravitano nel mondo jazz ma anche da quelli che battono strade parecchio diverse ma che amano fare proprie le melodie monkiane. Mi sembra di poter affermare che Armaroli, Schiaffini, Maier e Kušar costruiscono il loro progetto lasciando piena libertà esecutiva soprattutto al trombonista che ricama, improvvisa e pennella splendidamente sui temi che il vibrafono ed il balafon via via espongono, supportato da una ritmica che perfettamente si adatta e partecipa a questo incrocio di temi e di improvvisazioni. E quando entra in scena il balafon tutto rimanda all’Africa, come in “Bemsha Swing” introdotto da Maier o in “Blues Five Spot“, uno slow blues “primordiale” uno dei brani più significativi di questo ottimo disco con un bel solo di Armaroli; particolare e per me magnifica anche la rilettura di uno dei “super standards” di Monk, “Misterioso“, aperto da un lungo dialogo tra contrabbasso e batteria che anticipa il tema esposto dal balafon che esegue uno splendido assolo ad anticipare l’intervento di Schiaffini in solo dove rilegge il tema e quasi invita all’improvvisazione i compagni.

Di interpretazioni monkiane ne ho ascoltate parecchie, a cominciare da quelle di Steve Lacy (in quartetto ed in solo) della fine degli anni cinquanta e mi sento libero di dire che queste di “Monkish” sono tra le migliori; il titolo recita “‘round about Thelonious” parafrasando un suo celebre brano ma qui, più che “girarci attorno” i quattro musicisti sono penetrati ben bene nell’essenza di Monk come pochi altri hanno saputo fare. Disco che, sempre secondo il mio parere di ascoltatore, resterà e resisterà al tempo.

NORMAN BLAKE “Day by Day”

NORMAN BLAKE “Day by Day”

NORMAN BLAKE “Day by Day”

Smithsonian Folkways · Plectrafone Records. CD, 2021

di alessandro nobis

E’ passata qualche stagione dall’ultima pubblicazione di Norman Blake, ed oggi più che mai l’ascoltare le sue pacate ballate di ispirazione folk ed i suoi arrangiamenti di brani tradizionali mi accompagnano sempre molto piacevolmente, dopo cinquant’anni dalla sua scoperta mi viene quasi spontaneo considerare questo straordinario musicista quasi un “amico” del quale ho seguito tutte le sue gesta, un amico che non ha mai deluso. Certo, l’età avanza per tutti, la sua voce non ha tutta la pienezza della gioventù ma che importa, la sua chitarra è sempre brillante ed il repertorio è ancora una volta indovinato. “Day by Day” vede il ritorno con due brani del “Rising Fawn String Ensemble” con due brani composti nella prima metà del ‘900, le ballad “The Dying Cowboy” raccolta nel ’39 da Joseph Hall ma la melodia sembra essere quella di “The Bard Of Armagh“, slow air irlandese e “My Home’s Across the Blued Ridge Mountains” pubblicata nel 1909; mi paiono davvero significativi inoltre “Old’s Joe March“, strumentale scritto da Blake ed eseguito al banjo l’ antica ballata “Montcalm and Wolfe“, una broadside ballad (erano stampate su fogli singoli anche per favorirne la circolazione, in Italia si chiamano “fogli volanti”), che descrive una battaglia combattuta nel 1759 durante le guerre indiane tra i Nativi e le truppe di occupazione francesi.

Questo “Day by Day” non può mancare nelle collezioni dei numerosissimi fans di Blake, è un altro esempio della sua profonda conoscenza del patrimonio musicale americano e della capacità di descrivere piccole storie che alla fine sono quelle che fanno la “storia” dell’umanità; se la Smithsonian / Folkways in collaborazione con la Plectrafone ha ritenuto opportuno pubblicare questo “Day by Day” è un’ulteriore conferma dell’importanza ampiamente riconosciuta che Norman Blake ha nel mondo della musica acustica d’oltreoceano. Dispiace però notare come la scaletta dei brani contenuta nel libretto che accompagna alcune copie del disco stampate nel 2020 sia errata, visto che compaiono undici brani in un ordine non esatto: un errore non da poco per il prestigio dell’etichetta ma che è stato corretto nelle copie che riportano come data di stampa il 2021.

Il retro delle due copertine, quella di destra è quella “buona”.

  • English Version (Google Version …….):
NORMAN BLAKE
"Day by Day"
Smithsonian Folkways · Plectraphone Records. CD, 2021

by alessandro nobis

A few years have passed since Norman Blake's last publication, and today more than ever listening to his quiet folk-inspired ballads and his arrangements of traditional songs always accompany me very pleasantly, fifty years after his discovery I am it is almost spontaneous to consider this extraordinary musician almost a "friend" of whom I have followed all his musical adventures, a friend who has never disappointed. Of course, age advances for everyone, his voice does not have all the fullness of youth but who cares, his guitar is always brilliant and the repertoire is once again guessed. "Day by Day" sees the return with two songs of the "Rising Fawn String Ensemble" with two songs composed in the first half of the 20th century, the ballads "The Dying Cowboy" collected in '39 by Joseph Hall but the melody seems to be that of "The Bard Of Armagh", Irish slow air and "My Home's Across the Blued Ridge Mountains" published in 1909; they also seem really significant to me "Old's Joe March", instrumental written by Blake and performed on the banjo the ancient ballad "Montcalm and Wolfe", a broadside ballad (they were printed on single sheets also to promote circulation, in Italy they are called "sheets flying "), which describes a battle fought in 1759 during the Indian wars between the Native and French occupation troops.
This "Day by Day" cannot be missing in the collections of Blake's many fans, it is another example of his profound knowledge of American musical heritage and the ability to describe small stories that in the end are the ones that make up the "history" of humanity. ; if Smithsonian / Folkways in collaboration with Plectrafone has considered it appropriate to publish this "Day by Day" is further confirmation of the widely recognized importance that Norman Blake has in the world of overseas acoustic music. However, it is regrettable to note that the list of songs contained in the booklet accompanying some copies of the disc printed in 2020 is incorrect, given that eleven songs appear in an incorrect order: an error not just for the prestige of the label but which has been corrected. in copies showing 2021 as the printing date.

CARLO CERIANI “Generation”

CARLO CERIANI “Generation”

CARLO CERIANI “Generation”

Splasc(H) Records. CD, 1994

di alessandro nobis

Ci sono brani “intoccabili”, direi anche iconici, che identificano alla perfezione i musicisti che li hanno composti e registrati e che rappresentano un ben preciso momento nella storia della musica della seconda metà del secolo scorso. Il rischio, interpretandoli, è naturalmente quello di cadere nel pedissequo ricalco che non potrà mai essere a livello dell’originale come era stato concepito. L’alternativa è trasportare la struttura di quei brani utilizzando un diverso linguaggio musicale dandone una nuova lettura; questo è quello che a metà degli anni novanta ha fatto il trio guidato dal chitarrista, compositore ed arrangiatore Carlo Ceriani e composto dal bassista Enrico Terragnoli e dal percussionista Francesco Sguazzabia in arte “Sbibu” con la partecipazione del flautista Stefano Benini. Musicisti che si muovono benissimo nell’ambiente jazz ma che nella loro gioventù si alimentavano anche della miglior musica che si suonava al di qua ed al di là dell’Atlantico ed in questo “Generation“, che contiene anche brani originali, la scelta è caduta su alcuni dei più iconici brani dei King Crimson di Robert Fripp e dei Grateful Dead di Jerry Garcia (oltre ad un brano di Jaco Pastorius), due gruppi musicalmente lontanissimi tra loro ma accomunati dall’interesse verso le improvvisazioni soprattutto nelle esecuzioni dal vivo.

Moonchild” e “The Court of the Crimson King” sono due di questi e la scelta del trio di Ceriani è stata quella di translare le due composizioni nel jazz, musica nella quale l’improvvisazione è un tratto essenziale; del primo si sono conservate le brevi parti iniziali mentre quella centrale, a mio avviso quella più interessante e più legata al concetto di “creazione spontanea” è stata sostituita da una parte nella quale i lunghi assoli di Benini al flauto traverso e di Terragnoli al basso trasformano il brano in una perfetta “slow ballad” racchiusa dai cantabili curati da Ceriani, davvero una resa eccellente e personale del brano tratto da “In the Court …”. Anche il brano eponimo del disco dei KC, a firma Fripp – Sinfield ha subito interessanti trasformazioni che in qualche occasione vanno ad intersecare con inevitabili richiami i “riff” originali della composizione il cui titolo è “The Court of the Crimson King“; eseguito in trio, si caratterizza per il “cantato” iniziale curato dal basso, il lungo solo di chitarra di Ceriani, lungo e ottimamente costruito si trova nella parte centrale con un convincente lavoro della sezione ritmica che precede quello di Terragnoli altrettanto articolato (Terragnoli è anche ottimo chitarrista, e si evince dall’ascolto del solo) che richiama, sul finire, il celeberrimo riff crimsoniano.

Altrettanto interessanti sono le scelte per l’interpretazione di “Dark Star” e “Sugar Magnolia” dei californiani Grateful Dead, due brani che hanno segnato la storia della band di Jerry Garcia & C. soprattutto nelle chilometriche esibizioni live e che erano quasi perennemente presenti nelle loro scalette. Il secondo in particolare, in trio, è un alternare di interventi della chitarra e del basso che lasciano facilmente individuare la melodia originale ma soprattutto fanno apprezzare il ruolo di Sguazzabia sempre puntuale, creativo ed originale considerando che la scelta di allestire il set di percussioni con un numero limitato di elementi fu a mio avviso vincente nel quadro sonoro di questo “Generation“.

Un bel disco, uno dei più interessanti a mio avviso del panorama jazz di quegli anni. Decisamente da riscoprire, alcuni dei suoi brani sono reperibili per l’ascolto su YouTube.

LÚNASA “Lúnasa”

LÚNASA “Lúnasa”

LÚNASA “Lúnasa”

AUTOPRODUZIONE. CD, 1998

di alessandro nobis

Passata l’epopea delle leggendarie band del folk revival come Planxty, Clannad, Bothy Band, De Danann (per citarne alcuni) o la fase più significativa dei Chieftains che tanto avevano dato in termini di ispirazione alle giovani generazioni di musicisti irlandesi e non solo, a metà degli anni novanta si formano i Lúnasa grazie alla convergenza di musicisti inglesi e naturalmente irlandesi, alcuni provenienti da giovani e ottimi gruppi come Flook o Grada. Lúnasa ha saputo nel corso degli anni rappresentare il simbolo migliore della tradizione musicale d’Irlanda, acclamato ed apprezzato in tutto il mondo – naturalmente anche in Italia – per l’energia trasmessa, la scelta del repertorio e la compattezza del suono ed il suo groove grazie alla presenza del contrabbasso che anche dei Clannad era un tratto caratteristico. Nel 1998 quindi i Lúnasa pubblicano in modo autonomo questo loro primo omonimo album dopo tre anni di prove e di session; della prima formazione fanno parte il piper John McSherry, il contrabbassista Trevor Hutchinson, il chitarrista Donogh Hennessey, il flautista Mike McGoldrick ed il violinista Sean Smith, una line-up molto diversa da quella attuale nella quale degli originali sono presenti solo Smith e Trevor Hutchinson.

Non tutti brani provengono dalla tradizione irlandese, nella scaletta sono presenti preziose riletture di autori francesi, bretoni, scozzesi oltre ad un brano – scelta inedita per un gruppo irlandese – di tradizione klezmer, mi limito a citare le riletture di Phil Cunningham (qualcuno se lo ricorderà con il fratello Johnny nei Silly Wizard) con lo slow reel “Hogties” abbianto a due jigs tradizionali, dello straordinario chitarrista francese Pierre Bensusan in “The Last Pint” con in grande evidenza i flauti di McSherry e di Mike McGoldricke del bretone Gillet Le Bigot di “Mì Na Samhna” splendidamente eseguita dalle pipes di John McSherry e dalla chitarra di Donogh Hennessey. Del materiale irlandese cito due brani, la splendida “Lord Mayo”, una marcia inserita nella raccolta di O’Neill aperta da McSherry con il supporto della chitarra, ed il reel scritto dal grande Frankie Gavin, “Alice’s Reel” che qui è abbinato al tradizionale fling una forma musicale legata alla Scozia “Terry Cuz Teehan’s“, composta da Terry Teehan, suonatore di concertina e di accordeon emigrato a Chicago alla fine degli anni venti e scomparso nel 1989 ricordato anche per la sua umanità nel accogliere immigrati irlandesi appena arrivati oltreoceano indicando loro i luoghi dove ricevere una primo aiuto da altri irlandesi: un grande suonatore ed un grande uomo quindi.

Disco magnifico che dava già una chiarissima misura del valore dei Lúnasa, un valore rimasto assolutamente inalterato nel tempo nonostante i cambi di line-up.

HOT TUNA “Burgers”

HOT TUNA “Burgers”

HOT TUNA “Burgers”

Grunt Records FTR 1004. LP, CD, 1972

di alessandro nobis

Probabilmente gli Hot Tuna sono l’unica band che ha pubblicato il loro primo album in studio dopo due dischi dal vivo, e già questo dà la misura della cura che Kaukonen e Casady hanno riservato alla registrazione di Burgers, una delle più interessanti dell’intera discografia del gruppo che da costola degli Airplane ha saputo avere un’identità ben definita e sopravvivere di oltre quaranta anni alla band madre. Quest’anno è il cinquantesimo anniversario di Burgers e per festeggiare l’avvenimento alla Carnegie Hall si terrà il 22 aprile uno straordinario concerto dove la band eseguirà l’integrale dell’album pubblicato dalla Grunt Records e si festeggerà l’ottantesimo compleanno di quello che Bill Graham ebbe a definire “The Sex Symbol of Scandinavia”.

“Burgers” è un signor disco che pur mantenendo un forte legame con le radici del blues acustico contiene alcune delle più significative composizioni di Jorma Kaukonen alcune delle quali ancora in repertorio sebbene rinnovate negli arrangiamenti nelle esibizioni live oltreoceano, numerose e sempre sold-out. Blind Boy Fuller (“Keep on Truckin’” con la slide di Richard Talbott, autore di un album per la Grunt nello stesso anno, e le tastiere di Nick Buck), l’immancabile Gary Davis (“Let’s Together Right Down Here“), il padre spirituale della band e Julius Davis con la sua “99 Year Blues” la cui versione si può ascoltare nel monumentale cofanetto “Anthology of American Folk Music” curata da Harry Smith; ma da sottolineare sono, come dicevo, i brani originali tra i quali lo splendido “True Religion” un blues con il sempre puntuale violino di Papa John Creach – esemplare il suo assolo – ed il pianoforte di Nick Buck, una brano che si “elettrifica” man mano che si sviluppa, ed il solo di chitarra sovrainciso certifica la cura certosina degli arrangiamenti o la seguente “Highway Song” la cui parte vocale è impreziosita dall’intervento a supporto della voce di Kaukonen di David Crosby. Da ultimo voglio citare il mio brano preferito, lo strumentale “Water Song” con l’incipit della chitarra fingerpicking che fa contraltare all’elettrica e l’incisivo basso di Casady, sicuramente uno dei massimi bassisti in assoluto, ed anche probabilmente uno dei meno conosciuti.

Il suono del gruppo qui è molto solido ed equilibrato, il drumming di Sammy Piazza e le intricate linee di basso di Jack Casady formano una sezione ritmica di primissimo livello, sulla quale il violino e le chitarre sovraincise regalano uno dei più interessanti dischi prodotti dai musicisti della scena californiana di quegli anni.

Probably Hot Tuna are the only band that has released their first studio album after two live records, and this already gives the measure of the care that Kaukonen and Casady have reserved for the recording of Burgers, one of the most interesting of the whole discography of the band that from the rib of Airplane has been able to have a well-defined identity and survive the mother band for over forty years. This year is Burgers’ 50th anniversary and to celebrate the event at Carnegie Hall there will be an extraordinary concert on April 22nd where the band will perform the complete album released by Grunt Records and will celebrate the 80th birthday of the one who Bill Graham defined it as “The Sex Symbol of Scandinavia”.

“Burgers” is a disc that while maintaining a strong link with the roots of the acoustic blues contains some of the most significant compositions by Jorma Kaukonen some of which are still in the repertoire although renewed in the arrangements in the live performances overseas, numerous and always sold-out. Blind Boy Fuller (“Keep on Truckin’” with the slide by Richard Talbott, author of an album for Grunt in the same year, and the keyboards of Nick Buck), the inevitable Gary Davis (“Let’s Together Right Down Here“), the band’s spiritual father and Julius Davis with his “99 Year Blues” version of which can be heard in the monumental “Anthology of American Folk Music” box set edited by Harry Smith; but to underline are, as I said, the original pieces including the splendid “True Religion” a blues with the ever punctual violin by Papa John Creach – his solo is exemplary – and the piano by Nick Buck, a piece that “electrifies itself” as it develops, and the overdubbed guitar solo certifies the painstaking care of the arrangements or the following” Highway Song” whose vocal part is embellished by the intervention in support of the voice of Kaukonen by David Crosby. Lastly I want to mention my favorite song, the instrumental “Water Song” with the incipit of the fingerpicking guitar that contrasts with the electric and incisive bass of Casady, certainly one of the greatest bassists ever, and also probably one of the less known.

The sound of the group here is very solid and balanced, the drumming of Sammy Piazza and the intricate bass lines of Jack Casady form a rhythm section of the highest level, on which the violin and the overdubbed guitars give one of the most interesting records produced by the musicians of the Californian scene of those years.

JEAN RITCHIE AND DOC WATSON “At Folk City”

JEAN RITCHIE AND DOC WATSON “At Folk City”

JEAN RITCHIE AND DOC WATSON “At Folk City”

Folkways Records. LP, 1963

di alessandro nobis

Pubblicato dalla Folkways nel lontano 1963 e ristampato in compact disc dalla Smithsonian / Folkways nel 1990 con tre brani inediti questo disco testimonia il primo incontro favorito dal genio di Ralph Rinzler tra Jean Ritchie e Doc Arhel Watson, due colonne portanti del folklore americano; ambedue provenienti dalla vasta area appalachiana ma residenti a duecento miglia uno dall’altra (la prima in un’area mineraria, il secondo in una rurale) sono i portatori, gli “informatori” della musica tradizionale della zona di provenienza, ed entrambi appartenevano a due famiglie che avevano coltivato la passione per le loro radici parallelamente.

Il CD contiene ben 17 brani che testimoniano un concerto tenuto al “Folk City” del Greenwich Village di New York; un autentico miracolo alchemico qui si ascolta, visto che i due non si erano mai conosciuti nè di persona nè di fama. Ciò che ne esce è l’anima della tradizione orale, il piacere di suonare assieme, forse anche la scoperta di repertori comuni tramandati dalle generazioni precedenti e sviluppatesi a reciproca insaputa.

E’ quindi una testimonianza straordinaria di quanto detto, che contiene alcune tra le pietre angolari del folk d’oltreoceano: basta citare “Swing and Turn Jubilee” (dal repertorio della famiglia Ritchie, quin con la voce del cantante e banjoista Roger Sprung), “Soldier’s Joy” (un’aria per violino di origine scozzese, Doc Watson alla chitarra e armonica) , “Pretty Polly” (una “murder ballad” di origine inglese, catalogata da Roud con il numero #15 e qui interpretata dalla evocativa voce di Jean Ritchie che si accompagna al dulcimer) o ancora “The House Carpenter” (ovvero “The Daemon Lover“, Roud #14 e Child #243 sempre di origine scozzese, qui con Watson al banjo) ed il gran finale di “Amazing Grace” con l’accompagnamento del pubblico e la partecipazione di Roger Sprung.

I brani inediti presenti sul CD sono “East Virginia” (Watson al banjo e canto, composto da A.P. Carter, della Carter Family), “Pretty Saro” (Roud #417, di origine inglese) e “Blue Ridge Mountain Blues” di Cliff Hess.

Album fondamentale, alcune radici della musica “americana” le trovate qui. Tornare alle origini, alla purezza di questa musica è una boccata di aria fresca ……….

– English Version (Google English Version)

Released by Folkways in 1963 and reissued on compact disc by Smithsonian / Folkways in 1990 with three unreleased tracks, this record testifies to the first meeting favored by the genius of Ralph Rinzler between Jean Ritchie and Doc Arhel Watson, two pillars of American folklore; both coming from the vast Appalachian area but residing two hundred miles from each other (the first in a mining area, the second in a rural one) are the bearers, the “informants” of the traditional music of the area of ​​origin, and both belonged to two families who had cultivated a passion for their roots in parallel.

The CD contains 17 tracks that testify to a concert held at the “Folk City” of Greenwich Village in New York; an authentic alchemical miracle can be heard here, since the two had never known each other either personally or by fame. What emerges is the soul of the oral tradition, the pleasure of playing together, perhaps even the discovery of common repertoires handed down from previous generations and developed without mutual knowledge.

It is therefore an extraordinary testimony of what has been said, which contains some of the cornerstones of overseas folk: just mention “Swing and Turn Jubilee” (from the Ritchie family repertoire, quin with the voice of singer and banjoist Roger Sprung), “Soldier’s Joy” (an aria for violin of Scottish origin, Doc Watson on guitar and harmonica), “Pretty Polly” (a “murder ballad” of English origin, cataloged by Roud with the number # 15 and interpreted here by the evocative voice by Jean Ritchie accompanying the dulcimer) or “The House Carpenter” (or “The Daemon Lover”, Roud # 14 and Child # 243 always of Scottish origin, here with Watson at the banjo) and the grand finale of “Amazing Grace “with the accompaniment of the public and the participation of Roger Sprung.

The unreleased tracks on the CD are “East Virginia” (Watson at banjo and singing, composed by AP Carter, of the Carter Family), “Pretty Saro” (Roud # 417, of English origin) and “Blue Ridge Mountain Blues” by Cliff Hess.

Fundamental album, some roots of “American” music can be found here. Going back to the origins, to the purity of this music is a breath of fresh air ……….

THE RISING FAWN STRING ENSEMBLE “Original Underground Music from the Mysterious South”

THE RISING FAWN STRING ENSEMBLE “Original Underground Music from the Mysterious South”

THE RISING FAWN STRING ENSEMBLE “Original Underground Music from the Mysterious South”

Rounder Records. LP, 1982

di alessandro nobis

Con questo terzo disco dell’orchestrina di cordofoni della Premiata Ditta Blake & Blake si completa a mio avviso il progetto nato tre anni prima con la registrazione di “The Rising Fawn String Ensemble” e del seguente “Full Moon on the Farm” del 1981 entrambi per la Rounder Records: laddove nel primo, con Blake, Bryan e Blake, il repertorio era composto da brani tradizionali o di autori come lo scozzese delle Shetland Tom Anderson o Uncle Dave Macon ed il secondo una magnifica combinazione di tradizionali e originali in questo terzo, come semplicemente si evince dalla lettura del titolo, è composto da brani di nuova composizione della suddetta Premiata Ditta. Inoltre la struttura dell’ensemble si fa ancora più articolata, passando dal quartetto con Nancy Blake al violoncello, Norman Blake (chitarra, mandolino, mando-cello e banjo tenore a otto corde), Charlie Collins alla chitarra ed il violinista James Bryan a quintetto con l’ingresso di Carol Jones (chitarra, mandolino, mandola, banjo tenore a otto corde), Larry Sledge (mando-cello) e Peter Ostrusko (mandolino, chitarra e violino) e quindi senza l’apporto di Bryan.

Ognuna delle dodici composizioni si diversifica rispetto alle altre per le combinazioni sonore e si rifanno spesso, ma non poteva essere altrimenti, agli standard della tradizione anglo·scoto·irlandese importata oltreatlantico nelle varie fasi migratorie. “Blake’s March” ad esempio che chiude la seconda facciata con uno splendido arrangiamento ed una bellissima parte riservata al violoncello oppure il delicato e splendente valzer “Natasha’s Waltz” aperto dalla chitarra di Carl Jones con tre mandolini (Blake, Ostrusko, Nancy Blake) quasi all’unisono accompagnati dal violoncello che disegnano un’atmosfera dal sapore quasi “mediterraneo” (il valzer era ed è ancora suonatissimo dalle orchestre e dai piccoli combo di mandolini italiani) ed infine la tradizione americana del ragtime di “Third Street Gipsy Rag“.

A mio avviso questo disco di Blake è uno dei migliori dove tutto è perfetto: suoni (grazie anche alla qualità degli strumenti impiegati ed alla loro scelta certosina brano per brano), capacità di riferirsi al passato scrivendo nuovi spartiti, arrangiamenti, perfetta intesa tra i musicisti. E’ vero, sono caratteristiche che poi ritrovi in tutte le produzioni di Norman Blake ma qui assumono un significato più alto, questo disco è uno dei suoi più riusciti, un capolavoro a mio giudizio.

  • (Google) English version

In my opinion, the project born three years earlier with the recording of “The Rising Fawn String Ensemble” and the following “Full Moon on the Farm” of 1981 both completes with this third disc of the orchestra of strings “Blake & Blake” for Rounder Records: where in the first the repertoire was composed of traditional songs or by authors such as Scotsman from Shetland Tom Anderson or Uncle Dave Macon and the second a magnificent combination of traditional and original in this third, as is simply evident from reading the title, is composed of newly composed pieces by the aforementioned Blakes. Furthermore, the structure of the ensemble becomes even more articulated, passing from the quartet with Nancy Blake on the cello, Norman Blake (guitar, mandolin, mando-cello and eight-string tenor banjo), Charlie Collins on guitar and violinist James Bryan as a quintet. with the entry of Carol Jones (guitar, mandolin, mandola, eight-string tenor banjo), Larry Sledge (mando-cello) and Peter Ostrusko (mandolin, guitar and violin) and therefore without the contribution of Bryan.

Each of the twelve compositions differs from the others for sound combinations and often refer, but it could not be otherwise, to the standards of the Anglo · Scot · Irish tradition imported across the Atlantic in the various migratory phases. “Blake’s March” for example which closes the second side with a splendid arrangement and a beautiful part reserved for the cello or the delicate and shining “Natasha’s Waltz” a waltz (of course) opened by Carl Jones’s guitar with three mandolins (Blake, Oustrusko, Nancy Blake) almost in unison accompanied by the cello that draw an atmosphere with an almost “Mediterranean” flavor (the waltz was and still is played by orchestras and small combos of Italian mandolins) and finally the American tradition of ragtime of “Third Street Gipsy Rag”.

In my opinion this Blake album is one of the best where everything is perfect: sounds (thanks also to the quality of the instruments used and their painstaking choice piece by piece), the ability to refer to the past by writing new scores, arrangements, perfect understanding between musicians. It’s true, these are characteristics that you find in all Norman Blake’s productions but here they take on a higher meaning, this record is one of his most successful, a masterpiece in my opinion.

SOSTIENE BORDIN: THE GUN CLUB “Miami”

SOSTIENE BORDIN: THE GUN CLUB “Miami”

SOSTIENE BORDIN: THE GUN CLUB “Miami”

Animal Records. LP, 1982

di Cristiano Bordin

Per lui in tanti hanno tirato in ballo il fantasma di Jim Morrison e, probabilmente Jeffrey Lee Pierce su quel paragone un po’ ci giocava. Ma se possiamo ritrovare qualche eco morrisoniano nel suo modo di cantare e di stare sul palco, il suo gruppo, i Gun Club, nel loro percorso hanno battuto strade diverse da quelle dei Doors. Quella principale è senza dubbio il blues: un blues velocizzato, drammatizzato, irrobustito, sporcato dall’esperienza del punk ma che però riaffiora sempre nel suono della band. Alla fine le radici contano sempre, vale, anche e soprattutto, per la musica.

Jeffrey Lee Pierce nasce a Los Angeles e frequenta l’ambiente punk della fine degli anni ‘70 e dei primi anni ‘80: quindi gli X, i Cramps, i Blasters. Se guardiamo bene però nessuno di questi gruppi è incasellabile nel punk per come era vissuto in Europa: perché le loro radici erano profondamente americane. E quindi, anche se si suonava più veloce ed i riff erano più secchi, il rock’n’roll, il country, il blues venivano fuori sempre ed era su quelle radici che veniva costruito il proprio suono.

Lo spiega bene il chitarrista del gruppo, Ward Dotson: “Non avevamo molto in comune con la scena punk, eravamo differenti e Jeff aveva le idee molto chiare su come far evolvere i Gun Club ed è riuscito a raggiungere il suo obiettivo. Jeff infatti non seguiva le orme di nessuno e non scimmiottava nessuno”.

Una prova –  il punto più alto della loro carriera- è proprio “Miami”, uscito nel 1982, dopo “Fire of love” e un rimaneggiamento della formazione da cui esce Kid “Congo” Powers per unirsi ai Cramps, poi rientrare e successivamente suonare per una decina di anni con Nick Cave ed i Bad Seeds.

A produrre l’album c’è un altro chitarrista, quello dei Blondie, Chris Stein e se guardiamo la lista dei brani troviamo più di un indizio su quella che è la strada presa dal gruppo: “Run through the jungle” cover dei Creedence Clearwater Revival, “Fire of love” un classico rock ‘n’ roll portato al successo da Jod Reynolds nel ‘58 e “John Hardy” brano con cui si erano già cimentati sia Johnny Cash che Bob Dylan, tanto per tornare al tema delle radici musicali della band.

In “Miami” ci sono i Gun Club al loro massimo splendore: lirici, sporchi dove serve, capaci di reinventare, di rileggere a modo loro sia il  country che  il blues. Qualche reminiscenza punk la troviamo ancora in “Bad indian” o in  “Devil in the woods”. Mentre “John Hardy” e “Fire of love” sono molto di più di un tributo: dentro c’è un po’ tutto lo spirito, l’epica e il vissuto musicale dei Gun Club. Non si può parlare di “cover”, per come sono state ripensate e suonate diventano due canzoni riconoscibili ma allo stesso tempo anche completamente nuove. Un po’ come succede a “Run through the jungle”: quale gruppo con le origini dei Gun Club avrebbe  mai pensato di confrontarsi con i Creedence? Eppure quello che ne esce fuori è un mezzo miracolo, un piccolo capolavoro, un brano capace di dare un segno ad un intero album e  alla fine, ancora,  una questione di radici.

In “Miami”, una parte non secondaria, infatti la gioca anche  la steel guitar, come la giocano i testi ed i richiami che vanno tutti nella direzione dei miti americani prestati al rock’n’roll: c’è posto infatti  per sciamani,  riti voodoo, pellerossa, paludi, frontiere. Un immaginario che scomoda ancora una volta la cultura popolare ed il blues. Ma Jeffrey Lee Pierce era – a dispetto della sua scontrosità, dei mantelli neri, degli anelli e delle collane indiane e purtroppo della sua autodistruttività – un autentica enciclopedia musicale e in “Miami” si sente.

Negli anni successivi uscirono “Las Vegas story”, 1984, un album solo “Wildweed” che non ebbe fortuna, e poi “Death party” e “Mother Juno”: tutti dischi da riscoprire.

La storia dei Gun Club e del suo leader finiscono nel marzo del 1996: il fisico di Jeffrey Lee Pierce, provato da anni di eroina e di alcool non reggerà  più.

A ricordarlo- ma per moltissimi potrebbe essere una scoperta-  è da poco uscito un documentario dall’azzeccatissimo titolo  di “Elvis from hell”: ci sono alcuni personaggi che hanno avuto a che fare con lui come Iggy Pop, Nick Cave, Debby Harry e un paio di illustri suoi fan come Jim Jarmusch e Jack White dei White Stripes. Un  doveroso tributo ad un gruppo capace di  influenzare moltissime altre band e ad un personaggio che  ha fatto davvero un pezzo di storia del rock a stelle e strisce negli anni Ottanta.