SUONI RIEMERSI: MUZSIKAS “Blues For Transylvania / Osz Az Ido”

SUONI RIEMERSI: MUZSIKAS “Blues For Transylvania / Osz Az Ido”

SUONI RIEMERSI: MUZSIKAS “Blues For Transylvania / Osz Az Ido”

Hannibal Records / Hungaroton Records. LP, CD 1990 / 1989

di Alessandro Nobis

Quinto album del gruppo budapestino dei Muzsikas (sesto considerando “Dudoltam en” attribuito alla sola cantante Marta Sebestyen, nel quale però suonano anche gli altri componenti del gruppo) ed ulteriore passo avanti rispetto al precedente “The Prisoner’ Song”. Questo “Blues for Transylvania” è in effetti un ottimo disco, a testimoniare che lo studio ela rielaborazione del materiale etnico dell’Ungheria continua a vivere ed a brillare di luce propria, a dispetto dei tentativi di introdurre anche ad oriente prodotti preconfezionati, spesso di bassa levatura, provenienti dall’area anglo americana.

R-4695592-1490925068-2355.jpeg
La copertina Hungaroton (1989)

Finissimi strumentisti, validi arrangiatori e studiosi preparati, i Muszikas ci offrono con questo “Blues for Transylvania” una galleria di danze tradzionali e di canzoni eseguite secondo lo stile di questa regione, terra in perpetuo fermento divisa – ormai lo sanno tutti – fra Romania ed Ungheria. Il blues, quello inteso come la successione di dodici battute, non c’entra per niente; il termine, intraducibile ma assimilabile alle parole amarezza o sconforto, è appunt riferibile ai sentimenti della gente di Transilvania, alla quale i Muzsikas hanno dedicato questo album.

Questa dedica è comunque solamente ”sulla carta”. Ecco perché: il disco, che nell’edizione ungherese si chiama “Osz az ido” (che in ugherese significa “Tempo Autunnale”) è stato stampato in Occidente dalla Hannibal di Joe Boyd con diversa copertina, diversa successione dei brani e come abbiamo visto diverso titolo, cambiamento quest’ultimo – non sappiamo se in buona fede – fatto per attirare il pubblico inglese ed europeo in generale verso questo prodotto che – lo ripetiamo – è davvero di ottima fattura. Fatto da non tralasciare, il “nostro” (Joe Boyd) ha dimenticato (?) di inserire il foglio interno con i testi che, nell’edizione originale, erano anche tradotti in inglese ed ha inserito un brano di otto minuti (“Osz az ido”) slamente nella stampa su compact disc.

I brani? Su tutti “My Lord, My Lord” con la magnifica voce della Sebestyen che interpreta questa ballata, o ancora la suggestiva “Outlaz song” interpretata da Peter Eri e con in evidenza Sandor Csoori alla ghironda. Trascinanti le danze, con su tutte “Szabora”, combinazione dei due stili “duvo” e “Cszardas”.

In definitiva un bellissimo LP, che rappresenta però solamente la punta dell’iceberg etnico ungherese, patrimonio che aspetta solo di essere finalmente scoperto. (FOLK BULLETIN, DICEMBRE 1990)

 

 

Pubblicità

VENETO. CANTI E MUSICA POPOLARE. “Ricerca nella Provincia di Verona”

VENETO. CANTI E MUSICA POPOLARE. “Ricerca nella Provincia di Verona”

VENETO. CANTI E MUSICA POPOLARE. “Ricerca nella Provincia di Verona”. ALBATROS DISCHI VPA 8420, LP, MC.  1979

di Alessandro Nobis

Questo 33 giri pubblicato dalla Albatros nel 1979 è, che io sappia, l’unico nel prestigioso catalogo dell’etichetta milanese a presentare registrazioni sul campo effettuate in area veneta; in particolare presenta i risultati di varie campagne di studio e di registrazione dell’autorevole studioso Marcello Conati nella parte occidentale della provincia di Verona, dalla Valpolicella fino al paese di Breonio, in Lessinia dal 1970 al 1975. Ventiquattro i brani presenti che coprono, tranne i temi a danza strumentali, tutte le aree tipologiche della musica tradizionale: filastrocche, canti lirici e narrativi, canti rituali, funzionali, villotte e ballate. Un repertorio utilizzato dai gruppi di folk revival come il Canzoniere Veronese, formato da musicisti e da ricercatori che ha lasciato un importante segno nel movimento del folk revival e che ha proseguito nei decenni il suo lavoro di arrangiamento di questo ricco repertorio. Musica “fissata” per sempre su nastro nel suo secolare processo evolutivo di passaggio da un portatore all’altro per poi essere utilizzata da musicisti in ambito folk che si sono nutriti ed abbeverati dei dischi dell’Albatros registrati quasi ovunque nel nostro Paese portando nel presente e nel futuro questi preziosissimi e rarissimi repertori.IMG_3031

Numerosi i “portatori originali” che Conati ha incontrato e che hanno consentito a lasciare una testimonianza su nastro di alcuni frammenti del proprio repertorio imparato per via orale, provenienti da contrade e piccoli centro dell’area oggetto dello studio di Conati come Molina, Ceredo, Fumane, manune, Breonio, Baldassara, Pezza di Marano e Cona. Tra i portatori vi sono Arturo Zardini, Ottavio Conati, Rosa Ceradini, Antonio Chesini, Aldo Grigoli, Vittorio Leonardi, la Famiglia Marogna, Eurosia Allegrini, Marisa Benedetti, Eugenio Pretto, Nori Grigoli e Brigida Tommasi naturalmente tutti musicisti / cantanti non professionisti. Un repertorio straordinario come del resto tutto quello appartenente al catalogo Albatros anche grazie ai preziosissimi libretti che accompagnano il vinile curati in questo caso da Marcello Conati ed in molti altri casi da Roberto Leydi.

Nel 2005 Marcello Conati pubblica per “Il Segno dei Gabrielli” il poderoso volume “Canti Veronesi di Tradizione Orale: da una ricerca in Valpolicella e in Lessina” con allegati 2 compact disc che riportano 196 esempio musicali del materiale registrato dallo stesso curatore in un arco temporale che va dal 1969 al 1982. Si tratta di materiale di grandissimo interesse, in minima parte già pubblicato nell’ellepì di cui vi sto parlando, disco di non facile reperibilità (se lo trovate assicuratevi che all’interno vi sia il fondamentale libretto) quasi tanto quanto il volume.

EDUARDO PANIAGUA “Calahorra”

EDUARDO PANIAGUA “Calahorra”

EDUARDO PANIAGUA

“CALAHORRA: musica arabigo andaluza” – Pneuma Records PN 1470, 2014

Pubblicato da Folk Bulletin, 2014

di Alessandro Nobis

 Dedicata principalmente al seminale LP “Musique Arabo-Andalouse” dell’Atrium Musicae di Gregorio Paniagua pubblicato nel lontano 1975, ma anche alla fondazione Paradigma di Cordoba, questo “Calahorra” (termine arabo che indica un castello, una fortezza o anche semplicemente una torre isolata in posizione strategica, di controllo), riveste una particolare importanza soprattutto per quanti si sono da poco lasciati affascinare dalla musica arabo-andalusa, sviluppatasi durante la dominazione araba della penisola iberica (Al – Andalus) ed arrivata sino a noi grazie alla trasmissione orale ed a fondamentali fonti scritte ed iconografiche come il poderoso corpus raccolto da Alfonso X “El Sabio”. Il libretto allegato al CD fornisce una dettagliata quanto esaustiva storia di questa musica, dall’Ottavo secolo fino alla “reconquista” del 1492. Dal punto di vista puramente musicale, i venti brani che compongono questa preziosissima antologia spaziano dalle Cantigas De Santa Maria (la 167 delle quattrocento raccolte dal re Alfonso X) a tutte le altre forme musicali del mondo arabo, dalla Nuba alla Mchalia, dal Mashriq ai vari Modi.

Naturalmente sono qui presenti al completo gli straordinari musicologi ed anche musicisti che negli anni hanno creato e costruito il poderoso catalogo della Pneuma – formato oramai da quasi centocinquanta titoli -: dall’Ensemble guidato dal virtuoso di oud Omar Metiuoi di Tangeri, a Begonia Olavide dell’Ensemble Mudejae e Abdel Ouahid Senhalj (nay), dal multistrumentista Luis Delgado fino naturalmente a Eduardo Paniagua, fantastico suonatore di qanun ma anche di flauto e, “direttore dei lavori” di questo disco oltre che dell’etichetta madrilena Pneuma.

Un fantastico viaggio nel tempo in cui si coltivava il sogno della coesistenza tra diverse culture con un linguaggio comune di saggezza e fiducia che pose le basi del Rinascimento in Europa.

SUONI RIEMERSI: FRANCO MORONE “Back to my best”

SUONI RIEMERSI: FRANCO MORONE “Back to my best”

SUONI RIEMERSI: FRANCO MORONE “Back to my best” Acoustic Guitar Records, 2012

di Alessandro Nobis

A questo punto della sua carriera – nel 1990 esordisce con l’ottimo “Stranalandia” – Franco Morone si ferma un attimo e volge il suo sguardo all’indietro, quasi per fare un bilancio di questi ventidue anni trascorsi in compagnia della sua chitarra. Riascolta le vecchie incisioni, i missaggi, gli arrangiamenti, ne sceglie una quindicina e decide di risuonarli, per dirla alla Jannacci “per vedere l’effetto che fa”. Va a pescare nel suo “vecchio” repertorio, dal già citato “Stranalandia”, da “Guitarea” del ’94, “Melodies of memories” del ’98 e da “Running Home” del 2001, in pratica i suoi primi quattro album di composizioni originali, tra i quali – nel 2007 -si inserisce lo splendido “Irish Tunes” dedicato come si può ben capire al mondo della tradizione celtica, alla quale Morone ha numerose volte dimostrato amore e grande capacità di interpretazione.

Non è certamente un’operazione nostalgica, piuttosto la voglia di sfidare se stesso e la sua musica, risuonandola con il “senno di poi” e soprattutto con un’attenzione diversa considerato che nel frattempo sono passati diversi anni nei quali ha tenuto numerosissimi concerti ed ha potuto via via rielaborare alcune tra le composizioni che hanno nel tempo incontrato il favore del pubblico.

Ecco quindi “Parata dei saltimbanchi” e “Flowers from Ajako” da “Melodies of memories”, “Strangeland” dal suo album d’esordio, e ancora “New Oopart”, “Walk on J.J. Cale’s walk“ e “Picking the joys of life” dal suo quarto CD, solo per citare alcune perle di questo nuovo capitolo della vita musicale di questo che a detta di molti è uno dei più raffinati interpreti della chitarra acustica “fingerpickin’” in circolazione per la sua tecnica diamantina e per la sua capacità di fare sue le melodie più diverse, suonandole in modo tutt’altro che calligrafico. Una dote rara.

JERRY GARCIA “Ragged but Right”

JERRY GARCIA “Ragged but Right”

JERRY GARCIA ACOUSTIC BAND       

“Ragged but right” Jerry Garcia Family, 2010

Pubblicato su FOLK BULLETIN, 2011

di Alessandro Nobis

Era il 1964 quando Jerry Garcia diede vita ai Black Mountain Boys con David Nelson e Sandy Rothman, un anno prima quindi della fondazione di The Warlocks, band che quasi subito prese il nome di Grateful Dead. Una passione, quella del bluegrass e più in generale della tradizione americana, che Garcia coltivò fino alla fine; prima con il folk elettrificato dei New Riders of The Purple Sage, poi con il supergruppo Old And In The way, le collaborazioni con David Grisman ed infine con il gruppo titolare dell’incisione che vi presentiamo.

Questo sestetto, che oltre ai due fidi Nelson e Rothman, schiera il contrabbassista John Kahn, il violinista Kenny Kosek (Country Cooking) ed il percussionista David Kemper, aveva un repertorio radicato nella più pura tradizione americana fatta di classici interpretati in modo piuttosto originale, lasciando spazio all’improvvisazione ed agli assoli: una musica tradizionale sì nei contenuti ma molto lontana dai gruppi bluegrass più “ortodossi” e conservatori, come qualche anno fa ebbe modo di raccontarci Peter Rowan, altro musicista collaboratore di Garcia al tempo degli Old and in the Way.

La sequenza dei brani, che provengono da due concerti del 1987 fino ad oggi inediti, va dai “traditional” come “Deep Elem Blues” (anche nel repertorio acustico dei Grateful Dead), “Ragged But Right” (arrangiamento di una esecuzione di Riley Puckett del 1934) alla rivisitazione di “Trouble in Mind” (un blues eseguito anche da Big Bill Broonzy e Bessie Smith) fino alla rilettura dei brani di Leadbelly “Goodnight Irene” e del grande chitarrista Don Reno, autore di “Drifting with the tide” (1952) con ispirati “breaks” di David Nelson.

Una fortuna che qualcuno – leggi Dick Latvala e John Cutler – abbia voluto registrare ed archiviare tutti i concerti dei Dead & C.: a quasi venticinque anni di distanza, questa musica è ancora fresca, interessante e rappresenta ancora un riferimento per le nuove generazioni. Segnaliamo infine l’attesa ristampa dell’altrettanto ottimo “Almost Acoustic”, stesso gruppo, stessa tourneè.

Alessandro Nobis

PEO ALFONSI “Itaca”

PEO ALFONSI “Itaca”

PEO ALFONSI

“Itaca” EGEA Records, 2010 – Pubblicato su Folk Bulletin, 2010

di Alessandro Nobis

E’ stato pubblicato ai primi di febbraio e si pone già come uno dei migliori dischi di questo 2010. E’ “Itaca”, la nuova fatica del compositore – chitarrista sardo Peo Alfonsi, raffinato strumentista che per l’occasione ha “convocato” in studio un nugolo di musicisti di grande valore come il trombettista Kyle Gregory, il clarinettista Gabrilele Mirabassi, il contrabbassista – violoncellista Salvatore Maiore ed il percussionista Antonio Mambelli.

Sebbene i suoi compagni di viaggio siano frequentatori soprattutto dell’universo jazzistico, nelle undici composizioni di Alfonsi dimostrano di essere perfettamente a loro agio, regalando anche momenti nei quali viene facile riconoscere lo stilema della musica afroamericana: gli assoli, l’interplay, le sfumature e le coloriture che danno un valore aggiunto alle partiture del chitarrista sardo.

In questa musica c’è l’amore per il sudamerica, c’è certamente il jazz, ci sono le atmosfere ed i profumi della sua terra di origine e c’è soprattutto il gusto di elaborare qualcosa di originale. “Gismontiana” ad esempio, ispirata e dedicata al grande Egberto Gismonti con il clarinetto, il flicorno ed il violoncello che si rincorrono ripetendo il tema, “Femme fetal” nel quale è evidente già nell’incipit quanto lo stile di Ralph Towner sia stato importante nella formazione di Alfonsi, o ancora “Wis for Wheel”, dedicata a Kenny Wheeler e quindi con in evidenza il flicorno di Kyle Gregory.

Ma a nostro parere sono “Samovar”, una bellissima ballad eseguita in “solo”, “Naele” in duo con Mirabassi e “Le mille una note” che ci danno la cifra stilistica di Peo Alfonsi da Cagliari, che a nostro avviso ha pienamente assorbito e personalmente rielaborato la lezione di coloro che preferiscono la cura della melodia e dell’aspetto compositivo all’esibizione puramente tecnica: i già citati Gismonti e Towner, ma ci sembra anche Guinga e Marco Pereira. E se uno come Al Di Meola ha scelto l’intelligenza e la bravura di Peo Alfonsi per il suo quartetto acustico, ci sarà pure una ragione……

DERVISH “A celebration”

DERVISH “A celebration”

DERVISH

“A celebration 1989 – 2014” – Whirling Disc, 2014

Pubblicato da Folk Bulletin, 2014

 di Alessandro Nobis

Se i Goitse rappresentano secondo molti il futuro dell’Irish Folk, il sestetto dei Dervish ci delizia da venticinque anni con i suoi concerti – spesso scendono in Italia grazie a Geo Music – e con le sue incisioni; se non avete mai ascoltati – non credo, ma meglio mettere le mani in avanti – questa è la migliore occasione per gettare uno sguardo “uditivo” alla loro storia ed alla produzione discografica. dervishCome si evince dal titolo, questo CD riassume le loro gesta con 14 brani già pubblicati. Ne hanno fatto di strada i “Ragazzi di Sligo” (”The Boys of Sligo” era il primo nome del gruppo nato durante il loro primo incontro diciamo così ”informale”) dal 1989, e se hanno aspettato ben quattro anni per pubblicare il loro primo disco significa che il progetto è stato ben preparato, gli equilibri sonori tra voce e strumenti ben studiati ed il repertorio definito alla perfezione. Ed infatti la pubblicazione del loro primo album “Harmony Hill” del 1993 ha stupito pubblico e critica per la sua già raggiunta maturità senza mostrare quei piccoli difetti che spesso evidenziano le opere prime. Da allora in poi è stato un susseguirsi di concerti in tutto il mondo, nei club e nei grandi festival e di incisioni che hanno fatto di questo sestetto una delle migliori realtà del folk – revival celtico degli ultimi due decenni.

dervish bisLa line-up più recente dei Dervish è quella con la quale hanno registrato il loro ultimo CD “The Thrush in the storm” ovvero BRIAN McDONAGH alla mandola, LIAM KELLY al flauto e whistles, TOM MORROW al violino, SHANE MITCHELL alla fisarmonica, CATHY JORDAN al canto, bodhran e bones e MICHAEL HOLMES al Bouzouki.

Ciliegina sulla torta, un brano inedito e registrato appositamente per l’occasione (“Welcome Poor Paddy Home”), un ulteriore invito all’ascolto di questa ottima antologia del gruppo irlandese. Se capiteranno dalle vostre parti, non lasciateveli scappare.

KAREN DALTON “1966”

KAREN DALTON “1966”

KAREN DALTON

“1966” DELMORE Recordings, CD, LP – 2011

di Alessandro Nobis

Pubblicato nel 2012 da Folk Bulletin

Nel 1963 una delle cose più interessanti – la più interessante secondo Ritchie Havens – che si potevano sentire girando per i Cafè del Greenwich Village di New York era certamente il trio di Tim Hardin, con Richard Tucker e la cantante Karen Dalton, pseudonimo di Karen Cariker. Ora, queste canzoni pubblicate per la prima volta non sono le più vecchie in circolazione della Dalton (il doppio CD della Megaphone pubblicato nel 2007 ne contiene di registrate l’anno prima e “Green rocking chair” pubblicò registrazioni del 1962/63), ma contribuiscono ad integrare ed a valorizzare ancor più uno dei maggiori talenti che la musica americana produsse negli anni sessanta e che non seppe gestire, se è vero che, dopo la pubblicazione di “It’s so hard to tell who’s going to love tou the best” del 1969 e “In my own time” del 1971 questa eccezionale interprete sparì dalla circolazione; venne trovata morta in una strada di New York consumata dall’AIDS dopo essere stata preda dell’alcool e della droga e dimenticata da quanti avevano predicato il suo talento negli anni della sua giovinezza.

PrintLa sua voce è stata avvicinata a quella di Billie Holiday, nel suo repertorio troviamo la canzone d’autore – Tim Hardin e Fred Neil – il folk americano – “Green Rocky Road”, “Katie Cruel”, “Cotton Eyed Joe” – e “God bless the Child” scritto appunto da Billie Holiday qui in una magnifica versione “folkie”.

Registrazioni che ci mostrano un lato intimo della musica di Karen Dalton, quello della dimensione privata, del suonare per il piacere di farlo magari per pochi amici – Richard Tucker che porta sua chitarra ed un altro che pensa bene di registrare la session – ad esempio, una registrazione riemersa e coraggiosamente pubblicata dalla Delmore anche in vinile di grande qualità, con un bell’inserto dedicato alla vita ed alla musica di questa grande musicista dal talento diamantino.

ELVA LUTZA & RENAT SETTE “Amada”

ELVA LUTZA & RENAT SETTE “Amada”

ELVA LUTZA & RENAT SETTE

“Amada” – AUTOPRODUZIONE, 2014 – pubblicato su Folk Bulletin, 2014

di Alessandro Nobis

Affronto l’ascolto di questo “Amada” non sapendo nulla né di Renat Sette e nemmeno di Elva Lutza. Imparo dalle brevi note di copertina che Renat Sette è un cantante provenzale e che Elva Lutza è un duo sardo, composto dal trombettista cantante Nico Casu e dal chitarrista Gianluca Dessì.

Inizio l’ascolto di questo “Amada”. Il progetto è interessante, molto interessante, la formula dell’incontro di persone e di culture apparentemente lontane non è naturalmente nuovo, ma qui funziona direi egregiamente: il repertorio – e non può essere altrimenti – si muove tra la Provenza e la Sardegna e non è così difficile individuare l’origine dei brani, vuoi per i ritmi vuoi per la voce cantata. E poi c’è l’intrigante abbinamento degli strumenti – plettri e tromba – con inoltre la presenza mai invadente, ma intelligente e sempre puntuale dell’elettronica, che rende il tutto molto affascinante ed assolutamente equilibrato.

Sento in “Loison” l’eco di quel disco capolavoro di trentanni fa che fu “Veranda” della premiata ditta Tesi – Vaillant (un disco che ha lasciato il segno), in “Maire Nostra” mi gusto l’austero omaggio all’indimenticata Maria Carta e la tradizione chitarristica e vocale sarda in “Amada Giuventude”; navigo attraverso l’alto Tirreno ed eccomi sul “Pont de Mirabeu” con l’omonimo canto narrativo eseguito a cappella da Renat Sette ed Ester Formosa con la tromba di Nico Casu, gli splendidi canti provenzali “Lo Promerenc Principi” con un arrangiamento davvero efficace arricchito ancora da un solo di Casu ed il suggestivo brano d’apertura “Bèla Calha”, che fa subito comprendere la cifra artistica di questo splendido “Amada”.

Mi è piaciuto. Parecchio. E’ un disco che ti sorprende per l’atmosfera che ti pervade durante l’ascolto. Certo, note di copertina più esaustive – non so, l’origine dei brani, il significato dei testi – mi avrebbero aiutato nell’apprezzare maggiormente questo bel lavoro.

Ma forse anche no, va bene così. Scoprire un po’ alla volta il sentiero che ti conduce alla fine del disco può essere piacevole. E intrigante.

ROBERTO OTTAVIANO “Astrolabio”

ROBERTO OTTAVIANO “Astrolabio”

ROBERTO OTTAVIANO

“Astrolabio” – Dodicilune, 2015

di Alessandro Nobis

Al di là di tutto, a questo “Astrolabio” va tutta la mia entusiastica stima per avere – diciamo così – riportato alla luce parte del magnifico repertorio di uno dei gruppi inglesi più importanti (oltre ad essere il mio preferito) ed allo stesso tempo più caduti nell’oblìo, i Gentle Giant dei fratelli Shulman. E che questa operazione di “restauro innovativo” sia opera di uno dei più intelligenti musicisti del panorama jazzistico dei nostri tempi la dice lunga sul valore delle composizioni di quel gruppo britannico, per la verità più apprezzato in Italia che al di là della Manica.

Quattro fiati, quattro musicisti di livello assoluto, un’ora di musica che si ascolta tutta di un fiato, e poi si riascolta e si riascolta fino ad apprezzarne tutte le sfumature. Roberto Ottaviano (sax soprano), Gianluigi Trovesi (clarinetto alto), Michel Godard (Tuba ed anche basso elettrico) e Glenn Ferris (trombone) – quindi senza sezione ritmica “canonica” – suonano queste composizioni di Roberto Ottaviano (tutte portano la sua firma tranne le due citate, “Meu Sidi Ibrahim” di autore anonimo e appartenente al repertorio araboandaluso e “Hicaz Mandira” del Sultano Abd Al-Aziz composta nel 1830) con grande affiatamento, tema dopo tema, assolo dopo assolo confezionando uno dei più interessanti dischi di jazz che ho ascoltato di recente.

Segnalo “Natural Hero” introdotta da Godard alla tuba con un bel solo, sul quale si innesta il magico clarinetto di Trovesi, “Antidotum” dal vago sapore di danza popolare aperta da Glenn Ferris con a seguire i soli di Ottaviano e Trovesi e ……….. a voi il piacere di scoprire il resto.

Ancora complimenti alla Dodicilune Records.