PAUL HILLIER “Proensa”

<strong>PAUL HILLIER</strong> “Proensa”

PAUL HILLIER “Proensa”

ECM NEW SERIES Records. CD, 1989

di alessandro nobis

Al di là dell’accuratezza nella scelta del repertorio e delle scelte timbriche, sono convinto che questo “Proensa“, progetto del “Theatre of Voices” abbia avvicinato agli straordinari tesori della musica antica non pochi degli appassionati dell’etichetta bavarese di Manfred Eicher.

E’ un viaggio attraverso il periodo d’oro della poesie trobadorica, tra il Duecento e il Trecento, e qui troviamo i più importanti poeti dell’epoca, da Guglielmo Duca d’Aquitania a Macabruno, da Peire Vidal e Giraut De Bornelh  da Bernart De Ventadorn fino al meno conosciuto Guiraut Riquier: la straordinaria ed evocativa voce di Paul Hillier, il salterio e l’arpa di Andrew Lawrence-King, il liuto e il salterio di Stephen Stubbs e la viella di Erin Headley ci riportano magicamente a quel periodo storico troppo spesso indicato come “l’era buia” prima della rinascita. E’ questo uno quartetto formato da musicisti · studiosi dalla classe cristallina che danno lettura davvero efficace rara a sentirsi; “Reis Glorios” di Guiraut de Bornelh (provenzale, attivo nella seconda metà del 12° secolo) è un'”albada” (una sveglia) di cui conosciamo la musica che inizialmente ha la forma di preghiera ma che si trasforma in una risata, cantata da una guardia mentre il cavaliere si intrattiene con una dama, l’arrangiamento che accompagna questo testo è davvero notevole, accompagna ed allo stesso tempo crea un’ambientazione di un’aurora magica. “Pos Tornatz Sui Proensa” · da qui il titolo dell’album · venne scritta da uno tra i più celebri trovatori provenzali, Peire Vidal di Tolosa che durante la sua vita “prestò servizio” alla corte di Budapest al seguito di Costanza D’Aragona che andò in sposa al Re Imre nel 1198 (un’altra significativa interpretazione di questo canto trobadorico la si può ascoltare in “Peire Vidal: A Trobadour in Hungary” curata dall’ensemble ungherese Fraternitas Musicorum e pubblicata dalla Hungaroton nel 1981): racconta del ritorno di un trovatore nella sua terra, la Provenza.

Ho citato solamente due delle otto composizioni presenti in questo “Proensa” ma il livello di tutto il lavoro è veramente altissimo, a mio modesto avviso una delle migliori raccolte di canti trobadorici mai pubblicate e grande merito di questa realizzazione va senz’altro al patron dell’ECM per la sua visione sempre aperta verso i più diversi idiomi musicali.

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EGBERTO GISMONTI “Sol do Meio Dia”

EGBERTO GISMONTI “Sol do Meio Dia”

EGBERTO GISMONTI “Sol do Meio Dia”

ECM Records. LP, 1978

di Alessandro Nobis

Ispirato dalle frequentazioni amazzoniche delle etnie Xingu e Sapain, il compositore, chitarrista e pianista brasiliano Egberto Gismonti nel novembre del 1977 entra nel Talent Studio ECM di Oslo dove il fondatore Manfred Eicher gli fa trovare un gruppo di straordinari musicisti come Ralph Towner, Jan Garbarek, Colin Walcott e Nana Vasconcelos per registrare questo album che oggi possiamo considerare tra i più importanti della sua corposa discografia.

Sol Do Meio Dia” (il sole di mezzogiorno) pubblicato nel ’78 si caratterizza per la presenza della lunga suite in quattro movimenti che occupa tutta la seconda facciata del disco ovvero “Cafè (Procissão De Espirito)“, “Sapain (Sol Do Meio Dia)”,Dança Solitaria No. 2 ” (Voz Do Espirito)” ed infine “Baião Malandro (Fogo Na Maranhão · Mudança)”. Il movimento più significativo tra i quattro è a mio avviso quello eponimo (ovvero il secondo), nel quale Towner e Gismonti abbandonano i cordofoni utilizzati nella splendida e lunga apertura (quella che ospita il sax soprano di Garbarek, inconfondibile davvero, e i duetti tra le due chitarre) per imbracciare assieme a Walcott e Vasconcelos le percussioni autoctone, i flauti indigeni, le voci ricreando nello studio il fascino e il mistero del Brasile più recondito, quasi un richiamo disperato a valorizzare e proteggere le etnie amazzoniche da sempre – ed oggi più di allora grazie alle politiche di Bolsonaro – in pericolo di sterminio o di “forzata” assimilazione alla cultura predominante di derivazione europea. Una suite · che si conclude con un meraviglioso introspettivo brano alla chitarra 8 corde di Gismonti (“Dança Solitaria No. 2 ” · Voz Do Espirito · ) e dal movimento conclusivo, per pianoforte e percussioni · tutta da ascoltare con grande attenzione, solo così saprà trasportarvi in altro luogo e in altro tempo……..

Nella prima facciata del disco troviamo un altro brano “amazzonico”, ovvero “Kalimba“, per strumenti etnici · niente chitarra di Gismonti quindi ·, ed il delicatissimo brano di apertura composto dal chitarrista brasiliano dove duetta con la dodici corde di Towner, florilegio per chitarre provenienti da culture diverse ma con la capacità di dialogare alla perfezione senza essere mai autoreferenziali, una vera meraviglia paradisiaca per i chitarristi ……. e per tutti.

Uno dei migliori “casting” di Manfred Eicher di quegli anni, quasi mezzo secolo ma la musica fluisce e sorprende come allora.  Da avere assolutamente.

RALPH TOWNER · GLEN MOORE “Trios · Solos”

RALPH TOWNER · GLEN MOORE “Trios · Solos”

RALPH TOWNER · GLEN MOORE “Trios · Solos”

ECM RECORDS. LP, 1973

di alessandro nobis

Alla fine di novembre del 1972 il chitarrista e pianista Ralph Towner ed il contrabbassista Glen Moore entrano in studio a New York per l’ECM al fine di registrare le tracce contenute in questo bellissimo album al quale partecipano anche il percussionista Collin Walcott ed l’oboista Paul McCandless: sebbene l’ensemble Oregon fosse al completo “Trios · Solos” è accreditato solamente a Towner e Moore: forse per ragioni contrattuali (la band aveva già registrato il primo disco, che venne però pubblicato nell’80 ed erano sotto contratto con la Vanguard Records e “Music Of Another Present Era” era stato pubblicato nel ’72) o forse anche perchè in questo ellepì i quattro non suonano mai tutti assieme come facilmente si evince dal titolo. Per me “Trios Solos” rappresentò la porta d’ingresso all’innovativo suono degli Oregon che poi scoprii in tutta la bellezza di “Winter Light” (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/03/29/oregon-winter-light/).

il disco sia apre con un brano di Towner, “Brujo“: tabla, chitarra a 12 corde, e contrabbasso con un solo di accordi di Towner ed uno di Moore; “Belt of Asteroids” che chiude la prima facciata è uno splendido, lungo ed improvvisato solo di contrabbasso, una rarità ai quei tempi. Pianoforte e chitarra con contrabbasso ci regalano una versione del celeberrimo standard di Bill Evans “Re: Person I Knew” e penso che il “Towner pianista” sia stato non abbastanza considerato dai critici, “Raven’s Wood” (che Oregon riproporranno in “Violin” del 1978) scritta da Towner con Paul McCandless e Moore è uno dei brani più significativi di questo disco con la melodia cantata dall’oboe e con un perfetto interplay tra contrabbasso e chitarra, un anticipo di quello che gli Oregon avrebbero regalato in seguito agli appassionati di un jazz che pur avendo riferimenti nel maistream già mezzo secolo fa si rivolgeva al mondo dell’improvvisazione e della composizione.

At the end of November 1972 the guitarist and pianist Ralph Towner and the double bass player Glen Moore enter the studio in New York for the ECM in order to record the tracks contained in this beautiful album in which the percussionist Collin Walcott and the oboist also participate Paul McCandless: although the Oregon ensemble was complete “Trios · Solos” is only credited to Towner and Moore: perhaps for contractual reasons (the band had already recorded their first album, which however was released in '80 and they were under contract with Vanguard Records and "Music Of Another Present Era" had been released in '72) or maybe also because in this LP the four never play all together as easily deduced from the title. For me "Trios Solos" represented the gateway to the innovative sound of Oregon which I later discovered in all the beauty of "Winter Light" (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/03/29/oregon-winter -light/).

the record opens with a Towner tune, "Brujo": tabla, 12-string guitar, and upright bass with one chord solo by Towner and one by Moore; "Belt of Asteroids" which closes the first side is a splendid, long and improvised double bass solo, a rarity in those days. Piano and guitar with double bass give us a version of Bill Evans' famous standard "Re: Person I Knew" and I think that the "Pianist Towner" has not been considered enough by the critics, "Raven's Wood" (which Oregon will reproduce in "Violin" from 1978) written by Towner with Paul McCandless and Moore is one of the most significant songs on this record with the melody sung by the oboe and with a perfect interplay between double bass and guitar, an anticipation of what Oregon would later give to enthusiasts of a jazz that, despite having references in the mainstream already half a century ago, turned to the world of improvisation and composition.

MARC JOHNSON “Bass Desires”

MARC JOHNSON “Bass Desires”

MARC JOHNSON“Bass Desires” ECM Records 1299. CD, LP 1986

di alessandro nobis

Registrato a New York nel maggio del 1985, questo è il primo dei due album pubblicati da questo fantastico quartetto composto da una sezione ritmica (Marc Johnson e Peter Erskine) e da due chitarristi del calibro di John Scofield e Bill Frisell. Contrariamente a molti super gruppi che a livello discografico non hanno sempre mantenuto le attese degli appassionati, i Bass Desires hanno invece prodotto musica di grande qualità anche efficacemente “replicata” dal vivo (e chi ha avuto l’opportunità di assistere ad un loro concerto lo potrebbe confermare).

Qui la magia si concretizza con il perfetto equilibrio nella diversità stilista facilmente riscontrabile di Scofield e Frisell e con la creatività e leggerezza che rasenta la perfezione della sezione ritmica, una delle più interessanti nella storia del jazz e naturalmente di conseguenza del catalogo ECM; una ritmica che verrà riproposta anche nel 1989 nel disco con John Abercrombie nel quale possiamo ascoltare un’altra spettacolare versione di un brano di Marc Johnson, “Samurai Hee-Haw“, uno dei timbri indelebili dei Bass Desires presente sul disco in oggetto.

Quelo che più sorprende è la scelta del repertorio in quanto, laddove nel secondo album “Current Events” troviamo brani originali, in questo primo disco ci sono alcune splendide riletture di brani appartenenti al jazz vicino ad altri che possiamo definire alloctoni: “Resolution“, secondo movimento del coltraniano “A Love Supreme”, “The Wishing Doll“, canzone scritta negli anni sessanta da Elmer Bernstein e Marck David, ma soprattutto “Black is the Color of my True Love’s Hair” una ballata tradizionale raccolta negli Appalachi ma di origine scozzese e pubblicata da Roud con il numero # 1013.

Tra gli originali quelli che preferisco ancora dopo tutto questo tempo “Bass Desires” aperto da Erskine (che compone il brano) e con il tema eseguito all’unisono dalle chitarre che si alternano nei soli e la magnifica ballad conclusiva di John Scofield “Thanks Again“.

Disco eccelso, come il secondo “Second Sight” e perfetta la produzione di Eicher (Manfred). Credo ancora sia in catalogo.

RABIH ABOU KHALIL “Nafas”

RABIH ABOU KHALIL “Nafas”

Rabih Abou Khalil “Nafas”

ECM Records, CD 1988

di alessandro nobis

Nafas” del libanese Rabih Abou-Khalil penso sia il primo disco di musica di “ispirazione etnica” pubblicato dall’etichetta di Manfred Eicher ed è anche l’unico che il compositore e suonatore di oud ha pubblicato per lui (i successivi furono prodotti dalla tedesca Japo) ed è stato un prezioso punto di partenza per i “seguaci” dell’ECM per scoprire i suoni ed i colori della musica del Vicino Oriente che ha ispirato queste bellissime composizioni del quartetto formato oltre che dal libanese dal siriano Selim Kusur alla voce e nay, dall’americano Glen Velez ai tamburi a cornice (il bandair o forse un tar) e dall’armeno libanese Setrak Sarkassian al darabukka. A ben vedere non tutti i brani sono eseguiti da quattro musicisti, alcuni sono eseguiti in “solo” o in duo: “Awakening” e “Nandi” che aprono e chiudono il disco sono due magnifici ed evocativi brani eseguito da Glen Velez, la perfetta cornice all’interno della quale si sviluppa questo disco che come detto si ispira sì alla tradizione ma che anche la interpreta come nel caso di “Amal Hayati“, la melodia di una canzone scritta dall’egiziano Mohammad Abdul Wahab (1902 – 1991), considerato uno dei più importanti compositori di musica araba del novecento. I brani rimanenti sono tutte nuove composizioni o improvvisazioni (il linguaggio improvvisativo è molto usato dai musicisti di questa cultura musicale) e penso di poter dire che il duo di percussioni “Gaval Dance” rientri in questa tipologia esecutiva come anche le due parti in cui si divide “The Return” la prima in quartetto e la seconda in trio con lunghi e significativi assoli di oud nella prima e di nay nella seconda su di un complesso schema ritmico delle percussioni di Velez e Sarkassian.

Nafas” è il disco che mi ha dato l’opportunità di ascoltare la classe e la tecnica di Rabih Abou Khalil del quale, e lo dico con piccolo orgoglio, parecchi anni fa riusciì ad organizzare un suo concerto solista in un piccolo centro della provincia veronese, in una veste che mise in luce tutto il suo talento di improvvisatore e di compositore che comunque già avevo avuto modo di apprezzare in questo e nei suoi lavori successivi per la Enja Records.

OM “KIRIKUKI”

OM “KIRIKUKI”

OM “KIRIKUKI”

Japo – ECM Records. LP, 1976

di alessandro nobis

Tra i gruppi che in Europa, alla metà dei Settanta, avevano cercato di elettrificare il linguaggio del jazz spesso con splendidi risultati (ricordo solamente i Soft Machine, i Nucleus ma anche gli italiani Agorà e Perigeo) vanno annoverati a mio parere gli svizzeri OM, quartetto che in organico aveva il chitarrista Christy Doran (di oriìgine irlandese), il sassofonista e flautista Urs Leimgruber, il contrabbassista Bobby Burri ed il batterista Freddy Studer; questo “Kirikuki” registrato nel ’75 e pubblicato dalla Japo Records, affiliata ECM, è il loro album d’esordio e si pose all’attenzione degli appassionati per il progetto che viveva sì sulla scrittura della musica, composta quasi esclusivamente da Doran, ma anche di un’interessante prassi improvvisativa che arricchiva il tutto, a mio avviso del tutto evidente in “Lips” aperta da un espressivo solo al flauto di Leimgruber. Il suono appare certamente influenzato dal primo disco dei Weather Report (ad esempio le linee di soprano nel brano “Holly” che apre la prima facciata) e la classe di Doran e Leimgruber danno quel tocco di originalità alla musica del quartetto che rimane affascinante e fresca ancora dopo quasi mezzo secolo. L’ipnotica “Holly” che apre la prima facciata è l’episodio perfetto per “mostrare le carte” del suono di OM, e la chitarra di Doran, strumentista eccellente, in tutto il lavoro connette con i suoi accordi i tre compagni di viaggio che mostrano grande empatia ed un livello di interplay che fanno di questo “Kirikuki” uno dei più interessanti progetti prodotti alla metà dei Settanta dalla Japo – Ecm.

Karpfenteich” si apre con il trio che prepara un interessante interplay tra Doran e Leimgruber, anche la lunga “Hommage À Mme. Stirnimaa” si apre con una lunga introduzione del trio per poi aprirsi ai soli del sax tenore, naturalmente con il sempre straordinario apporto della simbiotica sezione ritmica che in tutti lavori di OM rappresenta l’essenziale dinamico e soprattutto creativo supporto al sound del gruppo.

Degli OM in CD non è stato pubblicato nulla delle incisioni effettuate per la Japo con l’eccezione di “A Retrospective” che l’ECM mise in catalogo nel 2006: contiene tutto il quarto album “Cerberus” oltre a “Holly” e “Lips” tratti da Kirikuki, “Rautionaha” dall’omonimo album del ’77 e “Dumini” da “With Dom Um Romao” del ’77.

Datevi da fare e cercate questo magnifico vinile.

OREGON “Oregon”

OREGON “Oregon”

OREGON “Oregon”

ECM Records. CD, 1983

di alessandro nobis

E’ un po’ il disco che indica una deviazione rispetto al suono iniziale degli Oregon che coincide con l’ingresso nella scuderia musicale di Manfred Eicher produttore di questo e dei due lavori successivi del quintetto americano (“Crossing” dell’85 ed “Ecotopia” dell’87), in precedenza sotto contratto con la Vanguard per la quale aveva registrato alcuni capolavori tra i quali segnalo “Winter Light” (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/03/29/oregon-winter-light/) dove la ricerca sonora etnica abbinata al linguaggio del jazz trova uno dei suoi massimi episodi; è anche il disco che ha fatto un po’ storcere il naso a qualche critico ancorato al suono della prima fase del gruppo, ma in verità raccoglie sonorità “vecchie” vicino a quelle che concretizzano le nuove idee di Towner & C.. Un cambiamento importante è ad esempio quello che riguarda la sorprendente scelta strumentale decisa da Ralph Towner, ovvero quella di utilizzare il pianoforte ed il synth Prophet 5  e di riservare lo spazio per la chitarra in solo tre brani; è un passaggio importante perchè sposta il baricentro da un suono prettamente acustico ad uno più elettrificato. Laddove “Taos“, “Arianna” e “There was no moon that night” rimandano al classico suono degli Oregon e del Towner solista, “Beacon” con Moore alla viola si caratterizza dal suono del Prophet e dalla consueta capacità improvvisativa del gruppo e l’iniziale “The Rapids” con il pianoforte ed il soprano di McCandless è interessante per la sua cantabilità. Fondamentale e peculiare del suono “Oregon” è qui come in tutte le produzioni è l’apporto della tavolozza delle percussioni di Colin Walcott, che purtroppo l’anno seguente a queste sessions perse la vita in un incidente stradale determinando l’ingresso nel gruppo di Trilok Gurtu, non un clone di Walcott ma batterista – percussionista di grandissima levatura come testimoniano tutte le sue collaborazioni a cominciare da quella con John Mclaughlin e Kay Eckhart.

“Oregon” non è a mio avviso il miglior lavoro di Towner & C., ma otto stelle su dieci le merita tutte.

MARCO AMBROSINI · ENSEMBLE SUPERSONUS “Resonances”

MARCO AMBROSINI · ENSEMBLE SUPERSONUS “Resonances”

MARCO AMBROSINI · ENSEMBLE SUPERSONUS “Resonances”

ECM Records 2497. CD, 2019

di alessandro nobis

Conosco il talento di Marco Ambrosini (violinista e violista da braccio) per i suoi lavori con l’ottimo l’Ensemble Unicorn, per la sua collaborazione con i New Landscapes e per il suo lavoro, sempre prodotto da Manfred Eicher, con l’accordeonista Jean-Luis Matinier; nelle ultime due citate collaborazioni come in questo ottimo “Resonances” Ambrosini dimostra anche di essere un eccellente virtuoso della nickelarpa, strumento ad archetto della tradizione musicale nordica, in particolare della Svezia.

Devo dire che il progetto pensato per questo disco e realizzato con l'”Ensemble Supersonus” è veramente interessante perché il suono che si ascolta è di rara bellezza e ricercatezza, il repertorio comprende brani originali, di musica antica, un brano tradizionale e lega i suoni medioevali – rinascimentali con il canto delle steppe mongole. Progetto azzardato direte voi: tutt’altro, è invece musica intrigante eseguita in modo impeccabile con arrangiamenti così ricercati che riescono a rendere omogenee le caratteristiche che ho citato sopra.

La musica che si ascolta è il “crossroads” tra due linee facilmente indentificabili, quella dello spazio e quella del tempo: la linea dello spazio parte dal canto tipico della tradizione delle steppe mongole, Anna – Maria Hefele contestualizza in modo filologico con il repertorio del disco, e finisce nell’Europa dei nostri giorni – con le 6 composizioni originali –  passando per la penisola anatolica fino alla scandinavia svedese, la linea del tempo invece collega il medioevo di Hildegard Von Bingel di “O Antiqui Santi” (evocativo il canto della Hefele”) con un “Semaj” della musica classica ottomana, composto da Veli Dede, compositore turco del XIX° secolo, passando tra gli altri da Franz Biber e Girolamo Frescobaldi.

Tra i brani originali segnalo “2 Four 8” per canto e Jewish’s Harp (Wolf Janscha), mi sembra di capire si tratti di un’improvvisazione, ed “Erimal Nopu” scritta dalla clavicembalista Eva Maria Rusche da ritmo mediorientale con un bel dialogo della tastiera e della nickelharpa che anticipa il solo della Hefele.

In definitiva, a mio parere “Resonances” ha compiuto il miracolo di rendere omogeneo ed attuale un repertorio come dicevo del tutto eterogeneo nei linguaggi e negli stili. E con musiciti di questo livello di queste ampie vedute non poteva essere altrimenti.

 

 

 

ANOUAR BRAHEM “Blue Maqams”

ANOUAR BRAHEM “Blue Maqams”

ANOUAR BRAHEM “Blue Maqams”

ECM RECORDS 2580, 2017

di Alessandro Nobis

UnknownCon il libanese Rabih Abou Khalil ed il conterraneo Dhafer Youssef, il tunisino Anouar Brahem può essere considerato senz’altro il suonatore di oud che più di ogni altro ha spostato il baricentro della sua musica verso quella occidentale, in particolare verso quella afroamericana (assolutamente da ascoltare anche “Thimar” con Holland e John Surman e “Madar” con Jan Garbarek). Certo, gli “intoccabili e purissimi” Munir e Omar Bashir (scuola irachena), Said Chaibri (scuola marocchina) o Naseer Shamma (scuola egiziana) hanno portato e portano la tecnica di improvvisazione a livelli altissimi, ma se avete voglia di scoprire la magica alchimia di quando il “il sultano degli strumenti” si “accoppia” con strumenti come il contrabbasso di Dave Holland, la batteria di Jack De Johnette ed il pianoforte di Django Bates questi nove brani contenuti in “Blue Maqams” fanno al caso vostro. Beninteso, non si tratta di composizioni scritte pensando alla musica mediorientale ed adattate al jazz, ma al contrario scritture nate e pensate per andare oltre i maqam arabi e quindi scritte per essere eseguite da musicisti facenti parte della migliore musica afroamericana. E’ musica il cui aspetto principale è a mio modesto avviso quello narrativo, di scambio culturale tra due generi che fanno dell’improvvisazione la propria ragione di esistere e che nei lavori di questi autori e musicisti che ho nominato in apertura si ha l’occasione di ammirare in tutta la sua bellezza. “Bon Dia Rio” è jazz, è Brasile, è Medio Oriente, Blue Maqam nasce da un’idea sviluppata improvvisando nello studio di registrazione, l’intro a “Opening Day” evoca il medioriente ma poi il solo di Brahem ti trasporta altrove, nelle sale e nei club dove si ascolta il migliore jazz, da sempre musica di contaminazione culturale. Disco magnifico.

 

 

 

 

DANISH STRING QUARTET “Last Leaf”

DANISH STRING QUARTET “Last Leaf”

DANISH STRING QUARTET “Last Leaf”

ECM NEW SERIES 2550, CD, 2017

di Alessandro Nobis

Lui, lemme lemme, quasi di nascosto, ti propone musicisti che non hai mai nemmeno sentito nominare e che quasi sempre, ascoltando la loro musica, ti lasciano a bocca aperta per la bellezza di ciò che stai ascoltando; una bella sensazione, un piacere interiore che ho la fortuna di provare spesso ultimamente; lui è naturalmente è Manfred Eicher – patron dell’ECM – ed i musicisti stavolta sono quattro danesi, il “Danish String Quartet”, che fanno seguire al precedente lavoro per l’ECM, dedicato alle scritture di Thomas Ades, Per Norgard e Hans Abrahamsen questo “Last Leaf”. Un quartetto d’archi quindi, uno dei più prestigiosi in circolazione – con l’aggiunta di un pianoforte e di un harmonium in qualche traccia – che rilegge, reinterpreta e arrangia brani provenienti dalle ricche tradizioni di alcune regioni nordiche come le Isole Shetland, la Svezia, la Danimarca, aree dove la musica popolare è da sempre legata agli strumenti ad arco. Quasi un seguito al magnifico “Wood Works” pubblicato nel ’14 dalla Dacapo Records nel quale venivano affrontato il repertorio popolare nordico.image.php.jpeg

Le arie nate per l’accompagnamento alle danze hanno da secoli ispirato generazioni di compositori “classici” ma nel caso di questo “Last Leaf” il passaggio dalla tradizione è splendidamente diretto, senza mediazione di alcun compositore; è l’approccio che io amo di più, quello che sempre mi fa riflettere e convincere che la metodologia del Danish String Quartet può essere una di quelle più indovinate per traghettare questi repertori nel futuro anche perché qui si trovano anche brani originali di ispirazione popolare. Della tradizione delle Shetland, quella legata al violino di Hardanger o allo stile di Aly Bain, gli appassionati si erano già abbeverati abbondantemente, ma il brano qui proposto “Unst Boat Song”, è una canzone splendidamente resa in versione strumentale, come anche la ballata danese risalente al ‘300 “Dromte mig en drom”. Splendidi “Intermezzo” del violoncellista ed il seguente “Shine you no more” scritto dal violinista Sorensen e la composizione del norvegese Gjermund Haugen, scomparso nel ’76 e specialista del violino di Hardanger.

Disco superlativo, mi espongo classificandolo come una delle migliori produzioni ascoltate dal sottoscritto negli ultimi anni.