GEORGES RAMAIOLI “IL LAGO ONTARIO”

GEORGES RAMAIOLI “IL LAGO ONTARIO”

GEORGES RAMAIOLI “IL LAGO ONTARIO”

Edizioni Segni D’Autore, 2017. Pagg. 56, € 21,00

di Alessandro Nobis

“Il Lago Ontario” è il terzo dei cinque volumi previsti da Edizioni Segni D’Autore facenti parte del ciclo “Leatherstockings Tales” i cui romanzi storici furono scritti dal narratore James Fenimore Cooper ed ambientati durante la guerra dei Sette Anni tra le truppe britanniche e francesi in Nordamerica. Sceneggiato e disegnato dal franco – italiano Georges Ramaioli con la consueta cura e ricerca dei particolati “etnografici”, questo terzo volume racconta, sullo sfondo di una storia sentimentale tra Mabel, figlia del Sergente Durham, e Pathfinder, gli scontri tra le truppe del 55° Reggimento scozzese di stanza a Forte Oswego sulla riva orientale del lago Ontario e le truppe francesi appoggiate dai Tuscarora, nativi di lingua irochese spinti nella zona dei Grandi Laghi dalla colonizzazione inglese delle loro terre di origine, oggi gli stati della Carolina e di New York. il-lago-ontario-1 (1)C’è lo spazio anche per una particolarmente ben disegnata/raccontata “scaramuccia” navale tra il vascello francese Montcalm e la piccola imbarcazione britannica “Scudo” nel lago in tempesta ed i “soliti” imprevedibili inseguimenti tra canoe sull’impetuoso fiume Oswego per sfuggire alle frecce dei Mingos, un altro gruppo etnico di lingua irochese e alleato dei francesi.

Il progetto di Ramaioli è quello di dare vita con i “fumetti” ad una lettura visiva del capolavoro di Cooper (vedi anche https://ildiapasonblog.wordpress.com/?s=ramaioli) restando il più fedele possibile alla trama pensata dallo scrittore di Burlington, vissuto tra il 1789 ed il 1851, potendo osservare da vicino la nascita dello Stato Nordamericano, staccandosi per questo dalle ricostruzioni cinematografiche del Novecento.

Valore aggiunto una bella intervista all’autore, in attesa de “I Pionieri”, prossimo volume della serie.

http://www.segnid’autore.it

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ANOUAR BRAHEM “Blue Maqams”

ANOUAR BRAHEM “Blue Maqams”

ANOUAR BRAHEM “Blue Maqams”

ECM RECORDS 2580, 2017

di Alessandro Nobis

UnknownCon il libanese Rabih Abou Khalil ed il conterraneo Dhafer Youssef, il tunisino Anouar Brahem può essere considerato senz’altro il suonatore di oud che più di ogni altro ha spostato il baricentro della sua musica verso quella occidentale, in particolare verso quella afroamericana (assolutamente da ascoltare anche “Thimar” con Holland e John Surman e “Madar” con Jan Garbarek). Certo, gli “intoccabili e purissimi” Munir e Omar Bashir (scuola irachena), Said Chaibri (scuola marocchina) o Naseer Shamma (scuola egiziana) hanno portato e portano la tecnica di improvvisazione a livelli altissimi, ma se avete voglia di scoprire la magica alchimia di quando il “il sultano degli strumenti” si “accoppia” con strumenti come il contrabbasso di Dave Holland, la batteria di Jack De Johnette ed il pianoforte di Django Bates questi nove brani contenuti in “Blue Maqams” fanno al caso vostro. Beninteso, non si tratta di composizioni scritte pensando alla musica mediorientale ed adattate al jazz, ma al contrario scritture nate e pensate per andare oltre i maqam arabi e quindi scritte per essere eseguite da musicisti facenti parte della migliore musica afroamericana. E’ musica il cui aspetto principale è a mio modesto avviso quello narrativo, di scambio culturale tra due generi che fanno dell’improvvisazione la propria ragione di esistere e che nei lavori di questi autori e musicisti che ho nominato in apertura si ha l’occasione di ammirare in tutta la sua bellezza. “Bon Dia Rio” è jazz, è Brasile, è Medio Oriente, Blue Maqam nasce da un’idea sviluppata improvvisando nello studio di registrazione, l’intro a “Opening Day” evoca il medioriente ma poi il solo di Brahem ti trasporta altrove, nelle sale e nei club dove si ascolta il migliore jazz, da sempre musica di contaminazione culturale. Disco magnifico.

 

 

 

 

DALLA PICCIONAIA: Olaf Otto Becker “Above Zero”

DALLA PICCIONAIA: Olaf Otto Becker “Above Zero”

DALLA PICCIONAIA: Olaf Otto Becker “Above Zero”

Galleria MarcoRossi artecontemporanea,  Verona

18 novembre 017 – 27 gennaio 018

di Alessandro Nobis

E’ stata inaugurata sabato 18 novembre alla Galleria MARCOROSSI artecontemporanea diretta da Francesco Sandroni, in Via Garibaldi a Verona, “Above Zero”, esposizione del fotografo tedesco Olaf Otto Becker che raccoglie alcuni dei suoi scatti effettuati all’interno della calotta glaciale della Groenlandia tra il 2007 ed il 2008; in effetti una serie di immagini dedicata alla grande isola dell’Atlantico Settentrionale avrebbe dovuto intitolarsi “Below Zero”, e così sarebbe stato se fosse stata pensata e realizzata anche solo trenta anni fa.

“Above Zero” dà quindi immediatamente l’idea del significato e dell’importanza di queste testimonianze fotografiche: “Sopra Zero”, quando il ghiaccio si scioglie, quando la calotta glaciale perde volumetria e restituisce sotto forma liquida ciò che aveva accumulato in centinaia di migliaia di anni.

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Foto di Olaf Otto Becker

Olaf Otto Becker è un fotografo d’altri tempi, in tre anni ha percorso con un gommone, una slitta e novanta chili di attrezzatura fotografica (un banco ottico) le coste e l’interno della Kalaallit Nunaat, la “terra degli uomini” rischiando anche la vita per portare a conoscenza del pubblico la situazione nella quale si trova la calotta glaciale grazie soprattutto all’inquinamento dell’atmosfera ed all’effetto serra. Fotografie di grandissimo e di piccolo formato dalla altissima definizione e stampate in limitatissima tiratura, fotografie che illustrano il percorso svolto lungo uno dei fiumi glaciali, fotografie di acque di fusione, fotografie di grande fascino e bellezza e fotografie soprattutto a colori: quattro per l’esattezza, l‘omogeneo grigiore del cielo della luce estiva perenne, il bianco latteo del ghiaccio, il turchese delle acque ed infine  l’inquietante nero dei residui della “black snow”, fiocchi di neve condensati attorno alla nera cenere risultato di incendi boschivi di chissà quale parte del mondo, oggi presenti su vasti spazi dell’isola e che negli splendidi scatti di Becker coprono le “sponde” del torrenti e dei fiumi.

L’uomo fisicamente non c’è in questi scatti, però come detto c’è il risultato della sua dissennata attività studiata dai glaciologi dello Swiss Camp, documentato da un’altra affascinante serie di scatti che si trovano sul volume “Above Zero” pubblicato da Hatje Kantz nel 2009.

Una mostra che val davvero la pena di visitare, dove si incrociano la grande capacità tecnica di Becker fotografo (scelta del formato e della carta cotone su cui stampare, dell’esposizione, dell’inquadratura) con il preziosissimo valore geo-documentaristico delle immagini che ci forniscono un’immagine di una Groenlandia e della sua natura inaspettatamente e tristemente “contaminata”.

La mostra, ad ingresso libero, è visitabile dal martedì al sabato (10:00 – 12:30 e 15:00 – 19:00) e nei giorni festivi su appuntamento. Fino al 27 gennaio 2018.

FRANCIS M. GRI “Falls and Flares”

FRANCIS M. GRI “Falls and Flares”

FRANCIS M. GRI “Falls and Flares”

KRYSALISOUND RECORDS. CD, 2017

di Alessandro Nobis

Cercate musica da ascoltare mentre cucinate oppure mentre leggete il giornale nel vostro “Living”? Bene. Questo disco non fa per voi. Passate ad altro.

Se invece volete essere aggiornati sul mondo della miglior musica contemporanea o se siete – o eravate – appassionati di musica “ambient” che tante gioie ci ha regalato dalla seconda metà dei Settanta con alcune registrazioni della Obscure di Brian Eno (a proposito, mai più ristampati in CD!) e successivamente della EG, allora questo “Fall and Fires” di Francis M. Gri è il disco che fa al caso vostro (e mio, detto tra noi), come del resto la produzione della Krysalisound, fondata dallo stesso Francis M. Gri, musicista svizzero trapiantato a Milano.

E’ musica dichiaratamente ispirata dai colori autunnali (è stata registrata appunto nell’autunno dello 016) e che, indipendentemente dalla fonti d’ispirazione, si ascolta con grande piacere soprattutto se si fa un tentativo di capire il “modus operandi” di M. Gri, visto che, al solito per la Krysalisound, le note di copertina sono praticamente assenti. Secondo me una scelta indovinata ed originale che obbliga il fruitore a cercare personalmente riferimenti musicali, ambientali e quant’altro. Che siano tutti suoni “artificiali”, che siano suoni naturali filtrati da un computer – non saprei, il pianoforte in ”We are Fading Dreams”, una chitarra (o una quasi fisarmonica) in “Grey Over my Shoulders” forse – non ha alcuna importanza, quello che conta è la sovrapposizione di suoni e di sensazioni ed il risultato finale. Un lavoro affascinante che mi ha stuzzicato la mente non poco, e che mi auguro di poter ascoltare dal vivo in “location” al chiuso ma anche “open air” degne di ospitarlo. Caldamente consigliato e reperibile, come tutte le produzioni di queste etichette, solamente sui siti web; in questo caso http://www.krysalisound.com

MARCO TUMA “La Vita Semplice”

MARCO TUMA “La Vita Semplice”

DODICILUNE RECORDS. CD ed374, 2017

di Alessandro Nobis

L’armonica cromatica, nel jazz, ha sempre goduto di poco spazio ed altrettanto poco seguito tra i musicisti a parte, e dico un’ovvietà, quella astrale del belga Toots Thielemans. Pertanto questo lavoro del leccese Marco Tuma – armonicista ma anche fine flautista e sassofonista oltre che compositore – suona come una novità almeno per l’ambiente jazzistico italiano. Ad un attento ascolto “La vita semplice” non è “un disco semplice” non tanto per l’estrema gradevolezza che si prova al suo ascolto, ma per la raffinata combinazione degli strumenti e quindi delle soluzioni timbriche scelte per ogni singolo brano. E’ una sfida singolare, un’alternanza calibrata e perfetta tra l’amore per la migliore musica sudamericana d’autore e la propria capacità compositiva; dieci brani, ben sette escono dalla penna di Tuma e tre sono “visite private” negli spartiti di Viniciùs De Moraes, Antonio C. Jobim e Baden Powell e del parigino Michel Legrand. Tra i primi vi segnalo l’introspettivo “Aprile”, il brano che apre “La Vita Semplice” eseguito dal trio pianoforte (Giuseppe Magagnino), violoncello (Redi Hasa) ed armonica, “Neruda Mon Amour” con Tuma anche al flauto ed il bellissimo suono del piano elettrico e “Waltz for Berry”, tra i secondi un’efficace “Eu sei que vou te amar” della premiata ditta Jobim – De Moraes introdotta dalla chitarra (Claudio Tuma) e con il recitativo di Giuseppe Tarantino”.

www.dodiciluneshop.it

GOSPEL BOOK REVISITED “Won’t you keep me wild?”

GOSPEL BOOK REVISITED “Won’t you keep me wild?”

GOSPEL BOOK REVISITED “Won’t you keep me wild?”

A-Z BLUES RECORDS. EP 2017

di Alessandro Nobis

Bastano poche battute per capire dove questo quartetto torinese vuole andare a parare: Camilla Maina (voce), Umberto Poli (chiatta), Gianfranco Nasso (basso) e Samuel Napoli (batteria) con questo loro Ep d’esordio puntano dritti sul bersaglio di un corposo blues elettrico, e lo centrano proprio nel mezzo. Brani originali e di altri autori rivisitati con piglio forte di notevole impatto e solidità. Poche note dicevamo, quelle del super classico di Willie Dixon “I just want to make love to you” – brano che apre le danze – con una versione originale che suona benissimo, non una nota o un suono fuori posto, l’armonica di Dave Moretti in gran spolvero e poche note anche del brano che chiude questo lavoro, “Mary and the fool”, una slow blues originale dove la voce di Camilla Maina emerge in tutta la sua forza e dolcezza, il brano che più ho ascoltato e riascoltato. Ecco, questa alternanza di brani originali e di standards è un aspetto che sempre più sta emergendo a mio avviso nel panorama del blues nostrano, un altro segnale che ci conferma come il lavoro di A-Z Blues stia dando i suoi frutti.4613-gospel-book-revisited-want-you-keep-me-wild-introducing-gospel-book-revisited-20170910162022.jpg

Una band da seguire con attenzione, “Gospel Book Revisited”, dalla quale mi aspetto a questo punto un lavoro completo ricco di brani nuovi di zecca che viste le premesse non potrà deludere gli appassionati del blues e del blues elettrico più sanguigno. A good start.

 

MASSIMO URBANI “Vicenza 6 maggio 1984″

MASSIMO URBANI “Vicenza 6 maggio 1984″

MASSIMO URBANI Vicenza 6 maggio 1984″

PHILOLOGY RECORDS. 2CD 2017

di Alessandro Nobis

UnknownAntefatto: ascoltai Massimo Urbani per la prima e purtroppo unica volta all’edizione 1982 di Umbria Jazz; una sera nel dopo festival, in un club perugino (mi sembrava si chiamasse “Il panino”, o qualcosa del genere), e mi colpì per l’energia, la tecnica e la bellezza della musica che usciva da quel sassofono; non ricordo chi lo accompagnava, ricordo solamente la voce del contralto. Ero a digiuno di jazz, lo sono ancora, ma di quel Festival quella sera è una delle poche cose che ricordo in modo vivo, a parte i concerti di B.B.King e di Joe Henderson (con lui c’erano Tony Williams, Ron Carter, Kenny Barron e Freddie Hubbard).

Questa registrazione live, che riporta credo il concerto nella sua interezza, proviene dall’archivio di Michele Calgaro che lui stesso fissò sul nastro di un’audiocassetta quella sera del 6 maggio 1984 quando il quartetto di Massimo Urbani si esibì nel Teatro San Marco su invito dello stesso Calgaro e di altri musicisti che si autofinanziarono (in quegli anni anche questo si faceva) pur di vedere suonare dal vivo uno dei più grandi talenti che il jazz italiano, ma non solo, abbia mai espresso. Con Urbani c’erano sul palco  tre giovani e talentuosi musicisti già allora affermati nel panorama del jazz nostrano come Marcello Tonolo al pianoforte, Marc Abrams al contrabbasso e Valerio Abeni alla batteria, e pochi minuti sono sufficienti perché chiunque si possa rendere conto della grandezza della musica che il contraltista romano sapeva regalare al pubblico: tecnica sopraffina, cuore, sentimento, fraseggio, swing, sofferenza, intonazione grappoli di note fulminee erano i tratti a mio modesto avviso cardine della musica di Massimo Urbani ed anche questo concerto – all’epoca aveva 27 anni essendo nato nel 1957 – conferma la grandezza di questo musicista che se non avesse spinto la sua ammirazione, quasi idolatria, nei confronti di Chet Baker e Charlie Parker fino all’estremo limite la storia della sua musica e del jazz italiano sarebbe stata certamente più ricca.

Che importa se la qualità della registrazione non è ottimale, quello che conta è ascoltare un quartetto che suona e improvvisa a meraviglia sia brani di Urbani (il lunghissimo “Massimo Tune”), di Parker (“Red Cross”), che di altri autori come McCoy Tyner, Bronislaw Karper, Ray Noble, Victor Young e Gene De Paul e bene, anzi benissimo ha fatto Paolo Piangerelli – Mr. Philology – a pubblicare questo magico concerto di Massimo Urbani.

E mentri ascolti Massimo Urbani ti domandi quanti tesori nascosti come questo provenienti da quegli anni siano conservati gelosamente nelle collezioni di appassionati che in modo del tutto abusivo coraggiosamente registrarono su cassetta concerti in rassegne e festival. E’ ora di aprire gli archivi!

L’altro giorno stavo ascoltando questo CD in auto con un amico. “Ma chi è che suona, Charlie Parker?”. “No” – rispondo io – “Quasi”.

http://www.philologyjazz.it

 

 

 

DALLA PICCIONAIA: DIEGO  ALVERÀ e ROBERTO CALVI raccontano NICK DRAKE

DALLA PICCIONAIA: DIEGO  ALVERÀ e ROBERTO CALVI raccontano NICK DRAKE

DALLA PICCIONAIA: DIEGO  ALVERÀ e ROBERTO CALVI raccontano NICK DRAKE.

COHEN, Verona, 11 novembre 2017

di Alessandro Nobis

Il giradischi ha smesso suonare i “Concerti Brandeburghesi”, la puntina tocca all’infinito contro l’etichetta al centro del disco, ma nessuno alza il braccetto del giradischi. E’ il 25 novembre 1974, la madre trova Nicholas nel letto della sua camera, privo di vita. Questa è l’immagine con la quale Diego Alverà ha scelto di iniziare il suo storytelling sulla purtroppo breve vita di questo straordinario autore che ci la sciato un pugno di diamanti purissimi, le sue canzoni, la sua musica. Alverà sceglie di mettere al centro della narrazione la stanza di Nick, quella che di più di tutti lo ha visto crescere, maturare, comporre, assumere antidepressivi e infine morire. Un racconto ben costruito e che Alverà con la sua solita verve, passione e preparazione ha proposto al pubblico, numeroso ed attento nonostante fosse un sabato sera al Cohen di Verona, dando ragione alla proprietaria della sua coraggiosa scelta. IMG_0029E questa volta, valore aggiunto, c’era anche Roberto Calvi che ha regalato alcune gemme del songbook di Drake, alcune tratte dai suoi dischi ufficiali (tre) come “River Man”, “Pink Moon” e “Man in a Shed”, altre postume al tempo scartate dallo stesso Drake che le riteneva non all’altezza per essere pubblicate, come “Clothes of Sands”: eccellente chitarrista, preciso e calligrafico quanto basta nell’esecuzione delle scritture originali, bravo ed espressivo cantante, Roberto Calvi è piaciuto molto per il suo modo discreto di affrontare un repertorio quasi “intoccabile” e resta la curiosità di ascoltare le “cose sue” come lui stesso le definisce.

Ma da questa serata, davvero ben riuscita, credo che come si dice “possa uscirne qualcosa di grosso” se questi due interventi diventeranno un progetto, come mi auguro: studiare a tavolino come far intersecare la musica con il racconto e la poesia con la prosa può far diventare “Far Leys” una piece teatrale di grande fascino e successo aggiungo, naturalmente se Alverà e Calvi lo vorranno. Insomma, non può esaurirsi qui quest’idea………….

Racconta Joe Boyd nel suo “Le biciclette bianche” edito da Odoya nel 2014, che a fargli conoscere Nick Drake fu Ashley Hutchings, protagonista come musicista, ricercatore, organizzatore di gruppi oltre che come talent scout nell’ambito della musica tradizionale – e non solo – a partire dalla metà dei Sessanta a Londra. Racconta Boyd a pagina 180: “Alla Roundhouse di Londra ci fu una maratona musicale contro la guerra del Viet-Nam (28 febbraio 1968, ndr) alla quale parteciparono anche i Fairport Convention di Hutchings. Finito il concerto Richard Thompson e gli altri se ne andarono ma il bassista si fermò e, verso le tre del mattino, ebbe l’occasione di ascoltare un certo Nick Drake. Mi chiamò il giorno e mi disse che avrei dovuto chiamare – questo qua, un tipo davvero interessante -, furono le sue parole esatte. E mi diede il suo numero di telefono”.

 

MAURIZIO AGAMENNONE: “Musica e tradizione orale nel Salento”

MAURIZIO AGAMENNONE: “Musica e tradizione orale nel Salento”

MAURIZIO AGAMENNONE: “Musica e tradizione orale nel Salento”

Squi[libri], 2017. Pagg. 382 con 3 CD, € 30,00

di Alessandro Nobis

Nella Collana “Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia”, la casa editrice romana Squi[libri], ha di recente pubblicato il volume 14 dedicato alla tradizione musicale salentina ed in particolare alle preziosissime registrazione che nell’agosto del ’54 Alan Lomax e Diego Carpitella raccolsero nel Salento ed in altre zone d’Italia. Una collana, quella dell’AEM, che aveva esordito nel 2005 con un altro volume dedicato al Salento, (“Musiche tradizionali del Salento. Le registrazioni di Diego Carpitella ed Ernesto De Martino 1559 – 1960”) e che a mio avviso ha il doppio pregio di rendere pubblici i tesori musicali dell’Accademia da un lato e di dare la possibilità a studiosi, musicisti, addetti ai lavori e più semplicemente a curiosi ed appassionati di leggere ed ascoltare frammenti della polimorfica cultura tradizionale italiana.salento squilibri 01

Ben settantanove i brani raccolti, dei quali 23 erano già stati pubblicati dalla Rounder Records nel 2002 nella serie “Italian Treasures. Puglia: The Salento” per quella che può essere definita una fondamentale opera per la conoscenza di questo patrimonio culturale del Meridione d’Italia non solamente per la parte audio ma anche, e aggiungerei soprattutto, per il carattere allo stesso tempo scientifico e divulgativo degli scritti di Maurizio Agamennone che accompagnano l’ascoltatore in questo viaggio alle origini della musica salentina. Laddove però (nel CD Rounder) le liner notes erano il corollario, seppur chiaro, alle tracce audio, in questo volume rappresentano un importantissimo valore aggiunto; Agamennone si fa quasi “Caronte” in questo viaggio e mi sembra di essere lì, nell’assolata estate del ’54 assieme ad Alan Lomax e Diego Carpitella a girare le masserie, i villaggi, le feste popolare a contatto con uomini, donne e bambini viaggiando su un pulmino cercando di mettere il più possibile a loro agio i portatori persuadendoli a raccontare, e quindi registrare le loro testimonianze. Un volume preziosissimo, come gli altri della collana, un patrimonio svelato finalmente nella sua completezza e nel suo misterioso fascino.

 

SUONI RIEMERSI: SEAN O’RIADA “Ó Riada Sa Gaiety”

SUONI RIEMERSI: SEAN O’RIADA “Ó Riada Sa Gaiety”

SEAN O’RIADA Ó Riada Sa Gaiety

GAEL INN, LP, 1969. CD 1988

di Alessandro Nobis

Se c’è una figura cardine nella storia della musica irlandese del ‘900 che ha lasciato un’impronta indelebile nello studio e nella riscoperta della tradizione, questa è senz’altro Sean O’Riada; nato a Cork nel 1931 e prematuramente scomparso nel 1971 a soli quarant’anni, negli anni Sessanta del XX° secolo con il suo lavoro di musicista, compositore, arrangiatore e ricercatore ha posto le basi di tutto il fenomeno del folk revival irlandese che da allora ha regalato ai cultori ed agli appassionati di tutto il mondo musiche, gruppi, musicisti che di generazione in generazioni portano avanti con frutti quasi sempre eccellenti questo patrimonio dal valore incommensurabile.6334884.jpg

Questo “Ó Riada Sa Gaiety”, registrato al Gaiety Theatre di Dublino nel 1969 e che contiene brani dalle tradizioni di molte delle Contee irlandesi, è la sua ultima registrazione, nella quale è accompagnato dal Ceòltori Chualann, con numerosi membri dei già allora conosciutissimi Chieftains che a quel tempo avevano da poco pubblicato il loro secondo lavoro, “2”, e che sono stati i prosecutori dell’opera del Ceoltori distinguendosi da tutti gli altri gruppi per l’assenza nella line-up di cordofoni, fatta eccezione naturalmente per l’arpa. Qui Sean O’Riada (clavicembalo) è accompagnato da Paddy Moloney (uillean pipes), Michael Turbridy (flauto), Peadar Mercier (bodhran), Martin Fay, Sean O’Ceallaigh e Sean O’Cathain ai violini, Sean O’Se alla voce, Sean Potts (tin wisthle) e Eamon de Buitlear (fisarmonica) ed il repertorio contiene alcuni brani che possono essere considerati dei veri standard della tradizione irlandese: tra gli altri “Women of Ireland” (utilizzata poi da Stanley Kubrick per la colonna sonora di Barry Lyndon), “Carrickfergus” e “South Wind”.

Indispensabile, direi. Recentemente ristampato con alcuni brani che non erano stati inseriti nel disco originale.