DALLA PICCIONAIA: BREANZA – ZANCHI Duo al Cohen, Verona. 24 aprile 2017

DALLA PICCIONAIA: BREANZA – ZANCHI Duo al Cohen, Verona. 24 aprile 2017

DALLA PICCIONAIA: 24 aprile 2017 BREANZA ZANCHI duo. Verona, Cohen.

di alessandro nobis

E così finalmente è andata in scena al Cohen di Verona la prima delle serate dedicate alla musica afroamericana, la prima di una serie che mi auguro assieme agli appassionati di jazz sia lunga e stimolante. Tutto ha funzionato bene, direi: pubblico numeroso ed attento che ha gradito molto la proposta, musica suonata in acustico, tutto perfetto, una di quelle “ciambelle riuscite con il buco” delle quali il locale di Elena Castagnoli – visto anche il livello della performance dedicata ad Allen Ginsberg, “roba” per palati fini – sembra conservare lo stampo. C’erano sul palco il chitarrista Enrico Breanza ed il contrabbassista Attilio Zanchi, due che non si trovavano lì insieme per caso, ma che da qualche tempo hanno instaurato una fattiva collaborazione – la serata dell’estate scorsa in trio con Andrea Oboe (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/09/06/dalla-piccionaia-enrico-breanza-trio-j-j-c-30-agosto-2016/)  e quella con il Soundful Quintet alla Fontana ai Ciliegi (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/02/07/dalla-piccionaia-soundful-quintet/) me lo aveva confermato –  che spero prima o poi dia i suoi frutti con la pubblicazione di un ellepì.IMG_2184

Il duo chitarra – contrabbasso rappresenta forse il jazz più essenziale, pochi si sono cimentati in questo abbinamento, ma mi è parso che il duo – questo duo sentito a Verona – funzioni al meglio; vuoi per la già conosciuta preparazione di primo livello, per l’esperienza personale, vuoi per l’essere sempre al servizio uno dell’altro, per l’”interplay” come dicono i giornalisti specializzati. E naturalmente il repertorio ha pescato nello sterminato repertorio del jazz più classico, dove la melodia gioca un ruolo essenziale e lascia poi ricavare ai musicisti il proprio spazio per inventare, per assecondare, per “giocare” con questo meraviglioso idioma musicale che è il jazz. Ecco quindi la davisiana “Blue in Green” (scritta con il fondamentale apporto di Bill Evans), la shorteriana “Footprints” (altro cavallo di battaglia dei gruppi di Davis con quella frase ripetuta al contrabbasso che la rende immediatamente riconoscibile), l’ellingtoniana “Things aint’t what they used to be”, “You don’t know what love is” (standard anni ’30 cantato anche dalla divina Billie Holiday) ed una interessante quanto bella intepretazione di “Norwegian Wood” del songbook beatlesiano. E poi un paio di originali, “PSN” e “Primavera” di Enrico Breanza. Bella serata. Prossimo appuntamento con jazz al Cohen sarà venerdì 5 maggio con il trio TERRENI KAPPA (Pighi – Crispino – Zantedeschi).

 

 

 

 

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RACHELE COLOMBO “Cantar Venezia. Canzoni da battello”

RACHELE COLOMBO “Cantar Venezia. Canzoni da battello”

RACHELE COLOMBO “Cantar Venezia. Canzoni da battello”

NOTA RECORDS, 2cd 2016

di Alessandro Nobis

Nello splendore culturale settecentesco della Città di Venezia, le cosiddette “Canzoni da battello” (o “Venetian Ballads” come erano conosciute a Londra) reppresentarono – anche in termini di popolarità – un fenomeno davvero interessante, quasi da considerare canzoni “pop” del tempo.Copertina fronte CANTAR VENEZIA

Rachele Colombo, veneta di Vicenza, ricercatrice e con un passato nei Calicanto e poi con Archedora assieme a Corrado Corradi, ha pubblicato nel duemilasedici per l’udinese Nota Records questo importante lavoro – due cd ed un esauriente libretto con spartiti e succulente note illustrative – dedicato appunto al repertorio delle canzoni da battello, scegliendone quaranta sulle circa cinquecento (500) esistenti. Lo fa nella migliore delle modalità, ovvero facendo fare un balzo di tre secoli a questo straordinario repertorio, con arrangiamenti essenziali, delicati e curatissimi: oltre al violoncello di Domenico Santianello ci sono tutte le pennellate di Rachele ora alla chitarra battente ed alla mandola, ora ai tamburi a cornice ed al cembalo oltre naturalmente alla sua ben conosciuta e sempre apprezzata voce “popolare”, stavolta in perfetto veneziano, che ci aiuta a riportare il tutto a dove era nato, in mezzo alla gente, alla vita sociale di quel tempo (“per cantar ste canzonete / che i costuma, da batelo, / vu sé l’unica, credelo, / e giustizia ogn’un ve fa”).

A fianco delle 40 canzoni ci poi un preziosissimo libretto di oltre sessanta pagine con le trascrizioni curate da Guglielmo Pinna di testi e di spartiti, un chiaro invito ad altri musicisti a far rivivere nuovamente ed a divulgare questo tesoro.

E, se osservate il dipinto di Pietro Longhi “La polenta”, di spalle c’è ritratto un suonatore che forse sta cantando una delle canzoni da battello, accompagnando l’inserviente che versa la polenta bollente nel piatto……………

http://www.nota.it

 

McCANDLESS TAYLOR BALDUCCI RABBIA “Evansiana”

McCANDLESS TAYLOR BALDUCCI RABBIA “Evansiana”

McCANDLESS TAYLOR BALDUCCI RABBIA “Evansiana”

DODICILUNE RECORDS Ed365, cd 2017

di Alessandro Nobis

Se c’è un pianista che meglio di altri ha saputo trarre insegnamenti dalla lezione di “Sua Santità” Bill Evans, questi è stato l’inglese di Manchester John Taylor, uno dei pianisti cardine della nascita del jazz inglese “moderno” con Keith Tippett, Howard Riley, Gordon Beck o Chris McGregor per citarne alcuni. Ebbene, dieci mesi prima di andarsene definitivamente quanto prematuramente – il 17 luglio del 2015, durante un concerto ad Angers, in Francia -, entrava in uno studio umbro per registrare quello che poi si rivelerà essere il suo definitivo omaggio al pianista di “Waltz for Debby”; lo faceva in compagnia di Paul McCandless  (sassofono soprano, oboe, clarinetto basso, conosciuto per il suo fondamentale contributo alla melodia del suono degli Oregon) e di una precisa ed affiatata ritmica tutta italiana costituita da Pierluigi Balducci al basso elettrico e Michele Rabbia alla batteria. Questo “Evansiana” è il risultato di questa session, dieci composizioni di cui sette tratte dal songbook del pianista americano e le rimanenti (“Same Other Time” di Bernstein, “Sweet Dulcimer Blue” di Kenny Wheeler e “Blue in Green” di Davis, quest’ultima contenuta naturalmente in uno dei capolavori del trombettista, “Kind of Blues” guarda caso con Evans al pianoforte……..… ma qui eseguita brillantemente dal basso elettrico di Balducci con un delicato accompagnamento della batteria) si inseriscono perfettamente nel progetto; un omaggio dovuto, sincero e mai calligrafico, suonato con il solito pathos da Taylor e da McCandless che qui trovano come detto una ritmica perfettamente a suo agio nel condurre i due in questo percorso. No so se questo quartetto abbia mai conosciuto anche una dimensione “live”, ma se questo fosse avvenuto qualcuno dovrebbe aprire i cassetti e tirar fuori i nastri ………..

Un disco che mi è piaciuto molto e che mi ha dato anche la possibilità di ricordare John Taylor, uomo dalla squisita gentilezza che ebbi il piacere di incontrare in occasione di un paio di concerti che gli avevo organizzato nel veronese.

 

 

MISSING IN ACTION: “HOWL” di Ginsberg questa sera al Cohen

MISSING IN ACTION: “HOWL” di Ginsberg questa sera al Cohen

OK. Verona, ieri sera 22 aprile Anno del Signore 2017, era apparentemente inondata di eventi culturali di grande spessore, e quindi ci poteva anche stare che il reading di “Urlo” di Allen Ginsberg – una delle pochissime volte in cui la poesia del poeta americano veniva letta nella sua integrità sin dalla sua pubblicazione – non abbia trovato spazio sulle pagine del quotidiano L’Arena. Tant’è che ho deciso di ospitare nel mio blog l’articolo che Beppe Montresor aveva scritto per l’occasione. Un peccato andasse perduto, vista la competenza e passione come le quali è stato scritto. Lo ringrazio infinitamente perché Montresor è persona di grande cultura e le vicende del Beat Americano le conosce benissimo. E non solo quelle. Non sarà questa l’unica volta che lo leggerete sul ildiapasonblog. Grazie ancora Beppe.

MISSING IN ACTION: “HOWL” di Ginsberg questa sera al Cohen di Verona

di Beppe Montresor

Vent’anni fa se n’è andato (affettuosamente assistito da vari amici, e in particolare da Patti Smith) Allen Ginsberg, se non il più grande certamente il più popolare poeta americano del ventesimo secolo. Sabato 22 aprile alle 21 verrà celebrato da Mauro Dal Fior (voce recitante) insieme a due maestri della musica improvvisata, Teo Ederle e Roberto Zorzi (chitarre, basso, electronics ed effetti speciali). Dal Fior, per la prima volta a Verona, proporrà sotto forma di “poesia sonora” (cioè non reciterà ma ‘suonerà’ il poema) il testo quasi integrale di “Urlo”, nella traduzione di Fernanda Pivano( per omaggiare anche lei, che nel 2017 compirebbe 100 anni). Seguendo la lezione di Futuristi e Dadaisti in cui il significante della parole diventa protagonista più del significato, in dinamico contrappunto alle sonorità create da Zorzi ed Ederle, in cui rimembranze blues e schegge elettroniche fluiscono senza soluzione di continuità. La poesia ad “alta voce” di Ginsberg, per eccellenza ‘bardo’ della cultura underground ad ampio respiro dell’America novecentesca, è sempre andata a braccetto con la musica. Basti ricordare le sue performance all’harmonium, le sue collaborazioni con Bob Dylan, Clash, Patti Smith, Bono, Beatles, Sonic Youth, con Philip Glass. Ci permettiamo qui un ricordo personale: avevamo incontrato per la prima volta Ginsberg, nell’agosto 1989, al Bottom Line di New York, ad un concerto dei ‘leggendari’ Fugs di Tuli Kupferberg ed Ed Sanders, “rivoluzionari pacifici” della ‘controcultura’ Usa anni ’60. In un’altra occasione, un paio d’anni prima della scomparsa, riascoltammo Allen dal vivo a Boulder, Colorado, in un reading cui partecipava, tra gli altri, il rocker/poeta/narratore newyorkese Jim Carroll.  Ingresso al Cohen a 10 euro inclusa consumazione, per chi vuole cena (dalle 20,30) e concerto a 15 euro su prenotazione al 347/3234011.

IL DIAPASON INTERVISTA ENRICO BREANZA

IL DIAPASON INTERVISTA ENRICO BREANZA

IL DIAPASON INTERVISTA ENRICO BREANZA

Raccolta da Alessandro Nobis

Lunedì 24 aprile alle 21, al Cohen di Verona (www.cohenverona.it) da pochissimo inaugurato si terrà il primo di una serie, speriamo lunga, si appuntamenti con il jazz. In questa prima occasione saliranno sul palco del locale di Via Scarsellini il chitarrista Enrico Breanza ed il contrabbassista Attilio Zanchi, prestigiosissimo musicista, compositore e didatta che ricordiamo già con Franco D’Andrea e Paolo Fresu, giusto per fare due nomi. Un abbinamento di strumenti che nella storia del jazz, pur non essendo tanto praticata, ha avuto eccellenti precedenti; ricordo qui Ralph Towner con Gary Peacock (o Glenn Moore), Pat Metheny con Charlie Haden, Jim Hall con Ron Carter (o ancora Haden). Mi sembrava quindi la giusta occasione per fare due chiacchiere con Enrico Breanza, visto che tra l’altro venerdì 12 maggio, sempre al Cohen, si presenterà con una formazione tutta diversa, con Maria Vicentini al violino e Paola Zannoni al contrabbasso.

  • Con Attilio Zanchi lei ha già collaborato nel recente passato, ricordo un bel concerto in Valpolicella con il batterista Andrea Oboe in trio appunto. Qual è l’approccio al jazz per un chitarrista rispetto alla presenza o meno di un batterista in formazione? Voglio dire, c’è maggiore libertà, maggiore interplay, più difficoltà nell’arrangiare i brani?

La formula del trio nel Jazz ha un suo funzionamento ormai classico e mi interessa molto praticarla. In questo caso specifico però mi concentrerò anche sui “vuoti” (ritmici in questo caso) che l’assenza di un batterista lascia. Il ritmo diventa giocoforza più implicito e aumenta il grado di astrazione della musica. In questo modo diventa obbligatorio anche il dialogo con i vuoti, pause e silenzi, attese.

  • Attilio Zanchi ha un fulgido passato ed è uno dei più richiesti contrabbassisti in circolazione. Quando ha avuto l’occasione di contattarlo e quali sono le sue doti di musicista che più apprezza?

La nostra collaborazione è nata inizialmente da un dialogo “epistolare”. E’ un musicista che stimo profondamente e apprezzo il suo lavoro da quando ero adolescente, amo in particolare la sua connessione tra tradizione e sperimentazione.  Qualche anno fa gli chiesi se era disponibile ad ascoltare le mie composizioni per un eventuale progetto comune. Attilio apprezzò il mio lavoro e fu disponibile ad iniziare un percorso assieme. Ho scoperto così un musicista straordinariamente aperto, solido e avventuroso allo stesso tempo.

  • Il repertorio che eseguirete a Verona come sarà composto? Originali o riletture di standard come in occasione del concerto in trio del quale accennavo prima?

Eseguiremo composizioni originali e riletture di brani provenienti dall’area non solo jazzistica. La scelta dei brani è caduta su quelli che valorizzano al massimo il rapporto chitarra – contrabbasso. Ho scelto musica che amo senza pormi più di tanto il problema di una continuità filologica. Sono improvvisazione e l’Interplay a connettere i brani del programma.

  • Pensa che questa collaborazione, intendo in duo, avrà qualche sviluppo “discografico”?

Me lo auguro e ci sto lavorando. Immagino una produzione per trio.

  • Venerdì 12 maggio si presenterà al Cohen invece con un trio più cameristico, se guardiamo la tipologia dei tre strumenti (chitarra, violino e violoncello); Paola Zannoni e Maria Vicentini sono due eccellenti strumentiste, con in più la capacità di adattarsi ai più vari repertori dando sempre un gran contributo in termini di suono e anche di interplay: quale sarà il repertorio che presenterete in questa situazione?

In quell’occasione presenteremo miei brani originali, arrangiati in chiave decisamente molto “classica”, ma con ampi spazi per l’improvvisazione. In questo programma la ricerca è anche quella del suono prodotto dall’elemento naturale del legno. Suono acustico e biologico.

CHRISTY MOORE “AT THE POINT LIVE”

CHRISTY  MOORE “AT THE POINT LIVE”

CHRISTY  MOORE “AT THE POINT LIVE”

COLUMBIA RECORDS  CD 1994, LP 2017

di Alessandro Nobis

Ci sono voluti la bellezza di ventitrè anni ed un Record Store Day per vedere pubblicato in vinile questo album del folksinger irlandese Christy Moore, venerato in patria e non solo per il fondamentale ruolo che ha ricoperto e che ricopre di ricercatore, divulgatore, autore ed interprete della tradizione musicale d’Irlanda. Del suo esordio discografico vi ho narrato (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/06/17/christy-moore-paddy-on-the-road/) così come della sua ultima fatica (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/10/06/christy-moore-lily/): questo “At the Point Live”, annata ’94, è stato registrato nella prestigiosa Venue dublinese che purtroppo chiuse i battenti nel 2007. Cinquantasei minuti – credo quindi che il cd non contenga tutta la performance di Moore – che dipingono un quadro preciso della storia di musicista: dalle bella interpretazione d’ “Fairytale of new York” di Shane McGowan a “Nancy Spain” di Barney Rushe dedicata alla giornalista inglese fino al tradizionale “Black is the colour”. Non mancano neppure il richiamo ai Planxty con “The Cliffs of Doneen” e “The Well Below the Valley” ed alcune tra le ballate più importanti che il Moore della Contea di Kildare ha intepretato nei decenni: “Ride On” di Johnny McCarthy, e “Go, Move, Swift” di Kirsty McColl tra le altre.

Chi ha avuto la fortuna di assistere ad una performance di Christy Moore, ed io l’avuta capitando casualmente a Galway una trentina di anni fa dove tenne un concerto in una sala di un hotel, sa a cosa mi riferisco quando parlo di forte personalità, grandissimo carisma, profondissima conoscenza e rispetto verso le radici oltre ad un pathos interpretativo davvero raro.

Disco importante, come del resto tutta la sua discografia. Lunga vita, Mr. Moore di Newbridge, Co. Kildare. E pensare che nella sua precedente vita faceva il bancario…………

 

 

 

 

 

SANDRO VOLTA “Marco Dall’Aquila: La battaglia, Music for lute volume 2”

SANDRO VOLTA “Marco Dall’Aquila: La battaglia, Music for lute volume 2”

SANDRO VOLTA “Marco Dall’Aquila: La battaglia, Music for lute volume 2”

BRILLIANT CLASSIC RECORDS, CD, 2016

di Alessandro Nobis

Bizzarra storia quella di Marco Dall’Aquila: parte giovanissimo dall’Abruzzo per raggiungere Venezia e stabilirvisi con l’obiettivo di riuscire a campare della stampa e della vendita delle sue composizioni per liuto. Non ci riesce, solamente nel 1505 ottiene che nessun altro possa commerciare le sue composizioni al di fuori della laguna: ma alcune di esse grazie al Console Pandolfo Herwarth vengono vendute – o scambiate non ci è dato a sapere – e prendono il mare dal Fondaco dei Tedeschi a Venezia per la terra dei Teutoni, finendo dopo chissà quali peripezie alla Biblioteca Statale di Monaco di Baviera, ove sono conservate tuttora nei Manoscritti di Herwarth, appunto. Marco Dall’Aquila vive a cavallo dell’anno 1500, anno che vide uno sviluppo importante nella morfologia del suo strumento, che passa da cinque a sei cori di corde e che inizia ad essere suonato pizzicando le corde anziché con un plettro (l’oud invece conserverà questa metodologia esecutiva fino ad oggi), aumentando così le possibilità polifoniche e dando ancor più all’esecutore la gioia di esprimere tutto il suo virtuosismo.

Il liutista e studioso Sandro Volta, che aveva già inciso un paio di anni fa un CD con l’esecuzione di 21 composizioni di Dall’Aquila, con questo secondo volume consente brillantemente all’ascoltatore di ampliare la sua conoscenza del repertorio di questo autore eseguendo altre 20 scritture, due delle quali interpretate in coppia con un altro specialista dello strumento, Fabio Refrigeri. E’ questa musica dal grandissimo fascino e l’esecuzione ancora una volta dà piena e chiara luce e doveroso risalto al lavoro che mezzo millennio or sono aveva così grandemente ma sfortunatamente impegnato il talento del compositore di origine abruzzese, ancor più perché quel che posso dire, i suoi spartiti non hanno mai goduto di così ampio spazio come in questi due dischi di Sandro Volta (Christopher Wilson ne aveva incise nove nel 1994, tre le aveva registrate Shirley Rumsey l’anno precedente, ed entrambi erano lavori antologici dedicati dalla Naxos al Rinascimento Italiano).

La cosa si fa ancora più interessante visto che l’etichetta Brilliant Records propone al pubblico il suo catalogo ad un prezzo davvero interessante, intorno ai 7 (sette) euro. Quindi perché non approfittarne per conoscere il Marco Dall’Aquila?

 

http://www.brilliantclassics.com

 

 

 

 


 

FEDERICO MOSCONI “Colonne di fumo”

FEDERICO MOSCONI “Colonne di fumo”

FEDERICO MOSCONI “Colonne di fumo”

KRYSALISOUND RECORDS, CD, 2017

di Alessandro Nobis

Ecco un disco del quale mi risulta davvero difficile parlare. Non perché non sia di mio gusto, anzi, “anzissimo”. “Colonne di fumo” è il nuovo recentissimo lavoro del chitarrista e compositore Federico Mosconi, che segue “Acquatinta” del 2014 e “The Soundtrack” (disponibile solo in formato digitale, era la colonna sonora del documentario “Cieli rossi Bassano in guerra” – https://ildiapasonblog.wordpress.com/2015/12/31/federico-mosconi-the-soundtrack/ – ) dell’anno successivo.

a1327601302_10Al di là dell’eleganza e raffinatezza del packaging, personalmente ho trovato questo disco veramente molto interessante e pieno di fascino; i brani sono di ampio respiro e composti con grande equilibrio e capacità, ed evidenziano la realizzazione di un progetto attraverso un meticoloso studio in fase di scrittura, realizzazione e produzione, e non credo di esagerare se lo definisco un “Obscure” apocrifo. Mosconi è chitarrista di solida preparazione classica con profondi interessi verso l’elettronica applicata alla musica, ed in questa direzione si muove in ambito discografico.

E’ musica ambient? E’ contemporanea? E’ elettronica? E’ proprio necessario a tutti costi trovare un’etichetta a questo idioma musicale?

Possiamo e dobbiamo una volta tanto evitare di etichettare questo linguaggio e concentrarci piuttosto nel suo ascolto dove ognuno potrà apprezzare il suono nel suo insieme personalizzandolo attraverso la propria fantasia. O semplicemente ascoltando le otto composizioni i cui titoli possono offrire spunti immaginiferi: “L’immagine riflessa”, l’ipnotica “Basso continuo con respiro” e la lunga “Il tempo regalato” sono le composizioni che più hanno catturato la mia immaginazione: indossate le cuffie, chiudete gli occhi e che il viaggio abbia inizio ………

http://www.krysalisound.com

 

 

MICHEL GODARD & IHAB RADWAN “Doux Dèsirs”

MICHEL GODARD & IHAB RADWAN “Doux Dèsirs”

MICHEL GODARD & IHAB RADWAN “Doux Dèsirs”

DODICILUNE RECORDS, CD ED362, 2017

di Alessandro Nobis

Ihab Radwan: egiziano, maestro del liuto arabo. Michel Godard: francese, maestro di tuba e soprattutto solista di serpentone, strumento a fiato che dal XVI° secolo si aggira, abbastanza bistrattato dagli specialisti, nel mondo musicale occidentale. Un connubio, quello di serpent e oud, non nuovo alla musica di questi ultimi decenni; Godard aveva già collaborato con il liutista di scuola libanese Rabih Abou Khalil in “Songs for sad woman” del 2007 e “The Sultan’s pic nic” del 1994, ambedue prodotti dalla prestigiosa etichetta tedesca Enja, e quindi non ha avuto alcuna difficoltà ad affiancare il suono del suo strumento a quello del virtuoso Ihab Radwan, che con questo lavoro presenta la sua opera prima in veste solista.

Dodici composizioni originali oltremodo raffinate, affascinanti e convincenti che lasciano assoluta libertà di movimento ai due strumenti, in particolare al liuto arabo che nelle mani dell’egiziano Radwan trovano un altro superlativo interprete in grado di dare vita a quello che nell’antichità veniva definito come “Il sultano degli strumenti” e che secondo il mio modesto parere nelle esecuzioni in solo trova il massimo della sua espressività; quando Godard si esprime nei suoi efficacissimi e suadenti soli (“In The grotte” o in “Intro to Tenderness” per fare due esempi), il liuto si fa da parte ed accompagna il serpent, quando l’arpeggio dell’oud racconta “la sua Storia millenaria” in piena solitudine come in alcuni momenti di “Dahab” o accompagnato dal canto del solista come in “Malato d’amore”, la musica di questo “Doux Dèsirs” esplode ancor più in tutto il suo fascino.

 

 

MAKÁM ENSEMBLE “Közelitések / Approaches”

MAKÁM ENSEMBLE “Közelitések / Approaches”

MAKÁM ENSEMBLE “Közelitések / Approaches”

HUNGAROTON DISCHI SLPX 18146, LP 1988

di Alessandro Nobis

La prima volta degli ungheresi Makam in Italia fu grazie al circuito di Folkitalia, ed arrivarono preceduti dall’impegnativo appellativo di “Oregon dell’Est”. Avevano appena pubblicato questo ottimo album d’esordio – dopo i due precedenti in collaborazione con i Kolinda -, e la loro musica si staccava in modo nettissimo dalle numerose produzioni dell’etichetta di stato Hungaroton, un esempio per tutta l’Europa per l’attenzione, la cura e la dedizione alla produzione di gruppi che studiavano gli archivi e praticavano la ricerca sul campo, riproponendo le varie forme della tradizione musicale ungherese.

I Makam proponevano con questo disco un repertorio di composizioni originali del chitarrista mancino e leader Zoltan Krulik – che ancora dirige l’ensemble – che per farle eseguire aveva riunito attorno a sé musicisti con una grande preparazione tecnica e culturale realizzando un’alchimia di rara qualità per quei tempi, e che risulta ancora attuale e affascinante: strumenti e suoni ora più legati al jazz vicino ad altri appartenenti a culture balcaniche e del sub continente indiano: contrabbasso e chitarra, gadulka e kaval, tabla, tampura e sarangi, nay ed oboe.

E l’accostamento all’idea concettuale degli Oregon di Ralph Towner ci stava tutto, almeno per questo primo album: musica acustica di composizione fortemente influenzata dai suoni etnici per i Makam, musica acustica più influenzata dal jazz e dalla musica cameristica con forti sonorità etniche (le percussioni di Collin Walcott) per il gruppo americano. Punti di partenza diversi, risultato sonoro che andava ad inventare e quindi descrivere un mondo musicale nuovo.MAKAM_03

All’epoca il sestetto budapestino comprendeva oltre a Zoltan Krulik, Laszlo Bencze ak contrabbasso e percussioni, Endre Juhasz all’oboe, Peter Zsalai alle table e marimba, Szabolc Szoke al gadulka e sarangi, Balasz Thurnai al kava e marimba: “Approaches” è stato pubblicato anche in compact disc (con copertina però diversa). I Makam nel tempo hanno prodotto una discografia cospicua e Krulik ha saputo scegliere i musicisti più adatti ad interpretare le sue composizioni ed i suoi arrangiamenti. Il più recente lavoro del 2016 è “Szerelem”, di quasi impossibile reperibilità sul mercato italiano, bisogna avere una certa dose di pazienza – che io non ho avuto – e “smanettare” sulk web alla ricerca dei CD di questo gruppo, dal suono davvero originale, ungherese.

Questo loro album d’esordio è comunque da avere. Qualche filmato anche su YouTube.

La foto ritrae il gruppo nel loro secondo concerto veronese del 1992, in esclusiva italiana, per la rassegna “suoni in libertà” organizzata da Luciano Benini de “Il Posto Produzioni Zero”, nell’aula magna dell’università di Verona.  Bei tempi andati.

www.makam.hu