DALLA PICCIONAIA: Sid Griffin

DALLA PICCIONAIA: Sid Griffin

DALLA PICCIONAIA: SID GRIFFIN. COHEN, Verona 29 marzo 2017

di Alessandro Nobis, foto di Mauro Regis

Dream Syndacate. Green On Red. Long Ryders. Steve Wynn. Dan Stuart e Chris Cacavas. Sid Griffin. Del movimento  chiamato Paisley Underground – e ci metto anche a questo punto i Thin White Rope – nato in quel di Los Angeles negli Ottanta ed innamorato della psichedelia e del suono soprattutto dei Byrds e del Neil Young elettrico, ci restano una significativa discografia e soprattutto i talenti dei loro leader che hanno saputo sviluppare una carriera solistica di tutto rispetto senza tralasciare estemporanee “reunion” o la militanza parallela in nuove band.

A Verona, in un “house concert” al Cohen, locale in zona San Zeno dedicato alla musica di qualità che aprirà fra non molto, è arrivato Sid Griffin, leader dei decisamente indimenticati Long Ryders (la “y” al posto della “i” mi ricorda qualcosa ……..) per un attesissimo concerto solista. Ottanta minuti di musica, di racconti, di storielle di vita vissuta e naturalmente di canzoni che hanno soddisfatto le aspettative non solo dei fans dei Ryders: da front-man di una band di rock a vero e sincero storyteller, come i suoi colleghi citati in apertura, già visti e molto apprezzati a Verona.

Un concerto in cui Griffin ci ha raccontato un po’ la sua vita, traverso le canzoni e le narrazioni di episodi – alcuni grotteschi, altri divertenti – ai quali ha assistito, o ne è stato protagonista; il repertorio è stato inevitabilmente una descrizione della sua carriera artistica, dai tempi dei Long Ryders a quelli dei Coal Porters fino a quella solista. Da “I Want you bad” e la bellissima “Harriet’s Tubman gonna carry me home” riguardante la cosiddetta Underground Railroad, (un lungo e difficile percorso segreto e notturno che consentiva agli schiavi di attraversare gli States fino in Canada) tratte da “Two Fisted tales” a “Ivory Tower” del repertorio dei Ryders (scritta da Steve McCarthy), il bis del concerto, a “Circle bar” e “Ode to Bobby Gentry” (Roberta Streeker a.k.a. Bobby Gentry che perfino partecipò all’edizione del ’68 al Festival di Sanremo in coppia con Al Bano, ma che dopo un  disco d’oro si è ritirò lontano dallo show-biz) dal suo più recente lavoro (2014) “The trick is to breathe”, fino ad una brano dedicato ai Ramones facente parte del repertorio dei Coal Porters, “The Day Last Ramone Died” eseguita al mandolino.

Insomma gran bel concerto, un’altra occasione per riflettere ancora una volta sul fondamentale ruolo che la band di McGuinn, Clark & C. hanno avuto nello sviluppo della musica americana. Chiamarli ancora i Beatles americani mi sembra non solo riduttivo, ma anche offensivo, direi.

 

 

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PAOLA ARNESANO & VINCE ABBRACCIANTE “MPB!”

PAOLA ARNESANO & VINCE ABBRACCIANTE “MPB!”

PAOLA ARNESANO & VINCE ABBRACCIANTE “MPB!”

DODICILUNE DISCHI Ed366, CD 2017

di Alessandro Nobis

Quando la fisarmonica finisce nelle mani di musicisti come Gorni Kramer, Gianni Coscia, Thomas Sinigaglia o Fausto Beccalossi (i primi due per essere parte fondamentale del jazz italiano, i secondi per la loro vicinanza geografica ma soprattutto per la loro bravura) e naturalmente in quelle del pugliese Vince Abbracciante, si scrolla di dosso in un battibaleno tutti quei luoghi comuni che da decenni le sono stati appiccicati. Niente fiumi di note per esternare un virtuosismo fine a se stesso, ma invece grande meticolosità nella ricerca per la melodia, sempre esposta con grande gusto e raffinatezza.

Questi tredici brani che costituiscono “MPB!” (Musica Popolare Brasiliana”) ad esempio sono una tavolozza delle molteplici sfumature cromatiche della terra sudamericana e degli autori che l’hanno fatta conoscere ovunque e che hanno contribuito a contaminarla ed a fare in modo che contaminasse altri linguaggi musicali, come il jazz per esempio. Bastano la convincente, precisa e calibrata voce di Paola Arnesano e la straordinaria fisarmonica di Vince Abbracciante, non serve un’intera orchestra per raccontare le storie di Antonio Carlos Jobim, di Chico Buarque de Holanda o di Vinicius De Moraes e Milton Nascimento: bastano la passione, il rispetto verso questi autori e la voglia di mettersi in gioco che i due musicisti hanno “messo sul piatto” per la realizzazione di questo davvero ottimo lavoro.

Per ragione molto affettive comunque il brano che più mi è piaciuto è “O Sonho”, del – per me – fantastico Egberto Gismonti, un brano dei suoi inizi (1969, il disco era appunto  “O Sonho”) prima che catturasse l’attenzione di Herr Manfred Eicher. Il resto della storia di Gismonti lo sapete…………….

“Mi tocca” fare ancora una volta i complimenti alla Dodicilune, davvero. Fossi il direttore di un VeronaFake Jazz Festival li inviterei………..

 

www.dodicilune.it

 

 

 

BARABAN “Musa di pélle, pinfio di legno nero …….”

BARABAN “Musa di pélle, pinfio di legno nero …….”

BARABAN

“Musa di pélle, pinfio di legno nero …….”

MADAU DISCHI D-013, LP 1986

di Alessandro Nobis

Registrato nel marzo del 1984 e pubblicato due anni dopo dall’importante etichetta Madau, questo ottimo ellepì rappresenta l’esordio per i Barabàn, ensemble lombardo formatosi all’inizio degli anni ottanta con l’intento di esplorare, ricercare e riportare alla luce i repertori del folklore della loro area di provenienza; un approccio alla tradizione che all’epoca seguivano di fatto tutti i musicisti interessati alla cultura popolare ed alla sua nuova divulgazione. In particolare le aree oggetto del lavoro sono il milanese occidentale, il basso pavese e due aree del bresciano, quella a sud e quella compresa tra le province appunto di Brescia e di Sondrio.

Ecco che quindi, come si conviene, il repertorio presentato è una sorta di piccolo compendio alla tradizione lombarda – e nord italiana -: canti narrativi, rituali, ninne nanne con una particolare attenzione verso le danze tradizionali come lo Stranot, la Manfrina, la Curenta, il Sotis ed ancora la Moferrina e la Giga, presentate anche con dovizia di particolari nel curatissimo libretto che accompagnava l’ellepì, che iniziava con questa dichiarazione di intenti, rispettata in pieno visto che il gruppo è fortunatamente ancora in attività: “Evitando ambigue operazioni commerciali all’insegna de folklorismo e rifuggendo da nostalgici interventi tesi a recuperare un’oleografia e utopistica civiltà contadina ……..………. il gruppo, con rigorose metodologie di ricerca e scrupoloso impegno scientifico, lavora allo scopo di documentare e diffondere la conoscenza dei modi comunicativi delle classi subalterne lombarde, con particolare attenzione alla loro cultura musicale.

Al tempo di queste registrazioni, dei Barabàn facevano parte Vincenzo Caglioti, Placida Staro, Guido Montaldo. Giuliano Grasso e Aurelio Citelli. Disco e gruppo tra i più importanti di quegli anni così significativi per la riscoperta della cultura popolare italiana.

ROSARIO BONACCORSO “A Beautiful Story”

ROSARIO BONACCORSO “A Beautiful Story”

ROSARIO BONACCORSO “A Beautiful Story”

VENETOJAZZ RECORDS, CD 2017

di Alessandro Nobis

In un secolo di storia il jazz ha coinvolto musicisti di ogni dove diventando un linguaggio universale, assorbendo e metabolizzando strumenti e suoni provenienti da tutte le parti del mondo e generando ramificazioni che pur avendo oramai grandi lontananze, hanno una radice comune.

Molti hanno scelto di rimanere nel flusso del cosiddetto “mainstream”, e tra questi ci sono anche i quattro musicisti italiani che hanno preso parte a queste registrazioni ovvero Rosario Bonaccorso al contrabbasso, Dino Rubino al flugelhorn, Enrico Zanisi al piano e Alessandro Paternesi alla batteria che con questo “A beautiful story” consegnano al jazz dodici composizioni scritte da Bonaccorso.

Jazz di prima classe, vellutato, mai scontato e profondo, da ascoltare magari la notte in un jazz club prestigioso, jazz che sotto la superficie si rivela di ottima fattura, eseguito in modo esemplare con un livello di interplay davvero notevole e con una cura certosina per il lirismo, come si ascolta in tutti gli interventi del flicorno e del pianoforte: “Freddie” (una dedica a Hubbard?), le ballads “Come l’acqua tra le dita” con un bel fraseggio di pianoforte e la melodia dettata dal flicorno, “Der Walfish” con un solo di Enrico Zanisi, la lunga ed introspettiva “Minus One” sono gli episodi che più mi sono piaciuti e che ho riascoltato più volte.

Un bel quartetto, con un repertorio decisamente affascinante e raffinato; merito certamente del compositore ma anche dei suoi tre compagni di viaggio che danno un contributo sostanziale alla riuscita di questo bel lavoro, uno dei più piacevole esempi di jazz mainstream ascoltati negli ultimi mesi. Almeno da chi scrive.

 

www.viavenetojazz.it

www.jandomusic.com

 

 

ADRIANO CLEMENTE “Havana Blue”

ADRIANO CLEMENTE “Havana Blue”

ADRIANO CLEMENTE “Havana Blue”

DODICILUNE / FONOSFERE FNF 111 RECORDS, CD 2017

di Alessandro Nobis

Dopo aver dedicato a Charlie Mingus il suo precedente lavoro del quale vi avevo a suo tempo parlato (https://wordpress.com/posts/ildiapasonblog.wordpress.com?s=clemente), il compositore leccese Adriano Clemente rende questa volta omaggio all’isola di Cuba ed alla sua straordinaria ricchezza musica componendo nove brani ed arrangiandoli per la versione cubana dell’Akashmani Ensemble, stavolta formato da Santiago Ceballos (tromba), Heikel Trimiño (trombone), Yuniet Lombida e Victor Guzman (sax alto/baritono), Emir Santa Cruz (sax tenore e clarinetto), Leyanis Valdès (piano), Yandy Martinez (contrabbasso), Augusto Lage, Lennon Ruiz, e Adel Rodriguez (percussioni). clemente cubaUn “modus operandi” che fa onore al jazz italiano e che se da un lato evidenzia ancora una volta la qualità della scrittura, dall’altro rende omaggio al pianista Bebo Valdes (scomparso nel 2013), uno dei più significativi pianisti ed autori cubani; e se Ry Cooder aveva scelto di andare a ripescare musicisti culturalmente obnubilati al di fuori dell’isola realizzando quel capolavoro che è “Buena Vista Social Club”, Adriano Clemente tramite la nipote di Bebo Valdes, Leyanis, pianista e co-leader di un’orchestra con il fratello Jessie è entrato in contatto con i suoi strumentisti ai quali ha cucito addosso – ed il vestito, come si dice, “sta a pennello” – queste sue composizioni. I ventisei minuti della scoppiettante suite in 4 movimenti “Latin Nostalgia” sono esemplificativi del valore culturale del disco, musica cubana di gran qualità e fascino combinata con quella afroamericana; le meravigliose coloriture dalla tavolozza delle percussioni, i significativi assoli di pianoforte di Leyanis Valdès e quelli del trombonista Heikel Trimiño sparsi qua e là sono i alcuni dei momenti che più mi hanno “preso”. Ma tutta l’orchestra ha un impatto sonoro che è una meraviglia di sincronismi davvero, e quando l’ascolti ti fa sperare di vederla in Italia su un prestigioso palcoscenico di qualche Jazz Festival; e ancora complimenti al compositore che è riuscito a far suonare al meglio ad un’orchestra cubana musica composta da un non-cubano. Impresa credo non semplicissima…………..

 

GABRIEL DELTA BAND “Hobo”

GABRIEL DELTA BAND “Hobo”

GABRIEL DELTA BAND “Hobo”

ULTRA SOUND RECORDS, CD 2017

di Alessandro Nobis

l-fileGFresco di stampa – è stato presentato alla stampa pochi giorni fa -, questo “Hobo” del chitarrista, cantante e compositore di origine argentina Gabriel Delta è un altro tassello alla sua discografia ed al catalogo delle produzioni dell’associazione A-Z Blues in Italy, che come si può facilmente intuire si è data come missione quella di promuovere i musicisti italiani – o comunque qui residenti– che gravitano nell’area della musica del diavolo.

Mi piace questo lavoro di Gabriel Delta, lo trovo vero e vario sia nella composizione che nella scelta degli strumenti usati, nell’equilibrio tra il blues e la musica di confine (tra l’angloamerica e quella ispanica) ed anche gli immancabili omaggi sono eseguiti in modo non pedissequo, come la versione rockeggiante di “Little Red Rooster” (impavido il Delta vista la concorrenza delle interpretazioni di questo classico di Willie Dixon) e “Soulshine” scritta da Warren Haynes per la reincarnazione degli ABB dei Novanta. E, piuttosto di cercare i fraseggi imparati studiando quelli che vengono chiamati i maestri di Gabriel Delta (B.B., Freddie ed Albert, indovinate voi il cognome) preferisco di gran lunga raccontarvi della ballata semiacustica “Hobo” con lo slide che ruggisce e che racconta degli immigrati, gli hobos dei nostri giorni, del latin blues di “Duerme negrito” (“dormi tranquillo piccolo che la tua mamma lavora del campo per te”) e il sofisticato finger picking acustico di “Newen” che chiude l’album con un significativo “solo” di elettrica; con Gabriel Delta suonano Daniele Mignone al basso, Carlo Belotti alla batteria e Gianni Cotta alla chitarra, ottima band davvero.

E se vi capiterà di passare per l’unico diner di Cornudas, in pieno Llano Estacado texano, non dimenticate di rifornirvi di benzina (l’unico nel raggio di cento miglia) e di green chili: pochi minuti di attesa e quando gli effetti del chili si faranno sentire, vi sembrerà di vedere in un angolo ombroso Gabriel Delta che vi suona “Hobo”………………

http://www.gabrieldelta.com

booking@gabrieldeltaband

Ben fatto.

 

ZENO DE ROSSI “Zenophilia”

ZENO DE ROSSI “Zenophilia”

ZENO DE ROSSI  “Zenophilia”

AUAND / EL GALLO ROJO RECORDS, CD 2017

di Alessandro Nobis

Nell’idea di questo trio c’è tutto l’azzardo, la curiosità e la voglia di sperimentazione che ha da sempre contraddistinto la musica del compositore e batterista Zeno De Rossi, impegnato in progetti sempre stuzzicanti come leader ed importanti come musicista “prescelto” ad esempio da Franco D’Andrea. Zenophilia presenta una line-up raramente utilizzata: la batteria del leader, il sax alto ed il flauto basso di Piero Bittolo Bon ed il trombone di Filippo Vignato, musicisti molto preparati che “stanno al gioco” improvvisando, dialogando e perché no anche divertendosi in una formazione senza la classica sezione ritmica alla quale gli amanti del jazz sono abituati.zenophilia

“Fa strano” non sentire vicino alla batteria un bel contrabbasso o un pianoforte, ma dopo pochi minuti di ascolto ti accorgi che i tre sanno riempire ogni spazio, e dimentichi un’apparente essenzialità gustandoti questo “Zenophilia” fino all’ultima nota, non a caso appartenente ad una composizione di uno dei “padri” del jazz moderno, Ornette Coleman (“Feet Music” incisa dal sassofonista texano nell’87 ed appartenente al repertorio dei Prime Time).

Tra le dodici tracce vi segnalo la suggestiva ballad di “Red Bird” dedicata all’indimenticato bassista Sergio Candotti con l’intro al flauto basso di Bittolo Bon ed un bel solo di Vignato, la rivisitazione del tema di Taxi Driver (composta da Bernard Hermann), ci sono l’incidere blues in stile marching band – quasi funeral band a-la New Orleans – di “Henry Zeno” e “The Mistery of Leaping Fish” (due composizioni che De Rossi scrisse per un suo gruppo, i Leaping Fish con Paolo Botti ed Enrico Terragnoli) e due dediche ai due batteristi che molto hanno influenzato il drumming di De Rossi, ovvero Ed Blackwell (“EBDdance”) e Joey Baron (“Cats”).

Un gran bel lavoro questo di Zeno De Rossi: ascoltatelo ed immergetevi nella musica di questo trio, chiudete gli occhi e – come detto prima – vi parrà di ascoltare un’intera orchestra. Sono i miracoli  – o gli scherzi – del jazz.

ADRIA “Ogni goccia”

ADRIA  “Ogni goccia”

ADRIA  “Ogni goccia” 

Autoproduzione, CD 2016

di Alessandro Nobis

Claudio Prima (organetto diatonico, composizione, voce), Emanuele Coluccia (sassofono), Francesco Pellizzari (Batteria) e Rachele Andrioli (voce) sono il quartetto “Adria” che alla fine del duemilasedici ha pubblicato questo suo nuovo lavoro, “Ogni goccia”. E’ un altro progetto – e ne ben vengano altri – che concettualmente e musicalmente si discosta dalle immagini “da cartolina” con la quale la musica popolare pugliese spesso ha ammaliato il grande pubblico, e testimonia la volontà comporre e di suonare musica di nuova composizione attraverso l’utilizzo di strumenti popolari come la voce e l’organetto vicino ad altri come il sax e la batteria che popolari non sono  guardando inoltre anche verso altri repertori che arrangiati nella maniera più opportuna si rivestono e brillano di nuova luce. Mi riferisco in particolare all’ispirata e rispettosa rivisitazione vocale di Rachele Andrioli di “Valsinha” di Chico Buarque De Holanda conosciuta in Italia per la bellissima interpretazione dell’indimenticata Mia Martini ed allo strumentale “Garrote” del tastierista compositore brasiliano Hermeto Pascoal (che ha vissuto una brevissima stagione anche con Miles Davis) con un arrangiamento che ci ricorda ancora una volta come il lavoro di Banditaliana di Riccardo Tesi sia stato importante in questi ultimi trent’anni di “nuova musica acustica” italiana. E poi ci sono le composizioni originali, tra le quali voglio segnalare l’introspettivo strumentale “Ahjourd’hui” e “Una Rosa” con una suggestiva intro di soprano ed organetto e l’espressiva e calibrata voce di Rachele Andrioli.

Musica che corre verso il futuro ma che guarda il passato, e non a caso “Ogni goccia” si conclude con l’unico tradizionale del repertorio, “Quanto me pari beddha te luntanu”. Naturalmente rivisto in “chiave” Adria.

 

 

 

 

LA CIAPA RUSA

LA CIAPA RUSA

LA CIAPA RUSA

“Ten da chent l’archët che la sunada l’è longa””

MADAU DISCHI D-08, LP 1982

di Alessandro Nobis

Faccio fatica a credere che sono passati 35 (trentacinque!) anni dalla pubblicazione di questa straordinaria prova d’esordio da parte de La Ciapa Rusa, gruppo monferrino che a lungo – e in largo – si occupò di ricercare e di rinverdire il repertorio popolare nascosto nelle vallate e nelle contrade del basso Piemonte. Al tempo “La Ciapa” era formata da Maurizio Martinotti (voce, ghironda, cianfornia), Beppe Greppi (organetto diatonico e voce), Lorenzo Boioli (piffero, ocarina, zufoli) e Maurizio Padovan (violino) con le prestigiose presenze anche di Elisabetta Zambruno, Donata Pinti e Alberto Cesa al canto, Ettore Losini e Giorgio Delmastro.

Il progetto parte dalla registrazioni sul campo effettuate soprattutto dagli stessi musicisti in contatto con gli “informatori” ed in seguito con l’elaborazione ed i curatissimi arrangiamenti del repertorio, costituito da canti rituali (“La questua delle uova”), narrativi (Re Gilardin”, “La bevanda sonnifera” e “Gentil Galant”, conosciuta dalle mie parti come “La tentazione”) e da temi per danza: Gighe, Courant, Mazurche, Monferrine.

Un panorama completo della musica popolare dell’Alessandrino suonato con grande brillantezza, raffinatezza e competenza se è vero, come è vero, che il quartetto rimane ancora oggi uno dei punti cardine per quanti sono interessati al recupero ed allo studio della tradizione musicale. Un lavoro d’esordio di grande qualità e bellezza perfettamente in linea con quanto accadeva al tempo oltralpe e oltremanica in ambito folk dove La Ciapa Rusa era molto considerata ed apprezzata; “Ten da Chent” contribuì inoltre a far alzare le antenne delle curiosità ai folkettari italiani alle prese con un autentica ubriacatura dell’allora chiamato folk angloscotoirlandese, e per questo ringrazio caldamente ancora Beppe Greppi, Maurizio Martinotti & C.

Il disco è accompagnato da un libretto che minuziosamente riporta testi, notizie su tutti i brani suonati, insomma un fondamentale compendio all’ellepì che si aggiudicò il Premio della critica discografica nel settore folk. Meritatissimo.

 

 

MASSIMO MORGANTI “ArrangiaMenti”

MASSIMO MORGANTI  “ArrangiaMenti”

MASSIMO MORGANTI  “ArrangiaMenti”

NOTAMI JAZZ RECORDS, CD 2017

di Alessandro NobisMASSIMO MORGANTI

Allora. Ho ascoltato “Mi(s)tango”, il primo brano di questo “ArrangiaMenti” e poi l’ho riascoltato e riascoltato e ho pensato, tra me e me (domanda che suona vagamente retorica): “Ma come è possibile che una cantante dalla tecnica diamantina e dalla straordinarie duttilità e comunicatività come Diana Torto non sia se non venerata ma almeno invitata dai maggiori festival jazz e dalle più prestigiose quanto sedicenti etichette “specializzate” internazionali?”. Insomma questo brano, scritto dalla Torto, è un brano che come qualcuno dice “spacca”, e la scelta di porlo all’inizio di questo ottimo lavoro del trombonista ed arrangiatore marchigiano Massimo Morganti è stata senza dubbio azzeccata, ti fa venir l’irrefrenabile desiderio di ascoltarlo da cima a fondo, senza perdersi una nota, dico una.

L’orchestra diretta da Morganti è composta da venticinque elementi, ai quali vanno aggiunti illustri ospiti: Diana Torto, il pianista William Cunliffe, il bassista Martin Wind, il batterista Jo La Barbera ed infine il sassofonista Scott Robinson, tutti autori di pregevolissimi “soli” nei dieci brani che costituiscono questo ribadisco ottimo “ArrangiaMenti”. Il repertorio, nonostante la presenza di brani alloctoni all’idioma musicale afroamericano, è reso omogeneo ed affascinante grazie agli arrangiamenti ed all’equilibrio del suono, una grande orchestra di archi, ance ed ottoni che interpreta oltre a scritture classiche del jazz come quelle di George Shearing, di Ira & George Gershwin e di Carl Fisher, brani che non ti aspetti da un’orchestra jazz come “I wish you love” di Charles Trenet e soprattutto “Lorea” (testo di Jean B. Larralde cantato in basco, scommessa vinta vista la difficoltà della lingua e con una bella parte di pianoforte) ed “Epitafio” (testo di Fernando Pessoa, con l’apertura del contrabbasso, un solo di Scott Robinson e la voce di Diana Torto – recitativo in italiano e canto in portoghese, e qui mi rifaccio a quanto detto rispetto alla sua duttilità), scritti dal compositore e chitarrista basco Balen Lopez De Munain, brani appartenenti al repertorio che presenta solitamente con la violista Luciana Elizondo.

Grande plauso al lavoro di Morganti, un lavoro che fa onore al jazz ed un altro segnale di come, nonostante tutto quello che “non succede”, il nostro panorama sia ben vivo e ricco di talenti. Si tratta “solo” di valorizzarlo come merita.

 

http://www.massimomorganti.com

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