SUONI RIEMERSI: BEPPE CASTELLANI 4et “Italian Standards vol. 1 & 2”

SUONI RIEMERSI: BEPPE CASTELLANI 4et “Italian Standards vol. 1 & 2”

SUONI RIEMERSI: BEPPE CASTELLANI 4et “Italian Standards vol. 1 & 2”

IL POSTO RECORDS, 1989, 1990. lp

di alessandro nobis

I due dischi realizzati per “Il Posto Records” a cavallo del 1990 dal quartetto guidato dal tenorista Beppe Castellani con Ares Tavolazzi al contrabbasso, Riccardo Biancoli alla batteria e Giorgio “Cigno” Signoretti alla chitarra sono tra i più significativi progetti nati a Verona in quegli anni ed uno dei primi a rendere finalmente omaggio ai brani di due grandi cantautori italiani come Luigi Tenco e Gino Paoli. A distanza di trent’anni il progetto “Italian Standars” mantiene inalterata la bellezza della musica, la scelta oculata della scaletta ed i preziosi arrangiamenti curati dalla coppia Castellani – Signoretti che lasciavano ampio spazio all’interplay tra i quattro strumenti ed anche all’esecuzioni di assoli sempre di ottima fattura e misurati. Ad esempio la splendida riproposizione del brano di Paoli “Gli innamorati sono sempre soli”: tema esposto dal tenore di Castellani con seguente lungo assolo che introduce quelli di Signoretti e di Tavolazzi e il tenore che chiude il cerchio. Oppure nella seguente struggente e pacata ballad “Mi sono innamorato di te” uno degli high-lights di “Italian Standards” a mio avviso per l’intensità che comunica. Jazz mainstream di eccellente fattura, suonato con grande perizia ed intelligenza che ha saputo translare gli spartiti di Paoli e Tenco nel mondo della musica afroamericana ad un livello inedito per quegli anni. Dispiace solamente che la diffusione di questi due lavori, a mio avviso due perle del jazz italiano, non sia stata al livello della qualità della musica ma, come si dice, “del senno di poi son piene le fosse”. Dispiace comunque.

Le evocative foto di copertina sono di Beppe Castellani, che negli ultimi anni si è dedicato alla fotografia artistica con ottimi risultati (https://beppecastellani.jimdofree.com).

Il progetto “Italian Standards” avrà un seguito nel 1992 con “A new page” pubblicato dalla Modern Times ed accreditato allo Stefano  Benini – Beppe Castellani Quintet con Piero Leveratto al contrabbasso ed il co-leader, Stefano Benini, al flauto traverso.

VOLUME 1: registrato nel maggio 1989.

Lato A

Gli innamorati sono sempre soli (G. P.)

Mi sono innamorato di te (L. T.)

Se sapessi come fai (L. T.)

Lato B

Senza fine (G. P.)

Un giorno dopo l’altro (L. T.)

Volume 2: registrato nel marzo 1990.

Lato A

Ragazzo mio (L. T.)

Tu non hai capito niente (L. T.)

Un uomo vivo (G. P.)

Vedrai vedrai (L. T.)

Ho capito che ti amo (L. T.)

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CRISTIANO POMANTE GROUP “Libero Pensatore”

CRISTIANO POMANTE GROUP “Libero Pensatore”

CRISTIANO POMANTE GROUP  “Libero Pensatore”

AUTOPRODUZIONE, 2020. CD

di alessandro nobis

La prima impressione che ho avuto ascoltando “Libero Pensatore” del compositore e vibrafonista Cristiano Pomante è la grande cantabilità dei temi ed il respiro “cinematografico” degli arrangiamenti preparati per questo “nonetto” che comprende un quartetto d’archi oltre a vibrafono, basso elettrico, pianoforte, chitarra e batteria.

“Cantabilità” è una parola che può trarre in inganno togliendo sostanza alla musica di Pomante, ma se pensiamo a certi lavori ad esempio quelli metheniani, tutto torna: si può suonare jazz con la ricerca della melodia perfetta, con un “respiro largo”, rilassato senza rinunciare agli assoli ben calibrati, all’interplay, ai riferimenti non propriamente legati all’idioma afroamericano – e qui le partiture preparate per il quartetto d’archi giocano un ruolo rilevante nel suono globale del disco offrendo sia un delicato e prezioso fondale agli altri strumenti come in “To Clara”, sia prendendosi la scena totalmente come negli incipit di “Fantasia” e di “Eyes of the sun” -. Naturalmente gli interventi al vibrafono di Pomante, strumento dalle enormi capacità espressive, emergono quasi ovunque ora prendendo il volo (il solo nel brano eponimo) ora dialogando con il pianoforte (“To Clara”, e “Gioco di Ombre”) o con la chitarra effettata (“The Art of Being Fragile”).

Ma al di là di quanto detto, il nonetto funziona alla perfezione ed l’abito che Cristiano Pomante gli ha cucito addosso calza alla perfezione: progetto piacevolissimo al primo ascolto ma che già al secondo penetra nel profondo ….. 

promo@coachkicks.com 

cristiano-pomante/home

THE CHIEFTAINS “4”

THE CHIEFTAINS “4”

THE CHIEFTAINS “4”

CLADDAGH RECORDS. LP, CD 1973

di alessandro nobis

Il quarto album degli irlandesi Chieftains è considerato una svolta nel suono e nella storia del gruppo, svolta dovuta all’ingresso dell’arpista Derek Bell con il suo bagaglio classico e con il suo straordinario talento che ha reso qualche modo più soffice il sound dei Chieftains che, lo ricordo, nell’ambito del folk revival irlandese si caratterizzava in quegli anni per la totale assenza degli strumenti a plettro prediligendo il suono del violino (Sean Keane e Martin Fay), delle uilleann pipes di Paddy Moloney, dei flauti (Sean Potts e Michael Turbridy) e delle percussioni di Peadar Mercier.

La copertina Italian del 45 giri “Woman of Ireland” con l’errore nel titolo.

Ascoltate per esempio lo standard “Carrickfergus” introdotto dalla maestosa arpa di Bell un arrangiamento cameristico e la linea melodica vocale è sostituita dall’arpa e dal violino o le composizioni attribuite a Turlogh O’Carolan “Morgan Magan” e “Sláinte Bhreagh Hiulit (Hewlett)”:è la magia del suono dei Chieftains che all’epoca soprese anche il regista Stanley Kubrick che per la colonna sonora del suo capolavoro “Barry Lyndon” scelse la slow air “Mná na hÉireann (Women of Ireland)”,scritta dal grande Sean O’Riada, perfetta per ambientare le vicende narrate nel film grazie alla sua potenza descrittiva e dal suo arrangiamento straordinario, uno dei (tanti) capolavori del gruppo irlandese che aumentò a far crescerne la popolarità.

La seconda facciata si apre con il dialogo tra il bodhran di Peadar Mercier e il tin whistle di Sean Potts che apre “The Mornig Dew” – uno dei cavalli di battaglia live del gruppo – e se cercate altri riferimenti ai maestri irlandesi delle precedenti generazioni ne trovate uno nel set di danze che chiude la facciata, quel “An Suisin Ban (The White Blanket)” che Moloney ascoltò dal violinista Junior Crehan ai funerali di Willie Clancy.

Il quarto ellepì dei Chieftains è considerato uno dei migliori della loro sterminata discografia assieme a “Bonaparte’s Retreat” ed appartiene alla prima fase artistica del gruppo nella quale l’attaccamento alle radici irlandesi era assoluto: poi iniziarono le collaborazioni con artisti “alloctoni” che diedero a Moloney & C. meritati visibilità e successo planetario. “Irish Heartbeat” con Val “The Man” Morrison pubblicato nel 1988 fu una straordinaria eccezione di quel periodo.

QUI UN ARTICOLO SUL PRIMO DISCO DEI CHIEFTAINS: https://ildiapasonblog.wordpress.com/2020/02/05/suoni-riemersi-the-chieftains/

LUDOVICO PERONI “Il sognatoio”

LUDOVICO PERONI “Il sognatoio”

LUDOVICO PERONI “Il sognatoio”

DA VINCI CLASSICS RECORDS, 2020. CD

di alessandro nobis

“Il Sognatoio” del compositore marchigiano Ludovico Peroni è un’opera ambiziosa che al di là della sapiente miscela di input musicali che descrivono la musica del Novecento, dal rock più raffinato al jazz passando per l’improvvisazione.l’elettronica e la musica contemporanea, regala all’ascoltatore l’occasione di apprezzare un’opera che affronta il tema della Shoah in modo profondo ed originale. Il “Sognatoio” è un luogo / non luogo, è ciò che si nasconde in una stanza di un lager nazista, stanza della quale non è lecito vedere l’interno senza avere la possibilità di uscirne, è una narrazione musicale – teatrale che immerge l’ascoltatore nell’orrore e nell’atrocità dei campi di concentramento, autentici “Torri di Babele” popolate da deportati da ogni dove, è una narrazione efficace, convincente e drammatica: le campane suonano in modo spettrale mentre la voce narra delle torture fatte subire dal personale “medico” dei campi in ”Intermezzo”, la voce hitleriana di “Nascondino con fiori” si mescola con le improvvisazioni “ironiche” – così le ho interpretate –  della chitarra, del clarinetto e delle percussioni, in “Sei la neve” la narrazione si sdoppia con la voce di Filippo Davoli che declama il suo poemetto e la musica che si sviluppa da un “fondale” elettronico ad uno più lirico con la chitarra e pianoforte protagonisti della seconda parte di questo significativo brano frammento dell’opera.

“Sognatoio”, per la sua concezione e la sua realizzazione, è come detto un’opera che va ascoltata nella sua interezza, e questo è il solo modo possibile per apprezzare veramente la sua profondità, il suo fascino e la sua bellezza ed alla sua realizzazione hanno dato il loro importante contributo i componenti della Quick Reponse Orchestra, ovvero Alessandro Bolsieri (sassofono), Francesco Briotti (tastiere), Federico Chiarofonte (percussioni), Riccardo Chinni (basso ed elettronica), Daniele Gherrino (chitarra9 e Josè Daniel Cirigliano, quest’ultimo protagonista del citato “Nascondino con fiori”.

In questi tempi di musica – e di parole – come queste, ne abbiamo davvero bisogno.

La partitura si è aggiudicata il premio “Teatro, Musica e Shoah” nel 2017.

(https://www.youtube.com/watch?v=tlFjNyUBcF4)

PIERLUIGI BALDUCCI “L’equilibrista”

PIERLUIGI BALDUCCI “L’equilibrista”

PIERLUIGI BALDUCCI “L’equilibrista”

DODICILUNE RECORDS, 2020. CD

di alessandro nobis

Quando un musicista decide di dedicare un lavoro ad un altro che sente particolarmente vicino solitamente lo fa interpretando o rivisitando le sue composizioni, e dedicare un intero disco al pianista inglese John Taylor, scomparso prematuramente nel 2015, può essere davvero rischioso vista la grandezza e l’importanza che Taylor ha avuto nello sviluppo del jazz europeo. Rispettosamente Pierluigi Balducci, che tra l’altro non è un pianista ma un valido bassista e compositore, percorre un’altra strada direi inevitabile per chi ha avuto modo di incontrare Taylor solamente per qualche ora come anche chi scrive ha avuto il piacere di farlo, quella affettiva; a John, uomo affabile, gentile e disponibile, a ricordo dei due anni di frequentazioni e collaborazioni con il pianista – su tutte “Evansiana” (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2017/04/25/mccandless-taylor-balducci-rabbia-evansiana/)– Balducci dedica “L’equilibrista”, sette sue composizioni suonate e vissute assieme al tenorista Robert Bonisolo, al chitarrista Fabrizio Savino ed al drummer Dario Congedo. Equilibrismo quindi tra le due anime della musica afroamericana, quella del rispetto dei temi scritti sul pentagramma e quella dell’improvvisazione idiomatica, equilibrio non facile da raggiungere ma che qui trova la sua realizzazione con una costante ricerca della melodia perfetta che si concretizza ad esempio in “Fino a prova contraria”, lunga ballad con il tema esposto dal sax tenore del sempre espressivo e misurato Robert Bonisolo e con gli assoli della chitarra di Savino e del basso elettrico, ed in “Kosmos and Chaos” – interessanti gli incroci sax – chitarra che introducono i soli di Balducci e di Savino -. Brani lunghi (mai sotto i sei minuti la loro durata) e di ampio respiro che lasciano il tempo e lo spazio per un dialogo tra gli strumenti senza vincoli di alcun tipo. Disco notevole, a mio avviso, un altro segnale del livello che il jazz italiano ha raggiunto negli ultimi anni: del resto, il catalogo della Dodicilune e di altre label italiche è lì a ricordarcelo.

www.dodicilune.it

SUONI RIEMERSI: ENSEMBLE ERIU “Stargazer”

SUONI RIEMERSI: ENSEMBLE ERIU “Stargazer”

ENSEMBLE ERIU “Stargazer”

DIATRIBE – RAELACH RECORDS, 2017. CD

di alessandro nobis

Affermare che la musica popolare irlandese è molto legata all’ortodossia interpretativa e che tuttalpiù i musicisti compongono nuovi brani nel totale rispetto dei secolari dettami della tradizione si compie un errore di valutazione ma soprattutto si tralascia di considerare quanti negli ultimi decenni hanno cercato nuovi sentieri: cito gli Scullion e i Tir Na Nog tra quelli della passata generazione, e tra i nuovi il duo Atlas con l’ottimo “Affinity”(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2017/01/19/atlas-affinity/), il duo An Tara (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2020/09/20/an-tara-faha-rain/), il progetto di Niall Vallely con il geniale ensemble irano-irlandese presentato al William Kennedy Piping Festival di Armagh nel 2019 (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2019/12/17/dalla-piccionaia-william-kennedy-piping-festival-2019-parte-2/) e questo straordinario ensemble Eriu che con il questo terzo album, pubblicato nel 2017 dall’etichetta Diatribe in collaborazione con la Raelach, conferma in modo ben chiaro una lungimirante visione caratterizzata da nuove modalità esecutive, da nuove sonorità e dalla vicinanza a certa musica del Novecento in particolare della corrente minimalista. “Stargazer” è una suite in sei movimenti composta da Jack Talty e Neil O’Loclainn su commissione di “The Model Arts Centre” di Sligo, e si ispira alle opere del pittore Jack Butler Yeats (1871 – 1957) nato a Londra ma che ha trascorse l’infanzia ed una lunga parte della sua vita in quel di Sligo.

Già la line-up del gruppo è un’inedita combinazione di strumenti tipici del folk irlandese con altri del tutto estranei ad esso con Neil O’ Loclainn (flauto e contrabbasso), Jack Talty (concertina), Jeremy Spenser (violino), Paddy Groenland (chitarra), Matthew Jacobson (batteria), Matthew Berrill (clarinetti) e Maeve O’Hara (marimba e vibrafono) e la costruzione di “Silvanus / Bowsie”, il brano che apre questo “Stargazer” definisce le coordinate attorno alle quali si muove questo progetto: il contrabbasso detta il ritmo raggiunto dalla marimba e dalla chitarra, un ritmo che prosegue quasi in ambiente minimalista e ad un certo punto lascia il campo al il violino ed  alla concertina che dettano la melodia di una danza popolare ma che riprende alla metà della traccia con cambio di ritmo e di melodia. Uno splendido e intrigante brano “a doppio strato” che a mio avviso identifica alla perfezione la musica di Eriu, che come detto, proietta la secolare tradizione irlandese in un futuro possibile. Ascoltate questo gruppo, ne rimarrete affascinati. 

SOSTIENE BORDIN: THE LOUNGE LIZARDS

SOSTIENE BORDIN: THE LOUNGE LIZARDS

SOSTIENE BORDIN: THE LOUNGE LIZARDS

“The Lounge Lizards”

EG RECORDS, LP. 1981

di cristiano bordin

Se c’è un gruppo che può dare l’idea della vitalità e dell’eclettismo della scena newyorkese degli anni ’80, quel gruppo potrebbe essere proprio i Lounge Lizards. 

E del resto basta fare subito i nomi dei 5 protagonisti dell’album di esordio, che porta laconicamente il nome della band, per potersi orientare: Arto Lindsay, John ed Evan Lurie, Steve Piccolo e Anton Fier. 

Arto Lindsay aveva già fatto un pezzo di storia della New York fine anni ’70: i Dna. Tra rumorismo, suoni abrasivi, strumenti percossi e brutalizzati più che suonati, urla lancinanti, quella che venne definita “no wave” fu un passo oltre il punk capace di produrre gruppi, personaggi- Lydia Lunch, ad esempio- e un album-manifesto come “No New York”. 

Quella stagione produsse anche una vera e propria avanguardia artistica che prediligeva luoghi malsani, marginali, pericolosi come erano il Lower East Side e la Bowery  dove c’era il CBGB’s, vero e proprio tempio per il punk della Grande Mela. 

John Lurie, l’altra anima della band, ricorda così quei luoghi e quel periodo: “New York oggi ha certamente perso qualcosa. Per esempio, non è più pericolosa come una volta. Male. Prima  dovevi essere un duro e  avere carattere per abitarci. Ora sembra un grande shopping mall per gente che si fa pagare l’affitto da papà e mamma“. 

E’ in questo contesto che nascono i Lounge Lizards.

Lindsay, dopo i Lizards, virò  verso il Brasile ed i suoi suoni senza però dimenticare le stagioni precedenti e producendo moltissimo. Anche Evan Lurie e Steve Piccolo, che finì per trasferirsi in Italia, proseguirono tra jazz e avanguardia, mentre Anton Fier lo ritroviamo dietro la batteria di un gruppo anticipatore e abbastanza dimenticato, i Feelies. 

L’album di esordio eponimo uscì nel 1981 e fu davvero un disco capace di lasciare il segno: copertina austera, in bianco e nero, con i 5 vestiti tutti in camicia bianca e cravatta nera. 

Il primo brano, “Incident on south street” chiarisce tutto: le tastiere a fare da ritmica, il sax di Lurie protagonista, la chitarra di Lindsay da cui escono suoni secchi, abrasivi. 

Sono le coordinate su cui articolerà il disco.

Ma i Lounge Lizards però non sono semplicemente jazz più no wave: sono qualcosa che ha che fare sia con il jazz, e parecchio, che con la no wave, molto meno ma proprio la chitarra ce la ricorda in più di un episodio, per arrivare a qualcosa di nuovo e di originale. 

Alla base di tutto questo c’è il jazz: quasi distorto in forme nuove, come suonato tenendo ben presente la lezione di Thelonious Monk, omaggiato con  le versioni di “Epistrophy” e “Well you needn’t“. 

E, a proposito di jazz, in questo esordio troviamo il bop ma incrociamo anche il free, magari messo  a confronto con il funk come in “Do the wrong thing“.

The Lounge lizards” però è un album che ama mettere insieme atmosfere opposte,  momenti quasi rumoristici come  “Wangling” o “Remember Coney island” dove il drumming di Fier anticipa e può ricordare quello di Joey Baron  possono convivere  con aperture liriche  come in “Conquest of rar” e con  omaggi alla classicità come la splendida ed impeccabile “Harlem nocturne“. 

Insomma, un gran disco, che ha ancora un grande futuro davanti a sè. 

La band, purtroppo, produsse poco: altri tre album – “No pain for cakes” e “Voice of chunk” entrambi da riscoprire – e alcuni live. 

Tenere insieme due personalità come Lindsay e Lurie non era semplice, erano i classici due galli nel pollaio: Lurie percorse la strada del cinema soprattutto con Jarmusch – “Stranger than paradise” e “Down by law” con Benigni, poi approdò in tv e ora si dedica alla pitturama ma in seguito una malattia lo costrinse ad abbandonare il sax e la musica.

Negli anni sono passati sul palco dei Lounge Lizards moltissimi altri musicisti: Marc Ribot e John Medeski tra gli altri ma il loro approccio sul palco però lo racconta bene  Arto Lindsay in un’intervista: “Il fatto è che il pubblico dell’arte era troppo facile per noi  e sembrava apprezzarci a prescindere Mentre in  un posto come il CBGB dovevi sudare per guadagnarti attenzione e rispetto. Noi alla fine suonavamo rock’n’roll questo voglio che sia chiaro. Si, magari era una musica più storta e aperta della media ma tuttora mi considero un musicista rock’n’roll o “popular” che è meglio. Miles Davis la chiamava “social music” e penso sia un termine bellissimo“.

THE LOUNGE LIZARDS:

Basso – Steve Piccolo

Batteria – Anton Fier

Sassofono – John Lurie

Chitarra – Arto Lindsay

Tastiere – Evan Lurie

Produttore – Teo Macero

Registrato negli studi della CBS a New York il 21,22,28 e 29 luglio 1980. 

ANDREA PICCIONI “Tamburo e Voce”

ANDREA PICCIONI “Tamburo e Voce”

ANDREA PICCIONI “Tamburo e Voce”

VISAGE RECORDS, 2020. CD

di alessandro nobis

A proposito di Andrea Piccioni, Riccardo Tesi dice che “E’ uno dei migliori suonatori di tamburi a cornice che abbia mai conosciuto!” ed in effetti è facile dare ragione all’organettista toscano, basta ascoltare qualche minuto di questo “Tamburo e Voce” per avere una visione del progetto che ha fatto nascere il disco. Si è vero, tecnicamente Piccioni è un maestro dei tamburi a cornice, ma qui c’è molto altro: le sue composizioni, il delicato ed intelligente lavoro di arrangiamenti che mettono in comunicazione i suoni ancestrali con la modernità e fanno compiere all’ascoltatore attento un viaggio nello spazio e nel tempo tanti sono gli spunti che emergono da questo eccellente lavoro pubblicato dall’etichetta italiana Visage, non nuova a questi “tuffi nel futuro tradizionale” italiano. Si parte con brano composto specificatamente per la chitarra battente di Vincent Noiret (“Braci”) che emerge dai suoni puramente tradizionali per continuare con la sorprendente “Maremosso” con il sax soprano di Pierfrancesco Mucari mediato dall’elettronica che apre al bendir e prosegue con una linea melodica del sassofono. E poi si torna all’ancestrale tradizione irpina con il “Canto sul tamburo per la Madonna delle Galline” dove nella prima parte la voce umana incontra la voce del tamburo e nella seconda si trasforma in un ballo popolare e infine con “Saltarello”, un tradizionale canto a ballo della valle laziale dell’Aniene; anche qui tradizione e contemporaneità di qualità rara a sentirsi.

Con “Qustor – Duff” ci si trasferisce armi e bagagli nei suoni mediorientali del “Dutar” – liuto a due corde con un lungo manico – di Juraev Sirojiddin che dialogando con il tamburello fanno di questo brano uno dei più significatici di questo davvero magico “Tamburo Voce”. Un disco importante che indica una direzione per quanti sono interessati a restare con i piedi nelle “radici” ma con la mente verso nuove prospettive sonore.

www.andreapiccioni.net

www.visagemusic.it

VAL BONETTI “Hidden Star”

VAL BONETTI “Hidden Star”

VAL BONETTI “Hidden Star”

DODICILUNE RECORDS. CD, 2020

di alessandro nobis

La prima volta che ho avuto modo di ascoltare il fingerpicking di Val Bonetti fu nell’estate del 2011 in occasione di una edizione di “Chitarre per sognare” organizzata da Giovanni Ferro a Colognola ai Colli, nell’est veronese (rassegna sfrattata da quel Comune e migrata in quello di Caldiero). Al tempo Bonetti aveva già pubblicato il suo disco d’esordio “Wait” e da allora è stato un piacere seguire il suo percorso musicale che da ottimo solista ha via via preso una strada alla ricerca di nuove sonorità, repertori, compagni di viaggio e di composizioni che andasserò al di là della performance in solo. Il suo “Tales” in compagnia del contrabbassista Cristiano Da Ros (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2015/12/27/simone-valbonetti-cristiano-da-ros/)e la partecipazione con sei brani (tre in duo e tre in solitudine) nell’omaggio agli spartiti del chitarrista Duck Baker  (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2017/08/25/aa-vv-pareto-sketches-compositions-for-guitar-by-duck-baker/)pubblicato nel 2018. Ora questo notevole lavoro “Hidden Star” pubblicato qualche mese or sono dall’intraprendente etichetta Dodicilune che illumina ancor più il progetto di questo autore e musicista di grande spessore e che rappresenta l’evoluzione del suo concetto di chitarra acustica; alcuni brani erano già nella sua scaletta live presentata l’estate scorsa nella rassegna “Un paese a sei corde” (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2020/09/05/da-remoto-val-bonetti-·-marco-ricci/)con Marco Ricci al contrabbasso che collabora con Val Bonetti alla realizzazione del disco assieme al bravissimo suonatore senegalese di kora Cheik Fall ed all’armonicista Giulio Brouzet.

Il brano eponimo e “The Star is Calling”, duetti chitarra resofonica e Kora, sono due dialoghi conditi da convicenti parti improvvisate che uniscono due mondi musicali, il west Africa ed il delta del Mississippi, “Duck is Duck is Duck ….” è naturalmente dedicato ad uno degli ispiratori della musica di Val Bonetti, Duck Baker, con chiari riferimenti all’universo monkiano ed al ragtime che qui si incontrano,  “To Caress a Snake” è un blues “stralunato” con l’evocativa armonica di Giulio Brouzet e, per citare un altro brano, “A Few Steps” con una splendida parte di contrabbasso che dialoga amabilmente e pacatamente con la, consentitemi, meravigliosa chitarra di Val Bonetti.

Disco da avere, musicista da seguire. Ascoltate la sua discografia e la sua evoluzione musicale, ne vale davvero la pena.

http://www.dodicilune.it

SUONI RIEMERSI: DAVID POWER “My Love is in America”

SUONI RIEMERSI: DAVID POWER  “My Love is in America”

DAVID POWER  “My Love is in America”

CLADDAGH RECORDS, CD 2005

di alessandro nobis

Ho conosciuto il finissimo piping di David Power ad Armagh durante l’edizione 2019 – l’ultima al momento – del William Kennedy Piping Festival con il suo set in duo assieme al violinista Martin Hayes; va da sé che alla fine del concerto al tavolo del merchandising mi sono procurato una copia di questo brillante lavoro.

DAVID POWER & MARTIN HAYES, #WKPF 2019. FOTO DI ERICA NOBIS

David Power, nativo della Contea di Waterford, con questo eccellente “My love is in America” svelava quindici anni fa in tutto il suo splendore la sua tecnica sopraffina (un esempio? Ascoltate i reels “Jenny Picking Cockles / My Love is in America”), l’intelligenza di orientarsi nello sterminato repertorio della musica irlandese e soprattutto a mio avviso la brillantezza nel suonare “standards” con un tocco personale di una qualità tecnica ed interpretativa rara a trovarsi 

Tra questi voglio citarne due, “The Fox Chase”, riportato per la prima volta su spartito da Henry Hudson vissuto a cavallo del 1800 e presente anche nella raccolta O’Neill (1903), un autentico banco di prova per chi voglia misurarsi con le uilleann pipes ed il set composto dalla slow air “The Bunny Bunch of Roses” che narra di un dialogo affettuoso tra Napoleone Bonaparte e la madre Letizia e ad una hornpipe, “The Sally Garden” che racconta le proprietà del salice, un’ode ai suoi rami che sapientemente intrecciati prendono la forma di ceste di ogni misura.

Seamus Ennis e Leo Rowsome sono egualmente omaggiati da David Power: il primo con l’hornpipe “The Standing Abbey” abbinato al set di danze “Madame Bonaparte” (la consorte di Napoleone), il secondo con il jig “The Boys of the Town” suonato appunto da Ennis alle pipes ma anche dal violinista Kevin Burke della Bothy Band e di Patrick Street.

Musica straordinaria: vera, sincera, che mi ha emozionata e che è arrivata subito al cuore.