HOT TUNA “Yellow Fever”

HOT TUNA “Yellow Fever”

HOT TUNA “Yellow Fever”

Grunt Records. LP, 1975

di alessandro nobis

Penso che i tre album usciti tra il 1975 ed il 1976 ovvero “America’s Choice”, “Hopkrov“, parte di “Double Dose” e “Yellow Fever” – del quale per il Record Store Day ne è stata pubblicata una versione con vinile naturalmente giallo – spiazzarono non dico tutti · ma quasi tutti · i followers dell’epoca innamorati di quel suono magico elettro·acustico costruito da Jorma Kaukonen e Jack Casady, suono che poi avrebbero ripreso più avanti fino ai nostri giorni. Qui Kaukonen opta per un nuovo suono, più hard, effettato dall’elettronica come non gli conoscevamo con assoli efficacissimi come in “Song for the Fire Maiden” e ingaggia con Casady un batterista incisivo in grado di assecondare questa sua svolta come Bob Steeler, un secondo chitarrista John Sherman (in “Baby What You Want Me To Do) ed il tastierista Nuck Buck (suo è il suono del sintetizzatore in “Bar Room Crystal Ball“).

“Hard Blues”,  “Hard Rock”, “Mainstream Rock” chiamatelo come volete ma questo e gli altri due lavori della tripletta citata in apertura restano a mio avviso degli ottimi dischi; Kaukonen non abbandona le sue origini di suonatore di blues e propone in “Yellow Fever” due rivisitazioni di brani accredidati a Mathis James “Jimmy” Reed (il già citato “Baby What You Want Me To Do) e “Hot Jelly Roll Blues” del misconosciuto bluesman George Carter, vissuto nella prima metà del XX secolo che registrò, questo per la cronaca, solamente quattro brani su 78giri; i due brani aprono “Yellow Fever”, quasi il chitarrista californiano volesse avvisare i suoi estimatori che non aveva abbandonato il blues e che non aveva l’intenzione di farlo ma che aveva trovato un modo diverso (più moderno? più innovativo?) per suonarlo.

Tra i brani di nuova composizione voglio citare “Half / Time Saturation” scritto dai tre Tuna e con notevolissimo assolo “effettato” di Kaukonen ed il conclusivo brano del chitarrista “Surphase Tension” con il fingerpicking elettrico in apertura ed una interessante sovrapposizione di chitarre ma con un andamento che sembra riportare il suono della band a quello dei primi album.

“Yellow Fever” è un album da rivalutare a mio parere. Chi ce l’ha lo estragga dallo scaffale e lo riposizioni sul giradischi.

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SUONI RIEMERSI: BROTHER OSWALD & CHARLIE COLLINS “That’s Country”

SUONI RIEMERSI: BROTHER OSWALD & CHARLIE COLLINS “That’s Country”

SUONI RIEMERSI: BROTHER OSWALD & CHARLIE COLLINS “That’s Country”

ROUNDER Records 0041. LP, 1975

di alessandro nobis

Alle registrazioni di questo bel disco accreditato al chitarrista / mandolinista Charlie Collins ed al dobroista/ cantante Oswald Pete Kirby (entrambi degli Smokey Mountain Boys di Roy Acuff) partecipa anche il loro grande amico Norman Blake: la cosa sembra appartenere alla normalità direte voi seguaci di Blake se non fosse che nei quattro brani ai quali partecipa suona non la chitarra ma bensì il mandolino, molto probabilmente per lasciare il giusto spazio all’amico Charlie, peraltro finissimo strumentista: non c’è solo Blake invitato in studio ma anche Sam Bush e quindi ci ritroviamo di nuovo di fronte alla “compagnia” targata Rounder che suona e si diverte – e ci fa divertire – al suono di questa musica “americana” legata sì al bluegrass ma proiettata anche verso le nuove composizioni. “Remember me”, il reel “Fort Smith”, “Kahola March” (versione della Ford’s Hawaiian Orchestra) e “Saint Ann’s Reel” (un brano molto diffuso in nordamerica e di origine, almeno nella sua prima parte, irlandese) sono i brani dove Blake suona magnificamente il mandolino; si tratta di quattro tradizionali, come lo sono tutti i brani del disco, e ciò che si percepisce dal loro ascolto è la perfetta intesa e la naturalezza della musica, oltre naturalmente alla preparazione ed alla profonda conoscenza del materiale proposto spesso raccolto da “informatori”. Anche Sam Bush, altro straordinario strumentista, dà il suo apporto con il suo mandolino ad esempio nel super classico “Wabash Cannonball” e con il violino affianca Collins al mandolino in “Grey Eagle”, ma naturalmente vanno assolutamente citati i brani eseguiti dal duo Kirby – Collins e tra questi il brano di apertura “Nobody’s Business”, il blues “Columbus Stockade” con Kirby al banjo in stile old-time e solo di Coillins, ed “Old John Henry”.

Splendido e “vero” disco, non credo esista una versione in CD: peccato.

(GOOGLE ENGLISH)

Their great friend Norman Blake also participates in the recordings of this beautiful record credited to guitarist / mandolinist Charlie Collins and dobroist / singer Oswald Pete Kirby (both of Roy Acuff's Smokey Mountain Boys): this seems to belong to normality, you followers of Blake were it not for the fact that in the four songs in which he participates he plays not the guitar but the mandolin, most likely to leave the right space for his friend Charlie, who is also a very fine instrumentalist: there is not only Blake invited to the studio but also Sam Bush and then we find ourselves again in front of the Rounder "company" that plays and has fun - and entertains us - to the sound of this "American" music linked yes to bluegrass but also projected towards new compositions. "Remember me", the reel "Fort Smith", "Kahola March" (version of Ford's Hawaiian Orchestra) and "Saint Ann's Reel" (a very popular piece in North America and of Irish origin, at least in its first part) are the pieces where Blake plays the mandolin beautifully; there are four traditional ones, as are all the tracks on the disc, and what you perceive from listening to them is the perfect understanding and naturalness of the music, as well as of course the preparation and in-depth knowledge of the proposed material often collected by "informants" . Even Sam Bush, another extraordinary instrumentalist, gives his contribution with his mandolin, for example in the super classic "Wabash Cannonball" and in "Gray Eagle", but of course the pieces performed by the duo Kirby - Collins and among these the song of opening "Nobody's Business", the blues "Columbus Stockade" with Kirby on the banjo in old-time style and only by Coillins, and "Old John Henry".

MARK O’CONNOR “Pickin’ in the Wind”

MARK O’CONNOR “Pickin’ in the Wind”

MARK O’CONNOR “Pickin’ In The Wind”

Rounder Records. LP, 1976

di alessandro nobis

1975 Grand Master Fiddle Champion · National Guitar Champion 1975” dicono i due stickers sulla copertina del secondo disco del polistrumentista Mark O’Connor di Seattle: nulla di strano se non che nel ’75 O’Connor aveva 14 anni ed il suo talento era già così maturo da convincere la Rounder Records a fargli incidere l’album in compagnia, udite udite, di straordinari musicisti come Norman Blake, Charlie Collins, Sam Bush, Roy Huskey e John Hartford ovvero il meglio della musica acustica di quegli anni, quasi un dovuto apprezzamento all’enfant prodige del lontano Nord Ovest e della sua musica da parte della “famiglia Rounder”. Un bel disco con un altrettanto bel repertorio dal quale emergono sia il talento indiscusso di O’Connor che il piacere di suonare assieme agli amici più cari: mandolino, violino, chitarra passano tra le mani del giovanissimo Mark e l’impressione che resta fissa nella mente è quella della sua precoce maturità e consapevolezza lontana dagli aspetti “dimostrativo” e “calligrafico” che a quell’età spesso viene quasi “esibita” per lo stupore degli astanti.

Qui troviamo un po’ tutto il repertorio del miglior bluegrass, come il brano scritto da Jim & Jesse, “Dixie Hoedown” dove O’Connor è alla chitarra solista, Sam Bush al violino, Blake al mandolino, Hartford al banjo, Collins alla seconda chitarra e Roy Huskey naturalmente al contrabbasso, un brano originale (“Mark’s Waltz”), un valzer come si può immaginare con O’Connor al violino, Collins alla chitarra e Sam Bush al mandolino o ancora uno spartito di Vassar Clements (il blues “Lonesome Fiddle”) con un inedito ed efficace arrangiamento che non prevede l’uso del violino ma chitarra, banjo, dobro (Norman Blake), chitarra e contrabbasso. E, per concludere, l’omaggio al violinista del Montana Bill Lang con un suo valzer eseguito in compagnia di Sam Bush e Charlie Collins.

Gran bel disco.

“1975 Grand Master Fiddle Champion National Guitar Champion 1975” say the two stickers on the cover of the second album by multi-instrumentalist Mark O'Connor from Seattle: nothing strange except that in '75 O'Connor was 14 years old and his talent was already so mature as to convince Rounder Records to let him record the album in the company, hear hear, of extraordinary musicians such as Norman Blake, Charlie Collins, Sam Bush, Roy Huskey and John Hartford or the best of acoustic music of those years, almost a due appreciation to the enfant prodige of the far North West and his music by the "Rounder family". A beautiful disc with an equally beautiful repertoire from which both O'Connor's undisputed talent and the pleasure of playing together with the closest friends emerge: mandolin, violin, guitar pass through the hands of the very young Mark and the impression that remains fixed in the mind is that of his precocious maturity and awareness far from the "demonstrative" and "calligraphic" aspects which at that age is often almost "exhibited" to the astonishment of the bystanders.

Here we find a bit of the whole repertoire of the best bluegrass, such as the song written by Jim & Jesse, "Dixie Hoedown" where O'Connor is on lead guitar, Sam Bush on violin, Blake on mandolin, Hartford on banjo, Collins on second guitar and Roy Huskey of course on double bass, an original song (“Mark's Waltz”), a waltz as you can imagine with O'Connor on violin, Collins on guitar and Sam Bush on mandolin or a score by Vassar Clements (the blues “ Lonesome Fiddle”) with a new and effective arrangement that doesn't involve the use of violin but guitar, banjo, dobro (Norman Blake), guitar and double bass. And, finally, a tribute to Montana violinist Bill Lang with his waltz performed in the company of Sam Bush and Charlie Collins.

Great record.

NORMAN BLAKE “The Fields of November”

NORMAN BLAKE “The Fields of November”

“The Fields of November” Flying Fish Records 004. LP, 1974

di alessandro nobis

“The Fields of November” è la quarta uscita della Flying Fish e la produzione di questo album di Norman Blake fu affidata all’amico dobroista Tut Taylor, compagno anche negli anni a seguire di mille battaglie musicali del chitarrista americano. Con Blake alla chitarra, voce, violino, mandolino e dobro i “soliti” straordinari compagni di viaggio ovvero Nancy Ann Short (futura “Blake”), al violoncello, Robert Arthur Tut Taylor al dobro e Charile Collins alla chitarra e violino l’ensemble confeziona uno dei più riusciti lavori nell’ambito della cosiddetta “americana” di quegli anni dando un particolare risalto al ruolo degli strumenti ad arco, peculiarità che in seguito Nancy e Norman (scusate la confidenza) approfondiranno con il Rising Fawn String Ensemble ed inoltre mette in risalto il talento compositivo di Norman Blake vesto che tutti i brani portano la sua firma. Il brano eponimo, “Uncle” e quello che apre il disco, “Green Leaf Fancy” sono eseguiti dal trio violino – violoncello – chitarra e sono tra quelli che preferisco assieme a “Krazy Kurtis” suonato in solo da Blake al dobro; non mancano i canti narrativi che raccontano storie di emigrazione dovute alla chiusura delle miniere di carbone come lo splendido “Last Train from Poor Valley” ed all’estrema povertà come il malinconico ed allo stesso tempo incisivo “Lord Won’t You Help Me” (“Viaggiando e vagabondando per tutto il tempo / da solo con la mia chitarra / per un dollaro ed un quarto /ed un bicchiere di vino / o Dio, non vuoi aiutarmi prima che impazzisca”).

Un disco che segna assieme a “Old and New” che lo segue (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2021/03/05/suoni-riemersi-norman-blake-old-and-new/) il percorso stilistico di Norman Blake che da un lato proseguirà in solo o in duo (memorabile “Whiskey Before Breakfast” in duo con Charlie Collins) e dall’altro rivolta alla costruzione ed alla sua realizzazione di un suono legato agli archi, un aspetto questo mai affrontato prima, e mai lo sarà in seguito, dal mondo della musica di ispirazione tradizionale americano.

SUONI RIEMERSI: EDDIE & FINBAR FUREY “I live not where i love”

SUONI RIEMERSI: EDDIE & FINBAR FUREY  “I live not where i love”

SUONI RIEMERSI: EDDIE & FINBAR FUREY  “I live not where i love”

INTERCORD Records. lp, 1975

di alessandro nobis

Registrato nel ’75 in Germania, ad Neunkirken, questo “I live not where i love” è un altro viaggio nella tradizione musicale irlandese e nelle nuove composizioni dei fratelli Furey e precede l’album di addio registrato l’anno successivo e pubblicato dalla stessa etichetta tedesca Intercord (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2020/11/02/suoni-riemersi-eddie-finbar-furey-the-farewell-album/). Questi tour in Europa continentale furono molto utili per i Fureys tanto che Finbar diceva che “mentre frequentavamo il circuito folk continentale negli anni ’60 e ’70 capimmo che quello che custodivamo – la tradizione irlandese – era una cosa importante, lo capimmo grazie all’accoglienza, all’interesse ed al calore che ricevevamo dai pubblico francese e tedesco”.

La famiglia Furey appartiene al gruppo degli Irish Travellers, custodi di una buona parte della tradizione delle uilleann pipes e Finbar, che in questo lavoro dedica un brano all’indimenticato Leo Rowsome, come molti altri traveller pipers fu enormemente influenzato dallo stile del leggendario Johnny Doran (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2019/02/26/dalla-piccionaia-johnny-doran-traveller-piper-1908-1950/): “mio padre quando avevo sei anni mi disse di ascoltare il modo di suonare di Johnny Doran, io lo feci osservando bene anche come muoveva le sue dita mentre suonava, trovavo bellissimo ascoltarlo e da lui ho imparato molto e quando Doran e la sua famiglia passava nella contea di Clare ci organizzavamo per incontrarlo e scambiare con lui i brani che conoscevamo. Johnny Doran è probabilmente il più grande suonatore di uilleann pipes che io abbia mai incontrato.”

Detto delle sue radici “musicali”, “I live not where i love” è un gran bel disco, convincente, con riuscite scritture orginali come “Wounded Knee”, ballata scritta dopo la lettura di “Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” e l’omaggio a Rowsome, interpretazione di brani altrui come “Lord Lovell” il cui testo è un antico canto narrativo (la Child Ballads 75 la cui versione originale risale al medioevo) musicato da di Dave Burland e “Miss MacDonald / Tarbolton” da repertorio del violinista Brian Patton del Donegal.

LUISA RONCHINI “Semo tute impiraresse”

LUISA RONCHINI  “Semo tute impiraresse”

SUONI RIEMERSI: LUISA RONCHINI  “Semo tute impiraresse”

FONITCETRA FOLK, 36. LP, 1975

di alessandro nobis

Questo è uno dei due dischi che Luisa Ronchini, indimenticata ricercatrice ed interprete della canzone tradizionale di area veneta, incise come solista per la Fonit Cetra (l’altro era “Mi Vo’ A Cantar Di Chioza…La Chiara Stela”, numero 56 della stessa collana): veneziana di adozione, Luisa Ronchini ebbe un ruolo determinante nella ricerca sul campo dei canti tradizionali, nella loro registrazione dai portatori, nella loro riproposizione e nella costituzione del Canzoniere Popolare Veneto assieme agli amici e compagni Alberto D’Amico ed Emanuela Magro (di professione “studentessa” come riportato nella copertina del loro “El Miracolo Roverso” del 1975, stessa collana, numero 33). Voce forte, chiara ed espressiva, Luisa Ronchini presenta qui undici canti, dalla ninna nanna che apre la prima facciata (“Dormi ben mio”) alle villotte / stornelli di “Benedete le to manine” e di “Go fato un bel regalo” raccolte in un’osteria veneziana fino ad “Allegri compagni”, canto di coscritti che partivano per la guerra, quella d’indipendenza come testimonia il verso “Vitorio Secondo”. Scrive Luigi Nono nelle note di copertina: “Luisa Ronchini (ed il Canzoniere Popolare Veneto” fa quello che la sua indubbia natura musicale e la sua bella potenzialità di voce le concedono in questo quasi abbandono di studi, o peggio, in questa cosciente colpa classista. Dall’ascolto della portatrice allo studio della propria voce all’accompagnamento di strumenti o altra voce fino all’esecuzione, alla diffusione, al ritorno al popolo

Tra tutti i canti qui raccolti, segnalo però in particolare la straordinaria testimonianza dello sfruttamento del lavoro femminile de “Le Impiraresse”, le infilatrici di perle, lavoratrici a domicilio sfruttate fin dalla più tenera età e naturalmente sottopagate e di questa lezione, raccolta a Venezia dalla portatrice Tilde Nordico della quale riporto il testo.

LE IMPIRARESSE

Semo tute impiraresse
semo qua de vita piene
tuto fògo ne le vene
core sangue venessiàn.‎

No xè gnente che ne tegna
quando furie diventèmo,‎
semo done che impiremo
e chi impira gà ragion.‎
‎‎
se lavora tuto il giorno
come macchine viventi
ma par far astussie e stenti
tra mille umiliasiòn
‎‎
semo fìe che consuma
dela vita i più bei anni
per un pochi de schei
cheno basta par magnar

Anca le sessole pol dirlo (*)‎
quante lagrime che femo,‎
ogni perla che impiremo
xè na giossa de suòr.‎
‎‎
per noialtre poverette
altro no ne resta
che sbasàr sempre la testa
al siensio e a lavorar
‎‎
Se se tase i ne maltrata
e se stufe se lagnemo
come ladre se vedemo
a cassar drento in preson

Anca le mistra che vorave
tuto quanto magnar lore‎
co la sessola a’ ste siore
su desfemoghe el cocòn! 

Di Luisa Ronchini esiste un bel CD “Una voce unica e sola” pubblicato dallacasa discografica Nota nel 2002 e curato dalla Società di Mutuo Soccorso Ernesto De Martino.

NORMAN BLAKE “Old And New”

NORMAN BLAKE  “Old And New”

NORMAN BLAKE  “Old And New”

FLYING FISH RECORDS. LP, 1975

di alessandro nobis

A parte Arthel Lane “Doc” Watson (1923 – 2012), autentico monumento del folklore americano, informatore lui stesso ma anche interprete ed autore oltre che uno straordinario talento chitarristico, – e voglio citare anche Donald Wesley Reno, se permettete – è Norman Blake il mio chitarrista preferito “flat-picker” e questo suo “Old and New” è il suo disco che più ho ascoltato ed amato, forse solamente perché è stato il suo primo che acquistai in quel lontano ’75, quando i dischi “d’importazione” erano merce rara a trovarsi ed i vinili si consumavano a casa di amici appassionati ascolto dopo ascolto oppure perché il brano “Billy Gray” è stato rivisitato dal gruppo irlandese Planxty nel loro disco “The Woman I Loved so Well” con diverso titolo, “True Love Knows no Reason” (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2021/01/19/suoni-riemersi-planxty-the-woman-i-loved-so-well/). Originario del Tennessee, classe 1938 e cresciuto a Sulphur Springs in Alabama, Norman Blake si contraddistingue dalla voce sempre pacata con la quale interpreta nel miglior modo possibile i canti narrativi da lui composti accanto a quelli della tradizione, per la sua straordinaria a pulitissima tecnica con la quale suona la chitarra ed anche per l’abilità di polistrumentista essendo ottimo mandolinista e violinista. Blake ha conosciuto gli informatori originali e da quando per ragioni storico anagrafiche questi non sono più tra noi, ha approfondito la conoscenza del folklore americano dal suono gracchiante dei 78giri (gira la voce che ne abbia lui stesso un’imponente collezione) regalandoci brani straordinari ed inediti, ballate ed arie di danza arrangianti sia per sola chitarra che per formazioni più complesse come il duo di chitarre (con Tony Rice o Charlie Collins) o il glorioso “Rising Fawn String Ensemble” sempre alla ricerca di una suono “antico” riportato con nuovi arrangiamenti al presente.

E, a parte la già citata storia del bandito Billy Gray e della sua amata, Blake ci racconta dell’epopea dei treni in “The Railraod Days” e ci suona magistralmente il “Miller’s Reel” in duo con Collins e lo splandiodo originale “Dry Grass on the High Fields” con lo stesso Norman Blake alla viola, la Moglie Nancy al violoncello, ancora Collins alla chitarra e Ben Pedigo al banjo ed infine ci tengo a segnalare il grande suonatore di dobro Tuta Yalor che esegue con le chitarre di Collins e Blake il tradizionale “Witch of the Wave”.

Disco straordinario per un autore e musicista che ha saputo portare il bluegrass e l’old time music in una dimensione cameristica, caso forse unico nella musica “americana”.

THE BOTHY BAND “Bothy Band”

THE BOTHY BAND “Bothy Band”

THE BOTHY BAND “Bothy Band”

Mulligan Records 002. LP, 1975

di alessandro nobis

Dopo aver registrato tre album con i Planxty, Donal Lunny lascia con grande sorpresa di tutti il gruppo in cerca di qualcosa di nuovo, di un nuovo progetto, di un nuovo suono (ma tornerà qualche anno dopo, con grande sollazzo nostro) e su commissione della prestigiosa etichetta Gael-Inn organizza un supergruppo assieme a Paddy Glackin, Tony Macmahon, Matt Molloy, Paddy Keenan ed i fratelli O’ Dhohmnaill, Triona e Michael per un evento che resterà unico. Il gruppo, chiamato Seachtair, senza Glakin e MacMahon e con l’arrivo del violinista Tommy Peoples diventa la Bothy Band, con il nome che fa riferimento alle Bothy Ballads cantate in Scozia dagli operai soprattutto negli ostelli dove erano alloggiati in quanto nubili (tra l’altro, già che siamo, ricordo che alcune delle Child Ballads praticamente scomparse furono “recuperate” dai ricercatori dal canto di questi operai che le avevano imparate attraverso la trasmissione orale n.d.r.).

La Bothy Band diventata un sestetto registra il suo primo omonimo album per la benemerita Mulligan Records distinguendosi immediatamente soprattutto per il particolare suono del clavicembalo, per la voce evocativa di Triona O’ Dhohmnaill (la splendida esecuzione di “Do you Love an Apple”) oltre che per la presenza del flauto (Matt Molloy) e del violino (Tommy Peoples) fondamentali per costruire assiei plettri il suono della Bothy Band; un album che ancora oggi si ascolta con grande piacere e che a posteriori lo fa considerare come una delle pietre miliari del movimento del cosiddetto “folk revival” irlandese.

C’è spazio anche per il solismo: il medley curato da Peoples, uno strathspey abbinato ad un reel (“Hector the hero / La Laird of Drumblaire”) con il “bordone” di Keenan,  le pipes che aprono “Patsy Geary’s / Coleman’s cross” ed il jig (“Give us a drink of water”) proveniente dalla raccolta di O’Neill, che segue il celeberrimo “Kesh Jig” (inciso per la prima volta nel 1945 dalla Kinora Ceilidhe Band per la His Master Voice, naturalmente su 78 rpm n.d.r.) inserito nel medley iniziale sono due autentiche perle assieme al reel “cantato” “Pretty Peg” introdotta a cappella da Triona O’ Dhohmnaill.

Ma tutto il disco è un capolavoro. Fatemelo dire, stavolta.