DUCK BAKER “Contra Costa Dance”

DUCK BAKER “Contra Costa Dance”

DUCK BAKER “Contra Costa Dance”

Confront Recordings. CD, 2022 (1982)

di alessandro nobis

Rimasti chiusi in una scatola nel garage dell’amico Dix Bruce dal 1982 fino all’anno scorso, questi nastri erano nati come “demo” che però, sottoposti all’attenzione di diverse case discografiche, non vennero da queste ben accolte probabilmente perchè come scrive lo stesso Baker nelle note di copertina, “esulavano dallo stile di chitarra riconducibile alla “new · age” che stava prendendo piede nel mercato della musica acustica“; per farla breve questo avrebbe dovuto essere il seguito di “The Kid on the Mountain” pubblicato dalla Kicking Mule nel 1980 e dopo oltre quaranta anni, finalmente considerata la qualità della musica, questi dodici brani vedono la luce grazie alla Confront Recordings (ed anche a Dix Bruce naturalmente). Detto tra noi poi, a me onestamente questi nastri sembrano ben più che dei “demo” ma piuttosto un disco pronto per essere pubblicato, e lo dico sinceramente, da non musicista.

Gustiamoci quindi questi quarantasei minuti di “Demo Tapes“, queste dodici composizioni originali che ci riconsegnano un Duck Baker che rielabora tutte le sue precedenti letture della musica “americana” scrivendo ed improvvisando senza mai lasciarsi andare a puri esercizi stilistici: nella slow air di “The Flowers of Belfast” ed in “Highlands Spring” sembra di sentire l’eco della tradizione delle isole britanniche, splendida l’aria di valzer di “Waltz with Mary’s Smile” come l’atmosfera del brano che apre questa antologia di “demo”, ovvero “Putney Bridge” del brano eponimo, “Contra Costa Dance“.

Duck Baker nel suo peregrinare attorno al mondo ha tenuto un numero imprecisato di concerti, un numero sicuramente notevolissimo e quindi con tutta probabilità esiste un numero cospicuo di registrazioni di varia qualità dei suoi live come anche ci saranno dei nastri perduti · o presunti tali · come questi conservati da Dix Bruce ad Oakland, in California.

http://www.confrontrecordings.com

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SOSTIENE BORDIN: STORMY SIX “Al Volo”

SOSTIENE BORDIN: STORMY SIX “Al Volo”

SOSTIENE BORDIN: STORMY SIX “Al Volo”

COOPERATIVA L’ORCHESTRA. LP, 1982

di Cristiano Bordin

Trovo “Un biglietto del tram” un lavoro particolarmente ben riuscito, difficile da replicare. Ma a me piace moltissimo anche “Al volo”, l’ultimo album in studio e forse i nuovi ascoltatori potrebbero cominciare da lì e sicuramente rimarrebbero sorpresi”.

Franco Fabbri, che degli Stormy Six era il chitarrista e una delle menti musicali, senza dubbio ha ragione. 

Al volo”, uscito nel 1982, è sicuramente un disco che a distanza di tanto tempo è in grado di stupire. Ma è anche un album assolutamente sottovalutato nella discografia del gruppo, passato quasi inosservato al momento della sua uscita: è il loro congedo dopo anni intensi, sul palco e fuori dal palco, ma rappresenta anche un momento importante per la musica italiana degli anni ‘80 e dunque meriterebbe di essere riscoperto.

Gli Stormy Six hanno attraversato un bel pezzo di storia musicale del nostro paese: iniziano negli anni ‘60 tra beat e Cantagiro, rappresentano in pieno gli anni ‘70 con “Un biglietto del tram”, sono tra i protagonisti di Rock in Opposition insieme ad Henry Cow, Etron Fou, Universe Zero, Art Bears e da quel confronto/unione nasce un disco come “Macchina maccheronica”.

Fabbri però aveva vissuto un’altra stagione prima di formare gli Stormy Six, con gli Stregoni: con loro ha accompagnato come gruppo spalla addirittura i Rolling Stones durante un loro tour italiano negli anni ‘60. 

E nelle file della band sono passati nomi illustri: se guardiamo le formazioni dei loro album – uno diverso dall’altro – nell’esordio, “Le idee di oggi per la musica di domani”, al basso troviamo ad esempio Claudio Rocchi.

Oggi Fabbri è un affermatissimo musicologo con una lunga ed interessante bibliografia, si è a lungo occupato dal rapporto tra musica e tecnologia e insegna all’università; il cantante Umberto Fiori è invece considerato tra i più importanti poeti italiani di oggi.

Ma torniamo a “Al Volo”, un album che rappresenta in pieno il tempo in cui esce ma che è in grado in qualche modo di anticipare anche un pezzo di futuro come ci raccontano i testi: spazi vuoti, non luoghi, solitudini.

La banca, la Standa, Piazza degli Affari, per stare al titolo di uno dei brani.

La fotografia di un decennio, quindi, gli anni ‘80.

La musica pesca invece nell’enorme bagaglio dei 5 musicisti che firmano il disco trovando strade magari tortuose, ma senza dubbio nuove per il gruppo: c’è il passaggio all’elettrico e all’elettronica rispetto agli episodi precedenti ma soprattutto c’è tanta voglia di sperimentare, di mescolare le carte, di dare un significato, nei suoni e nell’attitudine, al termine “progressivo”.

Ne esce fuori un album in cui ci sono tracce dei Gentle Giant come dei King Crimson, echi del progetto Rock in Opposition ma anche  suggestioni che rimandano alla nuova scena inglese come gli Wire.

Un bel calderone, insomma.

Non facile da assemblare ma perfettamente riuscito in tutti i suoi episodi.

Il basso rincorso dalla batteria e poi da una chitarra dal suono metallico aprono  l’album con “Non si sa dove stare” che è un po’ il “manifesto” del disco.

 Ma è anche il brano che praticamente tutti gruppi catalogati come new wave o post punk, nati intorno agli ‘80, avrebbero voluto scrivere senza però riuscirci.

Il suono che domina “Al volo” è quello della chitarra-synth- strumento in voga in quel periodo e poi protagonista dell’album solo di Fabbri “Domestic flight” – e il disco ruota intorno a quel suono e al lavoro delle tastiere sempre ben sostenuto dalla ritmica.

Ne escono fuori altri episodi riuscitissimi: da “Reparto novità”, col suo inizio solenne, al crescendo nervoso di “Piazza Affari”, dall’equilibrio elettro/acustico di “Ragionamenti” in cui la voce si prende parte della scena, al suono arioso, quasi pop di “Roma” in cui Fiori dimostra la sua abilità poetica, “Tutti i treni hanno odore di mandarini/ Erano mesi in cui fioriscono anche i pali del telefono/ e sono fresche le gallerie”.

Qualche volta i miei studenti – racconta Franco Fabbri – mi chiedono: “Ma come facevate a suonare pezzi di 10 minuti a memoria senza fermarvi mai?” Ecco, purtroppo, molta musica che ascolto oggi ha un sentore di cameretta, di chiuso, di solitudine

Al volo” invece è un album capace di rappresentare davvero una stagione e un paesaggio, anche umano, ormai totalmente cambiato e dalla direzione segnata: “Mi trovo alla Standa/Non cerco niente” il verso che lo racconta con più efficacia.  

Al volo” descrive il nuovo decennio, il suo brusco ribaltamento rispetto al passato recente, con suoni   che riescono a guardare però sempre al futuro chiudendo un cerchio e un percorso  – che si è riaperto soltanto per una serie di  concerti – reunion – che ha visto gli Stormy Six  sempre e comunque   protagonisti. 

THE RISING FAWN STRING ENSEMBLE “Original Underground Music from the Mysterious South”

THE RISING FAWN STRING ENSEMBLE “Original Underground Music from the Mysterious South”

THE RISING FAWN STRING ENSEMBLE “Original Underground Music from the Mysterious South”

Rounder Records. LP, 1982

di alessandro nobis

Con questo terzo disco dell’orchestrina di cordofoni della Premiata Ditta Blake & Blake si completa a mio avviso il progetto nato tre anni prima con la registrazione di “The Rising Fawn String Ensemble” e del seguente “Full Moon on the Farm” del 1981 entrambi per la Rounder Records: laddove nel primo, con Blake, Bryan e Blake, il repertorio era composto da brani tradizionali o di autori come lo scozzese delle Shetland Tom Anderson o Uncle Dave Macon ed il secondo una magnifica combinazione di tradizionali e originali in questo terzo, come semplicemente si evince dalla lettura del titolo, è composto da brani di nuova composizione della suddetta Premiata Ditta. Inoltre la struttura dell’ensemble si fa ancora più articolata, passando dal quartetto con Nancy Blake al violoncello, Norman Blake (chitarra, mandolino, mando-cello e banjo tenore a otto corde), Charlie Collins alla chitarra ed il violinista James Bryan a quintetto con l’ingresso di Carol Jones (chitarra, mandolino, mandola, banjo tenore a otto corde), Larry Sledge (mando-cello) e Peter Ostrusko (mandolino, chitarra e violino) e quindi senza l’apporto di Bryan.

Ognuna delle dodici composizioni si diversifica rispetto alle altre per le combinazioni sonore e si rifanno spesso, ma non poteva essere altrimenti, agli standard della tradizione anglo·scoto·irlandese importata oltreatlantico nelle varie fasi migratorie. “Blake’s March” ad esempio che chiude la seconda facciata con uno splendido arrangiamento ed una bellissima parte riservata al violoncello oppure il delicato e splendente valzer “Natasha’s Waltz” aperto dalla chitarra di Carl Jones con tre mandolini (Blake, Ostrusko, Nancy Blake) quasi all’unisono accompagnati dal violoncello che disegnano un’atmosfera dal sapore quasi “mediterraneo” (il valzer era ed è ancora suonatissimo dalle orchestre e dai piccoli combo di mandolini italiani) ed infine la tradizione americana del ragtime di “Third Street Gipsy Rag“.

A mio avviso questo disco di Blake è uno dei migliori dove tutto è perfetto: suoni (grazie anche alla qualità degli strumenti impiegati ed alla loro scelta certosina brano per brano), capacità di riferirsi al passato scrivendo nuovi spartiti, arrangiamenti, perfetta intesa tra i musicisti. E’ vero, sono caratteristiche che poi ritrovi in tutte le produzioni di Norman Blake ma qui assumono un significato più alto, questo disco è uno dei suoi più riusciti, un capolavoro a mio giudizio.

  • (Google) English version

In my opinion, the project born three years earlier with the recording of “The Rising Fawn String Ensemble” and the following “Full Moon on the Farm” of 1981 both completes with this third disc of the orchestra of strings “Blake & Blake” for Rounder Records: where in the first the repertoire was composed of traditional songs or by authors such as Scotsman from Shetland Tom Anderson or Uncle Dave Macon and the second a magnificent combination of traditional and original in this third, as is simply evident from reading the title, is composed of newly composed pieces by the aforementioned Blakes. Furthermore, the structure of the ensemble becomes even more articulated, passing from the quartet with Nancy Blake on the cello, Norman Blake (guitar, mandolin, mando-cello and eight-string tenor banjo), Charlie Collins on guitar and violinist James Bryan as a quintet. with the entry of Carol Jones (guitar, mandolin, mandola, eight-string tenor banjo), Larry Sledge (mando-cello) and Peter Ostrusko (mandolin, guitar and violin) and therefore without the contribution of Bryan.

Each of the twelve compositions differs from the others for sound combinations and often refer, but it could not be otherwise, to the standards of the Anglo · Scot · Irish tradition imported across the Atlantic in the various migratory phases. “Blake’s March” for example which closes the second side with a splendid arrangement and a beautiful part reserved for the cello or the delicate and shining “Natasha’s Waltz” a waltz (of course) opened by Carl Jones’s guitar with three mandolins (Blake, Oustrusko, Nancy Blake) almost in unison accompanied by the cello that draw an atmosphere with an almost “Mediterranean” flavor (the waltz was and still is played by orchestras and small combos of Italian mandolins) and finally the American tradition of ragtime of “Third Street Gipsy Rag”.

In my opinion this Blake album is one of the best where everything is perfect: sounds (thanks also to the quality of the instruments used and their painstaking choice piece by piece), the ability to refer to the past by writing new scores, arrangements, perfect understanding between musicians. It’s true, these are characteristics that you find in all Norman Blake’s productions but here they take on a higher meaning, this record is one of his most successful, a masterpiece in my opinion.

SOSTIENE BORDIN: THE GUN CLUB “Miami”

SOSTIENE BORDIN: THE GUN CLUB “Miami”

SOSTIENE BORDIN: THE GUN CLUB “Miami”

Animal Records. LP, 1982

di Cristiano Bordin

Per lui in tanti hanno tirato in ballo il fantasma di Jim Morrison e, probabilmente Jeffrey Lee Pierce su quel paragone un po’ ci giocava. Ma se possiamo ritrovare qualche eco morrisoniano nel suo modo di cantare e di stare sul palco, il suo gruppo, i Gun Club, nel loro percorso hanno battuto strade diverse da quelle dei Doors. Quella principale è senza dubbio il blues: un blues velocizzato, drammatizzato, irrobustito, sporcato dall’esperienza del punk ma che però riaffiora sempre nel suono della band. Alla fine le radici contano sempre, vale, anche e soprattutto, per la musica.

Jeffrey Lee Pierce nasce a Los Angeles e frequenta l’ambiente punk della fine degli anni ‘70 e dei primi anni ‘80: quindi gli X, i Cramps, i Blasters. Se guardiamo bene però nessuno di questi gruppi è incasellabile nel punk per come era vissuto in Europa: perché le loro radici erano profondamente americane. E quindi, anche se si suonava più veloce ed i riff erano più secchi, il rock’n’roll, il country, il blues venivano fuori sempre ed era su quelle radici che veniva costruito il proprio suono.

Lo spiega bene il chitarrista del gruppo, Ward Dotson: “Non avevamo molto in comune con la scena punk, eravamo differenti e Jeff aveva le idee molto chiare su come far evolvere i Gun Club ed è riuscito a raggiungere il suo obiettivo. Jeff infatti non seguiva le orme di nessuno e non scimmiottava nessuno”.

Una prova –  il punto più alto della loro carriera- è proprio “Miami”, uscito nel 1982, dopo “Fire of love” e un rimaneggiamento della formazione da cui esce Kid “Congo” Powers per unirsi ai Cramps, poi rientrare e successivamente suonare per una decina di anni con Nick Cave ed i Bad Seeds.

A produrre l’album c’è un altro chitarrista, quello dei Blondie, Chris Stein e se guardiamo la lista dei brani troviamo più di un indizio su quella che è la strada presa dal gruppo: “Run through the jungle” cover dei Creedence Clearwater Revival, “Fire of love” un classico rock ‘n’ roll portato al successo da Jod Reynolds nel ‘58 e “John Hardy” brano con cui si erano già cimentati sia Johnny Cash che Bob Dylan, tanto per tornare al tema delle radici musicali della band.

In “Miami” ci sono i Gun Club al loro massimo splendore: lirici, sporchi dove serve, capaci di reinventare, di rileggere a modo loro sia il  country che  il blues. Qualche reminiscenza punk la troviamo ancora in “Bad indian” o in  “Devil in the woods”. Mentre “John Hardy” e “Fire of love” sono molto di più di un tributo: dentro c’è un po’ tutto lo spirito, l’epica e il vissuto musicale dei Gun Club. Non si può parlare di “cover”, per come sono state ripensate e suonate diventano due canzoni riconoscibili ma allo stesso tempo anche completamente nuove. Un po’ come succede a “Run through the jungle”: quale gruppo con le origini dei Gun Club avrebbe  mai pensato di confrontarsi con i Creedence? Eppure quello che ne esce fuori è un mezzo miracolo, un piccolo capolavoro, un brano capace di dare un segno ad un intero album e  alla fine, ancora,  una questione di radici.

In “Miami”, una parte non secondaria, infatti la gioca anche  la steel guitar, come la giocano i testi ed i richiami che vanno tutti nella direzione dei miti americani prestati al rock’n’roll: c’è posto infatti  per sciamani,  riti voodoo, pellerossa, paludi, frontiere. Un immaginario che scomoda ancora una volta la cultura popolare ed il blues. Ma Jeffrey Lee Pierce era – a dispetto della sua scontrosità, dei mantelli neri, degli anelli e delle collane indiane e purtroppo della sua autodistruttività – un autentica enciclopedia musicale e in “Miami” si sente.

Negli anni successivi uscirono “Las Vegas story”, 1984, un album solo “Wildweed” che non ebbe fortuna, e poi “Death party” e “Mother Juno”: tutti dischi da riscoprire.

La storia dei Gun Club e del suo leader finiscono nel marzo del 1996: il fisico di Jeffrey Lee Pierce, provato da anni di eroina e di alcool non reggerà  più.

A ricordarlo- ma per moltissimi potrebbe essere una scoperta-  è da poco uscito un documentario dall’azzeccatissimo titolo  di “Elvis from hell”: ci sono alcuni personaggi che hanno avuto a che fare con lui come Iggy Pop, Nick Cave, Debby Harry e un paio di illustri suoi fan come Jim Jarmusch e Jack White dei White Stripes. Un  doveroso tributo ad un gruppo capace di  influenzare moltissime altre band e ad un personaggio che  ha fatto davvero un pezzo di storia del rock a stelle e strisce negli anni Ottanta.

DICK GAUGHAN “The Harvard Tapes”

DICK GAUGHAN “The Harvard Tapes”

DICK GAUGHAN “The Harvard Tapes”

GREENTRAX RECORDS. CD, 2019

di Alessandro Nobis

La pubblicazione di questa registrazione dal vivo dello scozzese Dick Gaughan, effettuata da Brian O’Donovan alla Old Baptist Church a Cambridge nei pressi della Harvard University è a mio avviso una delle più importanti inziative di recupero di vecchi nastri di questo 2019, per ciò che mi riguarda per due ragioni.

DICK GAUGHAN copia
San Francesco al Corso, Verona 1981. Foto di Alessandro Nobis.

La prima è una ragione affettiva, visto che un anno prima circa avevo assistito ad uno strepitoso concerto di Gaughan a Verona, presso l’Auditorium di San Francesco al Corso durante il quale aveva presentato se non ricordo male una scaletta del tutto simile a quella di questo concerto americano – e del quale conservo gelosamente un paio di fotografie – ovvero basata sul suo lavoro del 1981 “Handful of heart” oltre a qualche strumentale e ad altri brani tradizionali assieme ad alcuni di altri autori. La seconda perché questa registrazione ci restituisce la grandezza interpretativa ed esecutiva di Dick Gaughan l’espressione più alta della musica tradizionale e d’autore che la Caledonia abbia mai prodotto: qui troviamo brani del già citato “Handful of Heart” ovvero il tradizionale “Erin Go Bragh”, “Song For Ireland” di Phil Colclough, “The world Turned Upside Down” di Leon Rosselson e “The Worker Song” di Ed Pickford, uno straordinario set di reels come “The Gooseberry Bush / The Chicago Reel / Jenny’s Welcome to Charlie” (a proposito, procuratevi l’inarrivabile “Coppers and Brass”, uno dei più importanti dischi di chitarra acustica) e tra gli altri una splendida versione di “Glenlogie”; chiude questo imperdibile disco una autentica chicca, una versione di “The Freedom Come All Ye” con Johnny Cunningham, violinista dei Silly Wizard.

Ma non finisce qui perché lo stesso Gaughan ha aggiunto al disco tre brani inediti non meno importanti del live, due registrati dal vivo tra il 2010 ed il 2012 ed un altro, “Connolly Was There” proveniente dall’archivio Greentrax.

Brano da dieci e lode, per me naturalmente, “Now Westlin’ Winds” (anche questo da “Handful of Heart) con il testo del poeta Robert Burns.

Ma Peggy cara, la sera è limpida,

volano in stormi le rondini leggere;

il cielo è azzurro; i campi, fin dove raggiunge lo sguardo,

son tutti d’un verde pallido e gialli;

vieni, percorriamo il nostro lieto sentiero

e contempliamo le bellezze della natura;

il grano che stormisce, i rovi coperti di frutti

ed ogni creatura felice”* (R. B.)

*Robert Burns “Poemetti e canzoni”. Traduzione di Adele Biagi, “Biblioteca Sansoniana Straniera”, SANSONI EDITORE 1953.

 

LA CIAPA RUSA

LA CIAPA RUSA

LA CIAPA RUSA

“Ten da chent l’archët che la sunada l’è longa””

MADAU DISCHI D-08, LP 1982

di Alessandro Nobis

Faccio fatica a credere che sono passati 35 (trentacinque!) anni dalla pubblicazione di questa straordinaria prova d’esordio da parte de La Ciapa Rusa, gruppo monferrino che a lungo – e in largo – si occupò di ricercare e di rinverdire il repertorio popolare nascosto nelle vallate e nelle contrade del basso Piemonte. Al tempo “La Ciapa” era formata da Maurizio Martinotti (voce, ghironda, cianfornia), Beppe Greppi (organetto diatonico e voce), Lorenzo Boioli (piffero, ocarina, zufoli) e Maurizio Padovan (violino) con le prestigiose presenze anche di Elisabetta Zambruno, Donata Pinti e Alberto Cesa al canto, Ettore Losini e Giorgio Delmastro.

Il progetto parte dalla registrazioni sul campo effettuate soprattutto dagli stessi musicisti in contatto con gli “informatori” ed in seguito con l’elaborazione ed i curatissimi arrangiamenti del repertorio, costituito da canti rituali (“La questua delle uova”), narrativi (Re Gilardin”, “La bevanda sonnifera” e “Gentil Galant”, conosciuta dalle mie parti come “La tentazione”) e da temi per danza: Gighe, Courant, Mazurche, Monferrine.

Un panorama completo della musica popolare dell’Alessandrino suonato con grande brillantezza, raffinatezza e competenza se è vero, come è vero, che il quartetto rimane ancora oggi uno dei punti cardine per quanti sono interessati al recupero ed allo studio della tradizione musicale. Un lavoro d’esordio di grande qualità e bellezza perfettamente in linea con quanto accadeva al tempo oltralpe e oltremanica in ambito folk dove La Ciapa Rusa era molto considerata ed apprezzata; “Ten da Chent” contribuì inoltre a far alzare le antenne delle curiosità ai folkettari italiani alle prese con un autentica ubriacatura dell’allora chiamato folk angloscotoirlandese, e per questo ringrazio caldamente ancora Beppe Greppi, Maurizio Martinotti & C.

Il disco è accompagnato da un libretto che minuziosamente riporta testi, notizie su tutti i brani suonati, insomma un fondamentale compendio all’ellepì che si aggiudicò il Premio della critica discografica nel settore folk. Meritatissimo.

 

 

DUCK BAKER  “Outside”

DUCK BAKER  “Outside”

DUCK BAKER  “Outside”

EMANEM CD, 2016.

di Alessandro Nobis

Se c’è un chitarrista “fingerpicking” che si discosta da tutti gli altri – per quel che ne so io -, questi è l’americano della Virginia – ma trapiantato in Inghilterra – Duck Baker. Questo per almeno due motivi: il primo è legato alla tipologia di chitarra che usa – corde di nylon piuttosto che quelle di metallo – ed il secondo legato alla sua grande capacità di improvvisare, di smontare e rimontare i brani altrui come nessun altro fingerpicker. scansioneQuesto “Outside”, con in copertina una bellissima foto in bianco e nero di Robin Moyer, raccoglie brani tratti dall’archivio dello stesso Baker, che vanno dal 1977 (Calgary) al 1982 (Torino) passando per Londra (1982). A parte due diverse riletture di “Peace” di Ornette Coleman, una di Davis  e Mitchell “You are my sunshine”, il resto sono tutte composizioni e improvvisazioni, da  quelle all’interno dei brani a quelle più radicali: “Klee” o “Torino” e “London Improvisation” lontane anni luce dal Duck Baker alle prese con il blues, il ragtime, il jazz e l’old time, anche se smontati e rimontati alla sua maniera. Segnalo infine anche i due infuocati brani che chiudono questo lavoro, eseguiti in duo con un altro bravissimo innovatore come il chitarrista del Vermont Eugene Chadbourne (andate ad ascoltare le sue rivisitazioni beatlesiane).

Un disco – al quale spero ne seguiranno altri – che contribuisce ad illuminare più a fondo lo spettro sonoro di questo musicista del quale l’eclettismo e l’originalità mi sembrano le qualità migliori. Naturalmente sorvolando sulla padronanza tecnica sulla quale sono stati scritti fiumi di parole.

 

www.emanemdisc.com

info@emanem.info

 

 

 

JORDI SAVALL, MONTSERRAT FIGUERAS “Battaglie e lamenti”

JORDI SAVALL, MONTSERRAT FIGUERAS “Battaglie e lamenti”

MONTSERRAT FIGUERAS – HESPERION XX – JORDI SAVALL

“Battaglie e lamenti”
 
ARCHIV PRODUKTION CD, 1982 – 2016

di Alessandro Nobis

Registrata nel 1981 in quel di Berlino, è stato pubblicata solo di recente quella che credo sia l’unica registrazione effettuata da Jordi Savall per la storica etichetta Archiv Produktion. Per la precisione però, Savall pubblicò per la sua Alia Vox nel 2000 un altro CD dallo stesso titolo, nel quale erano inclusi solamente due brani contenuti nel disco Archiv (gli autori erano Barbara Strozzi e Iacopo Peri).

Oltre a Savall naturalmente parteciparono a questa sessione di 35 anni fa l’Ensemble Hesperion XX (con tra gli altri il clavicembalista Ton Koopman) e la soprano Montserrat Figueras.

Il repertorio, tutto composto da autori vissuti tra il 16° ed il 17° secolo, è così particolare, così diverso dalla più conosciuta musica barocca da avermi lasciato letteralmente a bocca aperta per la sua originalità e bellezza. “Battaglie”, “Lamenti” e “Canzoni in echo” sono le tre tipologie presenti eseguite con la solita, si fa per dire, maestria, perizia ed intensità interpretativa da questo gruppo di musicisti che a tutt’oggi sono quanto di meglio sia possibile ascoltare nell’ambito del repertorio barocco e pre barocco.SAVALL

Le più sorprendenti, almeno per noi neofiti, sono le “Canzoni in Echo”: di origine è veneziana erano la geniale alternanza di parti musicali e cantate che prese il nome di “Cori Spezzati”. La loro naturale evoluzione furono appunto le “Canzoni in Echo”, nella quali – in poche parole – una parte dei musicisti esegue un frammento del brano ed immediatamente dopo altri musicisti ripetono le ultime battute in una sorta di effetto eco. I “Lamenti” – qui sono presenti quello composto da Jacopo Peri (“Lamento di Jole”) e da Barbara Strozzi (“Sul Rodano severo”) – rappresentano invece le più intime emozioni dell’animo umano, e l’esecuzione di Monserrat Figueras, Ton Koopman, basso continuo e tiorba ci restituisce perfettamente l’atmosfera e le idee che erano alla base di questo tipo di composizione.

Infine le “Battaglie”, composizioni direi descrittive nelle quali la partitura riproduce suoni di fanfare militari, urla guerresche, incrociare di spade attraverso l’uso di ritmi martellanti, ripetizione frequente delle stesse note e delle parti cantate; tra queste sottolineo “Aria della battaglia a 8” di Annibale Padovano che apre questo esemplare disco.