SOSTIENE BORDIN: DEVO “Q: Are we not men? A: We are Devo”

SOSTIENE BORDIN: DEVO “Q: Are we not men? A: We are Devo”

SOSTIENE BORDIN: DEVO

“Q: Are we not men? A:We are Devo”

VIRGIN RECORDS. LP, 1978

di Cristiano Bordin

Se per produrre il disco di esordio di una band si offrono David Bowie, Brian Eno, Robert Fripp e Iggy Pop è facile prevedere che quell’album sarà destinato a restare nella storia. Ed è quello che è successo a “Q:Are we not men? A:We are Devo”. Se vogliamo tradurre in suoni una definizione come “new wave” la scelta può sicuramente cadere su questo disco.

L’anno era il 1978 e, per la cronaca, la gara tra i produttori la vinse Brian Eno che però dovette poi mediare parecchio con il quintetto di Akron, Ohio. “Q. are we not men? A: We are Devo” è insomma il classico disco   capace di reggere i cambiamenti epocali che ci sono stati nella musica da allora ad oggi e quindi di diventare un disco senza tempo. I suoni- per quanto realizzati con le tecnologie e gli strumenti dell’epoca-  sono ancora  freschi e potenti come allora. Basta il riff di “Uncontrollable urge”, la voce schizoide di Gerry Casale, i cori- elemento importante dell’album- e si è pronti per un viaggio in un mondo alla rovescia e per un futuro inquietante anche se descritto con ironia. “Era un mongoloide/A nessuno importava/ Più felice di te e di me”: dice infatti “Mongoloid”.

Ma il viaggio nel futuro – o quello che sarebbe stato il nostro futuro senza che noi lo sapessimo – continua con l’episodio forse più celebre, una “Satisfaction” che da monumento della storia del rock   si trasforma diventando un’altra cosa, lontano anni luce dall’essere una cover. Ma il 1978 conosceva anche l’esplosione del punk: c’è traccia di questo nel disco? Senz’altro, tenendo conto che “punk” per i Devo è una forma di espressione, un mezzo, non una gabbia, e che quindi finiscono per essere quelli che hanno tenuto davvero fede al senso originario di quel movimento. “Come back Jonee”, “Gut feeling” devono molto al punk, i riff sono secchi come epoca impone, ma poi c’è sempre qualche particolare, qualche invenzione che supera i clichè.

I cinque di Akron- i fratelli Casale, i fratelli Mothersbaugh con il batterista Alan Myers – hanno la capacità di reinventare e di rileggere suoni ed ispirazioni tra le più diverse: dai Kraftwerk al punk, dall’elettronica a Captain Beefhart alle sigle pubblicitarie. Ne esce un disco da ascoltare, quasi 45 anni dopo, tutto di un  fiato fino al finale, più lento e avvolgente, di “Shrivel up”.

C’è un altro elemento importante che segna la storia di questo come dei lavori successivi: la visionarietà, il saper vedere un mondo che cambiava in peggio quando erano in pochi ad accorgersene. E in questa capacità c’entra anche il vissuto dei protagonisti. Il 4 maggio 1970 quando scoppia la rivolta studentesca alla Kent State in Ohio e la polizia spara Gerry Casale era lì. Se andiamo oltre le tute gialle, il gusto per lo show, gli occhiali bizzarri e i cappelli elicoidali scopriamo un gruppo che aveva una forte carica politica. “Sono sempre stato politicizzato – racconta in una intervista Casale – qualunque scelta che noi facciamo è politica, anche la più banale. Oggi stiamo assistendo ad una separazione tra i poveri e ricchi sempre più ricchi, antidemocratici per definizione. Siamo arrivati a questo punto per colpa del peggior capitalismo possibile”.

La devoluzione ha vinto come loro avevano previsto e anche in Usa se ne vedono i frutti come si è visto nei protagonisti dell’assalto a Capitol Hill: “Vogliamo parlare di quel tipo con l’elmo da vichingo? – continua Casale – Assolutamente incredibile, un vero subumano. “Are we not men“? Ecco spiegato il senso di un titolo come quello”.

Il cerchio si chiude, passato e presente con questo album si mescolano, la distopia è servita e la devoluzione continua a stravincere.

Loro, nel 1978, avevano già capito tutto…

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JOHN SURMAN “Westering Home”

JOHN SURMAN “Westering Home”

JOHN SURMAN “Westering Home”

Island · Help Records. LP, 1972

di alessandro nobis

Sette anni prima di “Upon Reflection“, uno dei suoi album più significativi pubblicato dalla ECM di Manfred Eicher, John Surman registra in completa solitudine questo bel disco per la Island · Help Records di Chris Blackwell, dando un chiaro segnale del suo orientamento stilistico diverso da quello di altri esimi colleghi come Steve Lacy o Evan Parker per citarne due, vuoi per l’utilizzo di sovraincisioni, per la costruzione dei brani in itinere ed infine per l’utilizzo del pianoforte, della concertina, flauti e di piccole percussioni oltre naturalmente ai sassofoni soprano, baritono e al clarinetto basso. E’ un progetto, quello solista, con il quale Surman ha attraversato tutta la sua carriera ed è ovviamente diverso da quelli come i trii con Phillips e Martin o Skidmore e Osborne, il duo con John Taylor o i lavori pensati per un organico orchestrale e anche dal vivo, ho avuto la fortuna di assistere ad un paio di sue performance, la carica espressiva mutuata tra la melodia, un intelligente uso dell’elettronica e l’improvvisazione è straordinaria specialmente in ambientazioni storico · artistiche. Il brano che più ha destato il mio interesse è senz’altro “Hornpipe“, un ritmo di danza tipico delle isole britanniche aperto dalla concertina che espone il tema ispirato alla tradizione e sul cui suono si innestano improvvisazioni prima del baritono e quindi del sax soprano; “Watershed” ha una lunga introduzione di percussioni per lasciare poi lo spazio al flauto “dritto” (gli esperti hanno definito la musica solista di Surman a tratti “pastorale” e questo brano ne è un chiaro esempio, “Walrus” vede come protagonisti il clarinetto basso inciso su più piste ed infine cito “Jyning” dove Surman con il baritono crea nuova musica su di un delicato tappeto di sintetizzatore.

Considerando il periodo della sua realizzazione (1972) ovvero mezzo secolo fa, le produzioni coeve di Surman e avendo potuto seguire la sua storia musicale fino ad oggi, mi sento di considerare questo “Westering Home” uno dei più interessanti lavori del compositore e fiatista inglese e consiglio modestamente a quanti seguono Surman dagli inizi del suo periodo ECM di andare ad ascoltare questo ed i suoi lavori, come detto prima, ad esso coevi.

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Seven years before “Upon Reflection”, one of his most significant albums released by Manfred Eicher’s ECM, John Surman records in complete solitude this beautiful record for Chris Blackwell’s Island Help Records, giving a clear signal of his different stylistic orientation from that of other distinguished colleagues such as Steve Lacy or Evan Parker to name two, either for the use of overdubs, for the construction of the songs in progress and finally for the use of the piano, the concertina, flutes and small percussions as well as of course on soprano, baritone saxophones and bass clarinet. It is a project, the solo one, with which Surman has crossed his entire career and it is obviously different from those such as the trios with Phillips and Martin or Skidmore and Osborne, the duo with John Taylor or the works designed for an orchestral ensemble and also live, I was lucky enough to attend a couple of his performances, the expressive power borrowed between the melody, an intelligent use of electronics and improvisation is extraordinary especially in historical · artistic settings. The piece that most aroused my interest is undoubtedly “Hornpipe”, a dance rhythm typical of the British Isles opened by the concertina which exhibits the theme inspired by tradition and on whose sound improvisations are grafted first by the baritone and then by the soprano sax ; “Watershed” has a long percussion introduction to then leave space for the “straight” flute (experts have defined Surman’s solo music at times “pastoral” and this piece is a clear example of it, “Walrus” features the bass clarinet recorded on several tracks and finally I quote “Jyning” where Surman with the baritone creates new music on a delicate synthesizer carpet. Considering the period of its realization (1972) or half a century ago, the contemporary productions of Surman and having been able to follow his musical history up to today, I feel like considering this “Western Home” one of the most interesting works of the English composer and wind player and I modestly advise those who have followed Surman since the beginning of his ECM period to go and listen to this and his contemporary works, as mentioned before.


	

EMILIO SALGARI “I Selvaggi della Papuasia”

EMILIO SALGARI “I Selvaggi della Papuasia”

EMILIO SALGARI “I Selvaggi della Papuasia”

a cura di Claudio Gallo e Giuseppe Bonomi

Oligo Editore. Vol. 12 x 16,5 pp. 53, € 12,00

di alessandro nobis

A centosessanta anni dalla nascita, e a centodieci dalla morte di Emilio Salgari viene pubblicato dalla Oligo Editore il primo racconto di quello che a ragione viene considerato uno dei maggiori autori della letteratura avventurosa: “I Selvaggi della Papuasia“, originariamente pubblicato tra il luglio e l’agosto 1883 dalla rivista “La Valigia” dell’editore milanese Garbini.

Questo volumetto “tascabile” il cui contenuto è in grado di farvi salire a bordo del brigantino olandese Haarlem agli ordini del capitano Wan Nordholm in un men che non si dica in un qualsiasi momento ed ovunque vi troviate, non è naturalmente inedito ma la cura con la quale gli studiosi Claudio Gallo e Giuseppe Bonomi hanno dedicato alla sua pubblicazione lo fa preferire alle altre ristampe al là delle belle, necessarie ed importanti pagine che i due curatori hanno scritto ed inserito in apertura, a mio modesto parere un viatico alla lettura ed al “viaggio” nei mari del Pacifico navigando tra le isole dei papuas.

Galeotto fu l’onomastico del Capitano sulla rotta da Mindanao alla Nuova Zelanda celebrato con abbondanti libagioni innaffiate da vini del Reno e della Spagna e dall’immancabile rhum naturalmente, ma a rovinare la festa ci si mise un vento notturno che spinse il brigantino e la sua ciurma ormai privata dei sensi ed in preda dei fumi dell’alcool sulle sabbie non lontane da una delle isole della Papuasia i cui abitanti su sei veloci piroghe non persero l’occasione di raggiungere la Harleem ormai bloccata e inclinata su un fianco. Battaglia, massacro, cannibalismo, estinzione dell’equipaggio e l’indomani fuga del fortunato Nordholm che per un mese vagò per i mari fino a quando ….

Segnalo infine che i due curatori hanno recentemente pubblicato sempre per “Oligo Edizione” una monumentale biografia del “Nostro” ovvero “Emilio Salgari · scrittore di avventure“, settecentotrentaquattro pagine per quella che a meno di ritrovamenti in archivi pubblici o nelle quasi sempre insondabili collezioni private viene considerata il definitivo racconto della vita di questo straordinario autore.

Senza il prezioso pluri · decennale lavoro di Bonomo e Gallo i dettagli, l’accurato metodo scientifico utilizzato per lo studio delle fonti e dei particolari della produzione letteraria di Salgari sarebbero ancora in parte sconosciuti, e a loro pertanto va tutta la nostra stima per la passione e dedizione nei confronti della divulgazione delle opere dello scrittore veronese.

Un lavoro lungo, difficile, minuzioso, credibile e attendibile quasi sempre non o poco riconosciuto economicamente, ma nel nostro Paese purtroppo questa è una consuetudine tanto da lanciare da qui l’idea di cambiare l’Art. 1 della nostra bellissima Costituzione in “L’Italia è una Repubblica Democratica fondata principalmente sul volontariato culturale“. E ciò è davvero triste.

Contatti con l’autore:

https://www.facebook.com/claudiomaxgallo

maxclaudiogallo@gmail.com

FEDERICO MOSCONI “Dreamers and Tides”

FEDERICO MOSCONI “Dreamers and Tides”

FEDERICO MOSCONI “Dreamers and Tides”

AUTOPRODUZIONE. CD, 2021

di alessandro nobis

Negozi “di prossimità” in via di estinzione (i rimasti dovrebbero essere patrimoni dell’UNESCO), distribuzione pressoché assente, di etichette indipendenti in grado di gestire una promozione e conseguente distribuzione se ne stanno perdendo le tracce, le vendite on line di musica autoprodotta e i download digitali, rassegne e festival realmente interessati alle nuove proposte: se vivi in Italia, sei un musicista e speri di poter vivere del tuo talento e della musica che concepisci e realizzi sembra non ci sia speranza. Ti trovi un altro lavoro che sia almeno dignitoso e la tua passione la lasci nelle pieghe del tempo che il lavoro ti consente di sfruttare. Quanto detto calza a mio avviso a pennello se si un musicista che suona musica di avanguardia · intendo quel jazz e dintorni legato all’improvvisazione · o quella definita “ambient” un termine coniato quaranta anni or sono da certo Brian Eno.

L’ho fatta un po’ lunga perchè il percorso artistico di Federico Mosconi, fine chitarrista di consolidata formazione classica dedito da qualche anno alla musica contemporanea “ambient” si riflette almeno in parte in quanto scritto: produzioni centellinate, poche decine di copie fisiche e musica “liquida” · mi tocca purtroppo usale questo temine a mio avviso orribile · disponibile sul web. Come questo ottimo “Dreamers and Tides” pubblicato nel ’21, sei lunghe tracce estremamente amabili all’ascolto che se approfondito rivelano una accurata progettazione degli stessi, dove il suon antico della chitarra classica come nell’introspettivo “Dance of slow waters” viene fatto avvicinare e poi intersecare con il fascino dell’elettronica e dove come nel lungo brano eponimo “Dreamers and Tides” si rivela una stratificazione sonora sia per la presenza della chitarra magistralmente filtrata da sembrare assente con la musica creata dalla “macchina” ispirata dal musicista. La musica contemporanea · la definirei elettronica piuttosto che ambient · non è di facile codificazione lasciando largo spazio alla sensibilità del fruitore e questo è anche il suo fascino, non essendo vincolata come altri idiomi a regole, gabbie esecutive o altro.

Un altro bel lavoro di Federico Mosconi, un peccato che musicisti come lui meriterebbero ben di più che essere “relegati” in una piccola nicchia di “mercato”. L’importante è pervicacemente seguire la propria filosofia senza guardarsi troppo intorno; i suoi estimatori si aspettano altre gemme come questo ” Dreamers And Tides” e personalmente penso che non saranno delusi.

https://federicomosconi.bandcamp.com/album/dreamers-and-tides

JOHN HARTFORD “Aereo · Plain”

JOHN HARTFORD “Aereo · Plain”

JOHN HARTFORD “Aereo · Plain”

Warner Bros. Records. LP, 1971

di alessandro nobis

Ci sono a mio modesto avviso tre lavori fondamentali del polistrumentista, compositore e cantante newyorkese John Hartford scomparso prematuramente nel 2001: “Mark Twang” del 1976 inciso in completa solitudine, “Morning Bugle” del ’72 con Dave Holland e Norman Blake (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2021/08/18/john-hartford-%c2%b7-norman-blake-%c2%b7-dave-holland-morning-bugle/) e questo “Aero · Plain” al quale danno il loro contributo Norman Blake, Vassar Clement, Tut Taylor e Randy Scruggs: rappresenta secondo i musicologi il primo disco di “NewGrass” ovvero quel genere musicale che si distacca dall’ortodossia del bluegrass canonico per l’inserimento di arrangiamenti che lasciano spazio a nuovi colori musicali di provenienza jazz, country ma anche di certo rock. Come scrissi in altra occasione Peter Rowan mi raccontò come i musicisti come Hartford o Jerry Garcia con gli Old & In The Way · nei quali militava Rowan · pur molto legati alla tradizione fossero mal o per nulla sopportati dai musicisti bluegrass che pur essendo in molti casi straordinari musicisti palesavano una mentalità rigida ed una grande autoreferenzialità nei confronti di una qualsiasi innovazione.

Il disco si apre · e si chiude · con due interpretazioni di un brano del compositore “Albert E. Brumley” (1905 · 1977), ossia “Turn the Radio On“, quasi un invito all’ascolto della bellissima musica che contiene questo settimo album di Hartford  che, a parte il tradizionale “Leather Britches” eseguito dal banjo e dal violino di Vassar Clements e l’omaggio al Grand Ole Opry scritto a quattro mani con Tut Taylor e cantato a quattro voci, contiene brani composti dal pluristrumentista della East Coast. Cito “Because of You” con Hartford al violino, voce e canto, lo strumentale “Presbyterian Rag” con Randy Scruggs al contrabbasso ed infine “Steamboat Whistle Blues” con la band al completo, un brano legato alla navigazione sul Mississippi, tema caro ad Hartford (vedi il già citato disco “Mark Twang”.

Aero · Plain” è come detto disco importante che descrive in modo chiaro una diversa visione della musica tradizionale americana e con il monumentale “Will The Circle Be Umbroken” rappresentò per quegli anni il “folk che sarebbe venuto”.

Nel 2002 la Rounder pubblicò una serie di out·takes di queste session a mezzo secolo dalla loro registrazione: (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2021/10/18/suoni-riemersi-john-hartford-steam-powered-aereo-takes/)

In my humble opinion, there are three fundamental works by the New York multi-instrumentalist, composer and singer John Hartford who died prematurely in 2001: "Mark Twang" from 1976 recorded in complete solitude, "Morning Bugle" from '72 with Dave Holland and Norman Blake (https: //ildiapasonblog.wordpress.com/2021/08/18/john-hartford-%c2%b7-norman-blake-%c2%b7-dave-holland-morning-bugle/) and this "Aero · Plain" to which Norman Blake, Vassar Clement, Tut Taylor and Randy Scruggs give their contribution: according to musicologists it represents the first album of "NewGrass" or that musical genre that detaches itself from the orthodoxy of the canonical bluegrass for the insertion of arrangements that leave room for new musical colors coming from jazz, country but certainly also rock. As I wrote on another occasion, Peter Rowan told me how musicians like Hartford or Jerry Garcia with the Old & In The Way · in which Rowan was a member · although very tied to tradition were poorly or not at all tolerated by bluegrass musicians who, despite being in many cases extraordinary musicians revealed a rigid mentality and a great self-referentiality towards any innovation.
The disc opens · and closes · with two interpretations of a piece by the composer "Albert E. Brumley" (1905 · 1977), namely "Turn the Radio On", almost an invitation to listen to the beautiful music that contains this seventh Hartford album which, apart from the traditional "Leather Britches" performed by Vassar Clements' banjo and violin and the homage to the Grand Ole Opry written in four hands with Tut Taylor and sung for four voices, contains songs composed by the multi-instrumentalist of East Coast. I mention "Because of You" with Hartford on violin, voice and singing, the instrumental "Presbyterian Rag" with Randy Scruggs on double bass and finally "Steamboat Whistle Blues" with the full band, a song related to navigation on the Mississippi, a theme dear to Hartford (see the aforementioned "Mark Twang" record.
"Aero · Plain" is, as said, an important disc that clearly describes a different vision of traditional American music and with the monumental "Will The Circle Be Umbroken" represented for those years the "folk that would come".

In 2002 Rounder published a series of out take of these sessions half a century after their recording: (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2021/10/18/suoni-riemersi-john-hartford-steam-powered- airplane-takes/)

COLOSSEUM “The Reunion Concerts 1994”

COLOSSEUM “The Reunion Concerts 1994”

COLOSSEUM “The Reunion Concerts 1994”

Intuition Records. CD 1995

di alessandro nobis

Questa magnifica testimonianza dal vivo della band di John Hiseman & Co. fa il paio con “Live Cologne 1994” pubblicata nel 2003 dalla Angel Air: è il 28 ottobre del 1994 ed i Colosseum tengono un concerto appunto a Colonia, in Germania, 23 anni dopo lo scioglimento della band ed è qui che accade il miracolo perchè in tutto questo tempo la classe, l’intensità, la passione e l’anima di questa musica è rimasta inalterata e la tecnologia dell’audio e della registrazione regalano ai fans della band di John Hiseman ulteriore, se possibile, splendore, raffinatezza ed un pizzico di nostalgia visto che “Those About To Die …” e “Stormy Monday Blues” provengono dalla registrazione del concerto che il gruppo tenne dopo quello di 23 anni fa al Zelt-Musik-Festival di Friburgo. Il sestetto è quello classico e a parte uno splendido quanto lungo assolo (28 minuti) di John Hiseman che snocciola qui tutta la sua tecnica e la sua creatività, i brani sono quelli che dopo tutto quel tempo il pubblico si aspettava come “Valentyne Suite“, “Those About to die …” (il brano più vicino al jazz con i soli di Greenslade all’Hammond e di HeckStall Smith), ci sono naturalmente il brano iconico di Jack Bruce “Theme from Imaginary Western” con la sempre incisiva interpretazioni di Farlowe, il super classico blues di T·Bone Walker “Stormy Monday Blues” e la progressione di hammond che apre “Lost Angeles“, ed infine lo shuffle di “Elegy” e “The Machine Demands a Sacrifice” che introduce il solo già citato di Hiseman.

Un tour questo che in qualche modo segnerà una svolta musicale della band visto che i magnifici 6 trovarono il tempo e le sinergie di comporre e registrare un album, “Bread & Circuses” a suo modo lontano dallo stile “classico” di John Hisemana & Co..

Ma questa è un’altra storia (che racconteremo).

This magnificent live testimony of the John Hiseman & Co. band is paired with "Live Cologne 1994" published in 2003 by Angel Air: it is October 28, 1994 and the Colosseum hold a concert precisely in Cologne, Germany, 23 years after the breakup of the band and it is here that the miracle happens because in all this time the class, intensity, passion and soul of this music has remained unchanged and the audio and recording technology give the fans of the band by John Hiseman further, if possible, splendor, sophistication and a pinch of nostalgia since "Those About To Die ..." and "Stormy Monday Blues" come from the recording of the concert that the group held after the one 23 years ago at Zelt - Freiburg Music Festival. The sextet is the classic one and apart from a splendid and long solo (28 minutes) by John Hiseman who rattles off all his technique and creativity here, the songs are what after all that time the public expected as the "Valentyne Suite", "Those About to die ..." (closer to jazz with solos by Greenslade at Hammond and HeckStall Smith), there are of course Jack Bruce's iconic track "Theme from Imaginary Western" with the ever incisive interpretations by Farlowe, the super classic blues by T Bone Walker "Stormy Monday Blues" and the progression by hammond which opens "Lost Angeles", and finally the shuffle of "Elegy" and "The Machine Demands a Sacrifice" which introduces the already cited by Hiseman.

This tour will somehow mark a musical turning point for the band as the magnificent 6 found the time and synergies to compose and record an album, "Bread & Circuses" in its own way far from the "classic" style of John Hisemana & Co ..

But that's another story (which we will tell).

OSSIAN “Ossian”

OSSIAN “Ossian”

OSSIAN “Ossian”

Springthyme Records. LP, 1977

di alessandro nobis

Nel ’77 viene pubblicato dall’etichetta scozzese Springthyme l’album di esordio di uno dei gruppi che negli anni successivi verrà considerato assieme a pochi altri (Battlefield Band, Silly Wizard, Boys of the Lough) come riferimento del cosiddetto folk·revival della terra di Scozia, gli Ossian. Questa prima line·up era un quartetto, con George Jackson (violino, plettri, flauti e chitarra), Billy Jackson (arpa scozzese, uilleann pipes, flauti), John Martin (violoncello, violino e mandolino) e Billy Ross (chitarra, flauto e dulcimer); ho di proposito tralasciato di citare le quattro voci perchè gli arrangiamenti, le armonie e la bellezza delle parti vocali sono sempre state una delle caratteri che identificano della musica degli Ossian naturalmente assieme il suono dell’arpa scozzese in studio ed anche dal vivo.

Il repertorio degli Ossian · band che prende il nome dell’omonimo bardo del III secolo · è ricchissimo e la scelta è sempre oculata alla ricerca della più pura delle tradizioni e dei poeti, numerosissimi, che nei secoli hanno scritto della loro terra e delle persone che la abitano. Come la ballata “The Corncrake” raccolta nel sud ovest scozzese che apre il disco ed è una love song che fa riferimento al richiamo della quaglia, uccello diventato molto raro a causa della diminuzione del suo habitat lungo il fiume Doune; è una canzone conosciuta in tutta la Scozia continentale e proviene dalla raccolta di Folk Songs di Greig-Duncan stampata nel 1925, qui abbinata a “I Hae a Wife O Ma Ain” una lirica di Robert Burns suonata a tempo di jig. Splendido il set “ The 72nd Highlanders Farewell Tae Aberdeen (Pipe March) / The Favourite Dram (Bumpkin)” eseguito da due violini, clarsach e flauto che combina una pipe·march ad un slip·jig dalla collezione risalente al 1816 di Simon Fraser, come la slow air proveniente dalla roccoltae del violinista e compositore James Scott Skinner (“The Strathsey King”) vissuto tra il 1843 ed il 1927 ed infine voglio citare il set di reels provenienti dalle isole Shetland “ Spootaskerry (Shetland Reels) / The Willow Kishie / Simon’s Wart ” composti rispettivamente da Ian Burns, Willie Hunter Jr. e Wille Hunter Sr..

Questo disco eponimo degli Ossian non dovrebbe mancare in una collezione di musica tradizionale che si rispetti a mio avviso, come peraltro anche “Seal Song” e St. Kilda Wedding (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2022/11/14/ossian-st-kilda-wedding/). A questi aggiungerei anche il disco solo del compianto Tony Cuffe che più tardi entrerà nel gruppo lasciando un’impronta importante (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2021/03/02/suoni-riemersi-tony-cuffe-when-first-i-went-to-caledonia/).

In 1977 the Scottish label Springthyme released the debut album of one of the groups who in the following years would be considered together with a few others (Battlefield Band, Silly Wizard, Boys of the Lough) as a reference of the so-called folk revival of the earth of Scotland, the Ossians. This first line up was a quartet, featuring George Jackson (violin, picks, flutes and guitar), Billy Jackson (Scottish harp, uilleann pipes, flutes), John Martin (cello, violin and mandolin) and Billy Ross (guitar, flute and dulcimer); I deliberately omitted to mention the four voices because the arrangements, the harmonies and the beauty of the vocal parts have always been one of the characteristics that identify Ossian's music naturally together with the sound of the Scottish harp in the studio and also live.

The repertoire of Ossian · a band that takes its name from the 3rd century bard of the same name · is very rich and the choice is always careful in search of the purest of traditions and poets, very numerous, who over the centuries have written about their land and people who inhabit it. Like the ballad "The Corncrake" collected in southwestern Scotland that opens the disc and is a love song that refers to the call of the quail, a bird that has become very rare due to the decrease in its habitat along the Doune river; is a song known throughout mainland Scotland and comes from Greig-Duncan's collection of Folk Songs printed in 1925, here combined with "I Hae a Wife O Ma Ain" a Robert Burns lyric played in jig time. The set "The 72nd Highlanders Farewell Tae Aberdeen (Pipe March) / The Favorite Dram (Bumpkin)" performed by two violins, clarsach and flute that combines a pipe march with a slip jig from the collection dating back to 1816 by Simon Fraser is splendid. like the slow air coming from the violinist and composer James Scott Skinner ("The Strathsey King") who lived between 1843 and 1927 and finally I want to mention the set of reels from the Shetland Islands " Spootaskerry (Shetland Reels) / The Willow Kishie / Simon's Wart" composed by Ian Burns, Willie Hunter Jr. and Wille Hunter Sr. respectively.

This eponymous album by Ossian shouldn't be missing in a self-respecting traditional music collection in my opinion, as well as "Seal Song" and St. Kilda Wedding (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2022/11/14/ ossian-st-kilda-wedding/). To these I would also add the solo album by the late Tony Cuffe who will later join the group leaving an important imprint (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2021/03/02/suoni-riemersi-tony-cuffe-when-first -i-went-to-caledonia/).

COREA · BRAXTON · ALTSCHUL · HOLLAND “Early Circle”

COREA · BRAXTON · ALTSCHUL · HOLLAND “Early Circle”

COREA · BRAXTON · ALTSCHUL · HOLLAND “Early Circle”

Blue Note Records. CD, 1992 (rec. 1970)

di alessandro nobis

Qualche mese prima della loro tourneè europea testimoniata dal doppio disco “Paris Concert” pubblicato dall’ECM nel 1972 (il concerto a Parigi del 21 febbraio all’auditorium della O.R.T.F) Chick Corea, Barry Altschul, Dave Holland ed Anthony Braxton entrano in uno studio newyorkese per registrare una decina di brani pubblicati nel 1992 con il titolo piuttosto emblematico di “Early Circle“, quasi a puntualizzare che cosa era successo musicalmente prima del doppio ECM, una delle pubblicazioni più interessanti di sempre dell’etichetta di Manfred Eicher. La musica di Circle va inquadrata nel jazz più di avanguardia ed innovativa del tempo, più vicina al mondo dell’improvvisazione ed al jazz europeo segnata dalla parziale uscita dalle reinterpretazioni di standard · nel doppio c’è una splendida versione di “Nefertiti” di Wayne Shorter · e dalla ricerca di una via diversa nell’interplay che pur lasciando ampia libertà di azione ai musicisti pone comunque dei punti di incontro tra le linee suonate dagli stessi anticipando in qualche modo i tempi di una nuova fase del jazz; musica che ottenne grandi consensi dalla critica specializzata ma talvolta non dal pubblico che si aspettava naturalmente un jazz più vicino al mainstream ma, lo abbiamo imparato in seguito, se sul palco ci sono due come Altschul e Braxton non ti puoi aspettare standards eseguiti in modo canonico, ed anche di Holland e del Corea di quegli anni possiamo, credo, fare la stessa considerazione.

L’unico brano in comune con il doppio ECM è “73° – A KELVIN” scritta da Anthony Braxton, allora solo ventiseienne, affascinante per la scrittura del sassofonista così vicina alla musica contemporanea che anticipava il suo percorso negli anni successivi, e molto interessanti le tracce dove Holland è impegnato alla chitarra acustica: mi riferisco ad esempio a “Chimes I” e l’introspettivo e magico “Ballad” dove apre il brano nel quale poi intervengono il pianoforte ed il flauto di Braxton. Holland è anche ottimo violoncellista, e lo ascolta in “Chimes II” aperta dalle percussioni di Corea e dal pianoforte sulle quali il soprano e il violoncello in piena libertà (a me così pare) ricamano assoli che sembrano non guardarsi ma che invece sono caratterizzati da un efficace interplay.

Disco che a mio avviso è assolutamente complementare al già citato doppio, da cercare assolutamente.

A few months before their European tour witnessed by the double disc "Paris Concert" published by ECM in 1972 (the concert in Paris on February 21 at the O.R.T.F auditorium) Chick Corea, Barry Altschul, Dave Holland and Anthony Braxton enter in a New York studio to record a dozen songs published in 1992 with the rather emblematic title of "Early Circle", as if to point out what had happened musically before the double ECM, one of the most interesting releases ever of the label by Manfred Eicher. Circle's music should be framed in the most avant-garde and innovative jazz of the time, closer to the world of improvisation and to European jazz marked by the partial exit from standard reinterpretations · in the double there is a splendid version of Wayne's "Nefertiti" Shorter · and from the search for a different way in the interplay which, while leaving ample freedom of action to the musicians, nonetheless establishes meeting points between the lines played by them, somehow anticipating the times of a new phase of jazz; music that got great acclaim from the specialized critics but sometimes not from the public who naturally expected a jazz closer to the mainstream but, we learned later, if there are two on stage like Altschul and Braxton you can't expect standards performed in a canonical way , and also of Holland and Korea of ​​those years we can, I believe, make the same consideration.

The only song in common with the double ECM is "73° - A KELVIN" written by Anthony Braxton, then only twenty-six years old, fascinating for the saxophonist's writing so close to contemporary music that anticipated his path in the following years, and very interesting the tracks where Holland plays the acoustic guitar: I'm referring for example to "Chimes I" and the introspective and magical "Ballad" where he opens the piece in which Braxton's piano and flute then intervene. Holland is also an excellent cellist, and he listens to him in "Chimes II" opened by Korea's percussions and piano on which the soprano and cello in full freedom (so it seems to me) embroider solos that seem not to look at each other but which instead are characterized by an effective interplay.

Disc which in my opinion is absolutely complementary to the aforementioned double, to be sought absolutely.

SEÁN Ó RIADA “Port Na bPúcaí”

SEÁN Ó RIADA “Port Na bPúcaí”

SEÁN Ó RIADA “Port Na bPúcaí”

Gael Linn Records. CD, 2014 (rec. 1971)

di alessandro nobis

Se c’è una figura cardine nella storia della musica tradizionale irlandese del secolo scorso, questa è quella di John Reidy, conosciuto a tutti come Seán Ó Riada nato a Cork (nacque il 1 agosto 1931) e spentosi a solamente a quarant’anni al King’s College Hospital di Londra dopo aver sofferto lungamente di cirrosi epatica. Vita purtroppo breve la sua ma che nell’ambito della riscoperta del folk irlandese ha lasciato un solco indelebile in termini di virtuosismo, di composizione e di direzione di orchestre e soprattutto per aver fondato il Ceoltóirí Chualann ensemble seminale dal quale si formarono i Chieftains e che ancora oggi gode del massimo rispetto dai musicisti e dagli appassionati delle tradizione. Una lezione, quella di suonare e di ispirarsi alla tradizione componendone di nuova ed intrepretandola con il pianoforte, tramandata alle generazioni successive come testimoniano la carriera di Mícheál Ó Súilleabháin, scomparso nel 2018, e dal pianista di Armagh Caoimhin Vallely autore dell’emblematico “Strayaway” del 2005 e del CD che porta il suo nome pubblicato nel 2016 (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/12/06/caoimhin-vallely-caoimhin-vallely/).

If there is a basic figure in the history of traditional Irish music of the last century, this is that of John Reidy, known to all as Seán Ó Riada born in Cork (born on 1 August 1931) and died only at the age of forty at the King's College Hospital in London after a long period of cirrhosis of the liver. Unfortunately, his life was short but in the context of the rediscovery of Irish folk he left an indelible mark in terms of virtuosity, composition and conducting of orchestras and above all for having founded the Ceoltóirí Chualann seminal ensemble from which the Chieftains were formed and which still today it enjoys the utmost respect from musicians and tradition enthusiasts. A lesson, that of playing and being inspired by the tradition, composing new ones and interpreting them with the piano, handed down to subsequent generations as evidenced by the career of Mícheál Ó Súilleabháin, who died in 2018, and by the Armagh pianist Caoimhin Vallely, author of the emblematic "Strayaway " of 2005 and of the CD that bears his name published in 2016 (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/12/06/caoimhin-vallely-caoimhin-vallely/).

Seán Ó Riada non ha lasciato per evidenti motivi moltissime registrazioni, e quelle raccolte in “Port Na bPúcaí” provengono da registrazioni fatte in studio a Dublino (al Trinity Examination’s Hall, le prime tre tracce) nel maggio del 1971, ben nove provenienti da quello che fu il suo penultimo recital, sempre nello stesso mese di maggio ed altre dieci provengono da un album realizzato per l’anniversario della rivolta del 1916, tutte suonate al clavicembalo. Si tratta di musica del tutto inedita,  splendida, evocativa che ci restituisce una visione della musica popolare irlandese lontana da quella conosciuta, con una veste cameristica intensa, emozionante; sufficiente ascoltare l’arrangiamento per solo piano di “Do Bhi Bean Uasal” (Carrickfergus”) per avere l’idea precisa del progetto che Ó Riada iniziò a sviluppare non appena ebbe i mezzi per comporre e trascrivere gli spartiti e per capire, ascoltandone poi la versione dei Chieftains, l’importanza del progetto.

For obvious reasons, Seán Ó Riada did not leave many recordings, and those collected in "Port Na bPúcaí" come from recordings made in the studio in Dublin (at the Trinity Examination's Hall, the first three tracks) in May 1971, nine coming from that which was his penultimate recital, always in the same month of May and ten others come from an album made for the anniversary of the 1916 revolt, all played on the harpsichord. This is completely new, splendid, evocative music that gives us a vision of Irish popular music far from the known one, with an intense, exciting chamber music; just listen to the arrangement for solo piano of "Do Bhi Bean Uasal" (Carrickfergus") to get the precise idea of ​​the project that Ó Riada began to develop as soon as he had the means to compose and transcribe the scores and to understand, then listening to them the version of the Chieftains, the importance of the project.

Molto interessante l’esecuzione live del reel “The Collier” dove al clavicembalo di Ó Riada si affiancano le uilleann pipes di Wille Clancy, l’accordeon di Tony McMahon ed il violino di John Kelly; pubblico in piedi a battere il tempo, noi nel nostro piccolo anche.

The live performance of the reel "The Collier" is very interesting, where Ó Riada's harpsichord is joined by Wille Clancy's uilleann pipes, Tony McMahon's accordion and John Kelly's violin; audience standing to beat the time, us in our small way too.