Solo una questione di royalties. Non fosse stato per Leonard e Phil Chess, il nome di Robert Petway sarebbe per l’eternità sprofondato nell’oblìo, onorato e ricordato – forse – dallo sparuto manipolo della Compagnia degli Amanti del Blues del Delta.
Faceva un freddo cane a Chicago quel giorno di febbraio del ‘50; McKinley Morganfield aveva appena finito il suo turno come autista, e dopo un paio di uova strapazzate ed una pinta di caffè nero bollente in una bettola della South Michigan Avenue entrò con la sua chitarra al numero 2120, dall’altra parte della strada. Leonard e Phil lo stavano aspettando, assieme a Ernest “Big” Crawford, il contrabbassista che conosceva i due fratelli dai tempi della Aristocrat, prima che i due fondassero la Chess Records. Avevano già avuto delle animate discussioni circa la registrazione che stavano per fare; McKinley voleva portare la sua band nello studio, quella con Walter Jacobs e Jimmy Rogers per intenderci, i due polacchi invece insistevano per il solo accompagnamento del contrabbasso, quello di Crafword ovviamente. Naturalmente ebbero la meglio i proprietari dell’etichetta e così quel giorno McKinley Morganfield registrò un singolo: sul lato A “Rollin’ Stone”, su quello B un blues di Robert Johnson, “Walkin’ Blues”. Una take per ciascun brano, buona la prima e via.
Va da sé che se Muddy Waters avesse dichiarato che il suo “Rollin’ Stone” in realtà era un adattamento di “Catfish Blues” accreditato a “certo Robert Petway” e non una sua composizione, molte cose nella musica dei decenni a venire sarebbero andate diversamente. Questione di diritti d’autore e di royalties, appunto. Di sicuro possiamo dire che Mick Jagger e Keith Richards avrebbero chiamato diversamente il loro gruppo, e così Jann Wenner avrebbe fatto con il suo settimanale musicale.

C’è un grande appezzamento di terra all’interno di un grande meandro del fiume Alabama, giù a Boykin. Ci abitano e ci lavorano i discendenti degli schiavi portati lì dalla Carolina a metà dell’800 dai loro proprietari, i Pettway. La tenuta fu venduta nel 1845 a Sebastian Van Der Graaff, un benestante avvocato di Tuscaloosa, e quando finì l’epoca dello schiavismo molti rimasero a lavorare nella proprietà mantenendo anche da inquilini il cognome Pettway. Oggi se cercate un Petway, o un Pettway o Pettaway dovete andare laggiù, dove il fiume Alabama scorre tranquillo prima di gettarsi nel Golfo del Messico.
In una delle case isolate tirate su alla bell’e meglio con assi di legno e sollevate da terra con dei blocchi di cemento, il 18 ottobre del 1907 – ma qualcuno giura che fosse il 1902 – si dice nacqui io, Robert Petway.
Il primo regalo che ricevetti, non al mio compleanno e nemmeno a Natale, ma quando le patate erano pronte da raccogliere fu una zappetta. Niente scuola, ma solo lavorare lavorare e lavorare. Unico svago era gettare l’amo nell’Alabama e, d’estate, farci il bagno.
Appena adolescente incontrai un altro tipo, nipote come lui di schiavi africani; abitava anche lui in una stamberga non lontano da quella di Robert. Andavamo tutti e due nello stesso punto a pescare, una spiaggetta all’interno dell’ansa del fiume dove l’acqua scorreva lenta, l’ideale per prendere all’amo qualche pesce gatto, un buon integratore del pasto giornaliero visto che la carne era un lusso e a casa si mangiava quella di maiale sì e no ogni quindici giorni: vegetariani o quasi, ante litteram.
Quel tizio, magro e allampanato, si chiamava Tony, Tony McClennan, per essere precisi. Restammo amici per molti, molti anni scoprendo di avere alcuni interessi, diciamo così, in comune: i cappelli a larghe falde, la musica e poi le donne. Ogni tanto passavano dalle mie parti dei musicisti girovaghi, neri figli di schiavi spiantati cacciati dalle piantagioni che per pochi spiccioli – o per una notte al coperto, o per un pasto – intrattenevano gli avventori delle bettole o suonavano durante le feste del fine settimana: mi ricordo di Blind Joe Smith, che girava con un grosso cane nero, Lame Fred McFarland, lo zoppo che diceva di venire dall’Arkansas e Snake Leo Dittman, che girava con un serpente a sonagli nella borsa. Loro mi insegnarono i primi rudimenti ed io imparavo velocemente, come se quello stavo imparando l’avessi avuto già in testa, e non lo sapevo.
Questa specie di barrelhouse, di juke joint o di stamberga era a tre miglia da casa mia ed a quattro da quella di Tommy. Quando si spargeva la voce dell’arrivo di questi tipi il locale si riempiva: imbroglioni d’ogni tipo, donne di malaffare ed ubriaconi giravano là intorno e si facevano di moonshine, che costava poco, e ascoltavano le loro vite raccontate da altri disperati come loro, che se non altro avevano la capacità di esorcizzare con la musica tutte le loro sfighe ataviche.
Io e Tommy stavamo il più vicini possibile ai musicisti e non ci stancavamo mai di guardare come si muovevano quelle dita sul manico.
Ad un certo punto diventai anche bravo, tanto bravo da suonare la domenica mattina in chiesa quei vecchi spiritual che da bambino sentivo cantare dai nonni e da mamma; da papà no, di lui non ricordo molto, solo che lavorava come un mulo e che morì di febbre spagnola quando avevo circa quindici o sedici anni.
Comunque fu grazie alle funzioni religiose che trovai un modo per rimorchiare le donne: la domenica mattina le ammaliavo con questi canti religiosi, il pomeriggio le accalappiavo con i miei blues scurrili, pieni di sesso, di doppi sensi e di quant’altro. Quello che succedeva dopo, nei campi dietro la stamberga, ve lo lascio immaginare; mi piacevano tutte, magre, grasse, sposate e anche no. Insomma, me la sono spassata laggiù in Alabama.
Un bel giorno mi resi conto che l’Alabama era diventato piccolo per me. E anche per Tommy. Se fossimo restati lì avremmo passato la nostra vita a suonare in quei posti schifosi per nulla, o quasi. Prima o dopo ci saremmo stufati e avremmo ricominciato a lavorare nei campi.
E così ci trasferimmo a Itta Bena, nel Mississippi, e fu lì che conobbi Honeboy Edwards, musicista e uomo straordinario. Lì suonavano anche Booker White, James Son Davis e Kokomo Arnold, suonavano al Three Forks, in quel juke-Joint vicino all’incrocio dove qualche marito geloso avvelenò Robert Johnson. Così dicevano.
Finalmente, nel ’39, ce ne andammo anche da lì e con un viaggio quantomeno avventuroso un po’ a piedi, in treno e poi ancora a piedi arrivammo a Chicago, nell’Illinois. Non mi ricordo quante serate feci nelle bettole e nei bar, mi ricordo però che un bel giorno mi comprai una chitarra National Resophonic ad un banco di pegni, su nel North Side. Divenne per me come un’amante, aveva il suono ed il volume che cercavo e mi accompagnò per tutta la vita. Ci voleva proprio, perchè nessuno mi stava ad ascoltare in mezzo a quella confusione; ma fu in uno di questi locali che casualmente una sera venne Lester, Lester Melrose intendo. Questo tizio bianco, questo Lester Melrose, sarebbe diventato da lì a poco uno dei pezzi grossi del blues di Chicago, qualcuno addirittura andava in giro dicendo che era lui il fondatore del Chicago Blues, anche se gli piacevano di più i suoni acustici di quelli elettrici. Comunque sia venne in questo localaccio del Southside più di una volta e ne aveva del fegato, allora di bianchi in quella zone lì se ne vedevano davvero pochi. ‘Sto tizio mi propose di registrare per lui; io non lo avevo mai fatto, ma qualche giorno prima Tommy MacClennan aveva registrato per lui una dozzina di brani e così accettai. E quel freddissimo 28 marzo del 1941 entrai in una stanza d’albergo dove c’erano una sedia – scomoda, questo lo ricordo bene – ed un microfono. C’era anche un altro tipo che aveva un contrabbasso, Alfred Elkins mi sembra si chiamasse.
Il primo brano che registrai fu Catfish Blues, lo avevo pensato quando stavo ancora giù a Itta Bena, quando mi passavo tutte le donne che volevo.
Sì mi piacerebbe, mi piacerebbe essere un pesce gatto
E nuotare in un profondo mare blu
Sono tutto per voi, belle donne, se mi volete pescare
se mi volete pescare, se mi volete pescare
Oh sì, oh sì
Stavo seduto di fronte a lei
Che mi disse “entra, uomo
Mio marito non c’è, è appena andato via”
Oh sì, oh sì
Sai, ci sono due treni che passano da quella stazione lì
Ma nessuno va nella mia direzione
Ma sai, c’è un treno che passa sempre a mezzanotte
Questo passa solo oggi donna, passa solo oggi
Oh sì, oh sì
Questo Melrose ci sapeva fare, era bravo (e dannatamente furbo), mi mise a mio agio e registrammo 8 brani. Invece poi mi fregò: prima di suonare mi fece firmare una carta dove gli cedevo i copyright dei brani, lui mi avrebbe pagato solamente per le sedute di registrazione. Ero così fesso – ma in buona compagnia – che firmai. Con Elkins non ci furono problemi, lui era un buon musicista, si limitò a venirmi dietro e basta. Furono tutte registrazioni “one take and go”, non c’era possibilità di ripetere le canzoni.
Allora era così, non avevo un repertorio fisso, mi piaceva improvvisare le parole; credo di non avere mai cantato una canzone con lo stesso testo due volte. Si usava così, nessuna aveva un blocco notes con la scaletta ed i testi delle canzoni. Era il bello del blues, sapete? In un paio d’ore finimmo di registrare, io tornai nel Southside e non vidi Lester per parecchio. Poi, nel gennaio del ’42 mi capitò di suonare con Tommy in un locale dell’Ottantasettesima Strada. Una rimpatriata e guarda chi ti capita dentro? Lester Melrose. Quando finimmo di suonare, saranno state le due di mattina, venne al nostro tavolo e mi propose un’altra session. Ok dissi, ma stavolta viene anche Tommy. E così il 20 febbraio del ’42 ritornai in quella stanza d’albergo e registrai altri 6 pezzi, uno con Tommy MacClennan. Ad un certo punto mi sembrava di avere finito le idee, e mi venne in mente di avere conosciuto tempo prima Bertha Lee, la moglie di Charlie Patton; era brava a cantare, ma ricordo altrettanto bene che in altre situazioni sapeva fare ancora di meglio……. Bisognava registrare, e mi venne l’idea di scrivere un testo su tutte le “Bertha Lee” che avevo incontrato; la musica poi venne da sola, cambiai l’accordatura e via……. .
Il sistema di pagamento comunque non era cambiato, tutti ripeto tutti facevano così, per questo moltissimi bravi musicisti ad un certo momento smettevano di registrare e sparirono dalla circolazione per almeno vent’anni. O facevi così o niente, e fu così che il mio nome non apparve mai sui 78 giri che Lester mise in commercio, e fu così anche che “Catfish Blues” venne considerato un brano tramandato oralmente e non mio. Fino a quando qualcuno gli cambiò il titolo e si dichiarò come autore del brano.
Poi, sapete come andò a finire. Alla fine degli anni cinquanta questi ragazzi bianchi cominciarono ad interessarsi del blues: Alan Lomax, Bob Koester ed i fratelli Chess furono i primi, poi arrivò Mike Vernon, ed in seguito in Europa molti musicisti iniziarono a suonare il blues che avevano sentito sui 78 giri. Questo interesse fece che molti miei amici musicisti furono trovati a lavorare nelle fabbriche, nei campi, nei dormitori pubblici, qualcuno anche in qualche penitenziario ed ebbero così l’occasione di ricominciare a suonare, anche in Europa, e di fare un po’ di soldi. Inaspettatamente erano rispettati moltissimo dal pubblico dei bianchi, anzi credo che se non fosse stato per loro il blues sarebbe rimasto nei ghetti neri come il South Side di Chicago. So che lo disse anche B.B. King, ed è una grande verità.
L’immortalità? Meno male che ad un certo punto, negli anni sessanta qualcuno di quei ragazzi conobbe la mia Catfish Blues grazie a Muddy Waters, chiamandola finalmente con il suo vero titolo, il “blues del pesce gatto”: Jimi Hendrix e poi quell’irlandese dalla camicia a scacchi, Rory Gallagher soprattutto.
Le royalties? E quelle chi le ha mai viste!
CHICAGO, ILLINOIS 28 marzo 1941 (Alfred Elkins, contrabbasso)
Catfish Blues – Ride ‘em On Down
Rockin’ Chair Blues – My Little Girl
Let Be Me Your Boss – Left My Baby Crying
Sleepy Woman Blues – Don’t Go Down Baby
CHICAGO, ILLINOIS 20 Febbraio 1942 (Alfred Elkins, contrabbasso)
Bertha Lee Blues – Hollow Long Blues
In The Evening – My Baby Left Me
Cotton Pickin’ Blues – Boogie Woogie Woman (Tommy MacLennan, voce e Alfred Elkins, contrabbasso)