DALLA PICCIONAIA: HENRY THOMAS (1874 – 1930)
di Alessandro Nobis
La seconda facciata scorre via velocemente sul giradischi, la Shure fa il suo lavoro ancora egregiamente anche se il vinile mostra qualche inevitabile segno del tempo, e mentre ascolto penso che questo “Go to Heaven” dei Grateful Dead targato 1980 sia stato sempre un poco bistrattato dalla critica come del resto tutti i lavori in studio del gruppo californiano; sì, forse un suono leggermente patinato ma …….. Una quindicina di minuti e si arriva all’ultimo brano, “Don’t Ease Me In”…………………
Un uomo se ne sta seduto su di una sedia un po’ sgangherata anzi decisamente sgangherata imbracciando una chitarra, e davanti a lui c’è una macchina per registrare con un paio di microfoni, la stanza è quella di un albergo non lontano dal centro, al settimo piano. E’ lo “studio” della Vocalion Records.

“Faceva caldo in quel giugno del 1928 a Chicago, me lo ricordo bene. Altro che “The Windy City”, si moriva di caldo lì in centro e anche nel Southside e si sudava di brutto, giusto un po’ di limonata – cioè acqua semplice e limone – prima di suonare. Mi chiamo Henry Thomas, sì sono negro, sì vengo dal sud, sì sono del Texas, sì suono la chitarra e canto; come dici? Vuoi sapere di me? Davvero ti interessa? Davvero tu vuoi sapere se qualche bianco ha suonato le mie canzoni e non ha mai pagato 1 cent di diritti? La risposta è sempre quella, sì. Come al solito la solita storia, tu inventi e un altro copia.
Ho cinquantaquattro anni, sono nato giù in Texas nel 74 (1874 n.d.r.), sono la prima generazione di neri nati “liberi”, i miei vecchi erano veri “freed slaves” liberati dalla schiavitù da Lincoln nel 1865. Stavamo in una catapecchia nella zona che oggi si chiama Big Sandy a levante del Texas, non lontano dall’Arkansas. Sono nato quando la città si stava appena formando. Il tutto iniziò quando la Pacific Texas Railroad Company decise di far passar lì la linea ferroviaria, e poi sai già come va, mi sembri un tipo abbastanza sveglio: prima l’ufficio postale, l’emporio per bianchi e quello per neri, la chiesa, le prime case, la banca, l’ufficio dello sceriffo …………..
Come puoi facilmente immaginare lì a Big Sandy non c’era molto da fare – non c’era nemmeno uno straccio di scuola -, passavo il tempo a pescare nel laghetto vicino a casa ed a fabbricare zufoli con le canne che crescevano lì intorno ma, sai, la ferrovia per noi ragazzi era una tentazione irresistibile per scappar via, magari anche per ritornare, magari anche no…… Sì, hai ragione, c’erano anche strade piene di polvere d’estate e di fango appena pioveva, ma gli sbuffanti mostri d’acciaio della ferrovia avevano il loro fascino. Fa il bravo e cerca di capire, eh!
Eravamo bravi a saltare sui vagoni merci ed anche a scendere veramente, soprattutto quando i vigilanti delle compagnie ferroviarie arrivavano per farci assaggiare un po’ dei loro bastoni nodosi. Ho fatto presto a diventare uno “hobo”, avrò avuto si e no quindici anni, all’inizio facevo brevi tratti sui vagoni merci dei treni, poi man mano che crescevo andavo sempre più in là, e non mi facevo vedere per un bel po’. Ma poi ritornavo a casa dai miei vecchi. D’estate ci spingevamo su a nord, d’inverno verso ovest, in California e dormivamo ai margini delle città, nelle hobohemia che chiamavamo “giungle”, agglomerati di tende e di “casette” di cartone. Ero quasi diventato un raconteur, tra una chiacchera e l’altra suonavo lo zufolo, poi avevo imparato a suonare la chitarra da uno che si faceva chiamare Tampa Red ed a cantare un po’, sempre meglio che lavorare; oddìo qualche volta mi toccava raccogliere un po’ di frutta per un piatto di mulligan (molta cipolla, patate e l’odore del manzo) ma il più delle volte campavo con le poche mance che mi davano nelle bettole, o lungo la strada ferrata dove suonavo per gli operai, o la domenica quando intrattenevo i braccianti, specialmente in California. E quando non erano nickelini venivo ripagato con del cibo, o del moonshine. Sai. Ti dico una cosa, avevo incontrato parecchi altri musicisti e da loro avevo imparato canzoni e blues come “John Henry” per farti un esempio. Ma io ero diverso da tutti, suonavo il blues più velocemente, per far ballare la gente, si divertivano a ballare mentre suonavo e cantavo, mi chiamavano “Ragtime Texas” per via dei tempi accelerati che utilizzavo; sì penso fossi l’unico in giro a far ballare la gente cantando storie di miseria, sesso e disgrazie, bastava suonare veloce, questo chiedevano e più ero veloce più ballavano le square dances e più ballavano le square dances più mi mollavano qualche nickelino. E io me la godevo, c’era sempre qualche vedova in giro ……….. sentivano il tempo ma le parole ……. beh quelle era meglio non sentirle, parlavano di tutti loro e di tutti noi hobos e di tutti i diseredati che lo erano sempre stati o che lo erano diventati durante e dopo le tempeste di sabbia che stavano riducendo in polvere la campagna. E poi via sui treni, seguendo il vento, la fame – che era tanta e che ti seguiva sempre – e la fama. Quella caro mio non l’ho mai cercata, manco da morto l’ho avuta, quelli che hanno usato le mie canzoni manco mi hanno mai ringraziato.
Poi decisi di andarmene definitivamente su, verso nord, verso la città calamita, Chicago. Ci sono arrivato d’inverno: fu molto dura sui treni, ci avrò impiegato tre settimane da Big Sandy. Perchè? Perchè i vigilantes erano diventati bravi, non ci lasciavano in pace, era tutto un “salta giù salta giù”, pochi chilometri e poi giù di nuovo. Viaggiare di notte? Ma hai la pallida idea del freddo? Ci abbiamo provato, ma era davvero durissima. Ho provato anche a viaggiare in mezzo al bestiame, ai manzi per scaldarmi …..
Era verso la fine di gennaio dell’anno scorso, ero saltato giù dal treno a notte fonda qualche miglio prima dello scalo merci per non farmi vedere; vabbè non ero solo, oltre allo zufolo ed alla chitarra c’erano altre quindici persone almeno, donne qualche moccioso e uomini. Neri e bianchi.
Fino ad aprile di suonare per le strade non se ne parlava, neve freddo vento. Le bettole, i bar, le stamberghe, qualche festino privato in periferia, dopo un mesetto mi era fatto conoscere, la gente voleva divertirsi e ballare, quindi mi chiamavano e mi facevo sempre trovare pronto. Poi la primavera e gli incroci e le festine nei giardini, davanti ai bar nel quartiere nei neri s’intende, ed una mattina toh che passa uno dei rari bianchi che poi ho scoperto conoscesse un tizio il cui cugino lavorava per una casa discografica di Chicago, la Vocalion, e mi propose di registrare. Appuntamento a fine giugno. Lavoravano nel settore dei race records e fabbricavano 78giri color rosso scuro, quasi marrone; da qualche anno era stata acquisita dalla Brunswick. Insomma mi ero informato, per essere un negro del Texas ero abbastanza scaltro, o no?
A fine giugno andai in questo albergo, in centro, quasi in centro. Settimo piano. Stanza 702. Niente square dances, registrai due brani, “John Henry” e “Cottonfield Blues”, sono andato sul sicuro non si sa mai con questi bianchi ……. Pagato un paio di dollari, non ho mai saputo quante copie hanno stampato di quei 78 marroni, o quante ne sono state vendute. Gli ero piaciuto e così per la Vocalion registrai 24 facciate, in due anni. Poi il richiamo dei vagoni piani divenne sempre più forte come la crisi economica, e decisi di far perdere le mie tracce. Poi la polmonite fece il resto.
Di sicuro però qualche 78 lo avranno venduto se quarant’anni dopo qualcuno si è preso la briga di suonare la canzoni che avevo scritto……..”
Tloc, tloc, tloc, tloc, tloc, la Shure sbatte contro l’etichetta del vinile. Il disco è finito, è ora di “rimetterlo su”.
Tracce di Henry Thomas le potete trovare in “Freewheelin’” di Bob Dylan (“Honey, Just allow me one more chance”, in “Fishing Blues” de ’65 del Lovin’ Spoonful, nei Canned Heat (“Going ‘up the country”, ed in tutti i casi mi sembra l’autore non venga mai citato. Così va il mondo………….