SUONI RIEMERSI: MATILDA WHITERSPOON “MISSISSIPPI MATILDA”
di Alessandro Nobis
Hanno pubblicato solo tre brani di Mississippi Matilda; è vero, non la troverete negli annali del blues, ma un brano che incise, “Hard Working Woman” fu reinterpretato da B.B.King e Carey Bell. Una vita dura, come quella di molti blues men e blues women che diedero un piccolo – grande contributo a questo straordinario mondo musicale e che sparirono in fretta, troppo in fretta. Questa è la sua storia che co cercato di raccontarvi, un po’ vera un po’ no. Ma tant’è. Voglio ringraziare Lorenz Zadro e Marino Grandi per il loro importante aiuto.
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Faceva un freddo pungente quella domenica pomeriggio a Chicago. Il vento gelido sferzava persone, case e cose e da noi nel South Side il blizzard passava attraverso gli interstizi tra muri e finestre delle case. Insomma se la chiamavano “The Windy City” un motivo ci sarà ben stato! Mamma mia, che freddo!
Comunque, stavo tornandomene tranquillamente a casa quando, svoltato l’angolo dove c’era il negozietto di Al, chi ti vedo seduti sui gradini di casa mia? Due tizi bianchi come il latte. OK pensai, gli anni Sessanta erano finiti solo da un paio d’anni ma se un bianco o peggio due gironzolavano lì intorno i casi erano due: o era sbirri oppure due che avevano perso il lume della ragione.
“E’ lei Mississippi Matilda?”. Nessuno mi chiamava così da prima della guerra, da trentanni almeno, e se non fosse stato per il giubbotto tutto sdrucito e per i capelli lunghi ed arruffati li avrei scambiati per due sbirri; non che avessi fatto qualcosa di losco, ma due bianchi lì, ripeto, nel mio quartiere …… insomma era una cosa un poco strana.
“Non so ancora se sono – o meglio ero – Mississippi Matilda” risposi. “Dipende da chi lo vuole sapere. Mississippi Matilda è morta e sepolta da un pezzo……….”, aggiunsi per tagliar corto.
Ma come avevano fatto a trovarmi e, soprattutto, come facevano a sapere chi ero e dove abitavo? Sulla cassetta mezza arrugginita della posta c’era scritto “Witherspoon – Williams”, cioè il mio nome da ragazza e quello di mio marito Jasper, Jasper Williams. Sì forse erano sbirri o peggio: federali.
Erano invece due giornalisti, uno aveva anche una di quelle macchine fotografiche portatili che stampava la foto immediatamente; si chiamavano Robert “Bob” Eagle e Steve LaVere (quello con la macchina fotografica). Mi spiegarono che no, non erano sbirri o federali, che cercavano Mississippi Matilda – cioè me – perché erano appassionati di blues, che lavoravano per Living Blues – una rivista che non avevo mai sentito nominare -, che insieme ad altri loro amici passavano molto del loro tempo libero alla ricerca di cantanti e musicisti in attività molti anni prima ma che erano diciamo così “usciti dal giro”; che giravano penitenziari, case di riposo, quartieri malfamati – ed anche cimiteri – per passione, per amore della musica blues. Avevano preso anche svariati pesci in faccia e qualche schiaffone, mi dissero, e nei piccoli cimiteri del sud e nei dintorni di Chicago avevano scoperto che parecchi di quelli che cercavano erano lì da anni.
Mi dissero soprattutto di essere collezionisti di vecchie incisioni e che avevano ascoltato la mia voce nelle uniche tre canzoni che erano state pubblicate nel 1936!
Ma non potevano svegliarsi prima, dico io!
Erano anche simpatici i due tizi, in particolare Bob: mi raccontò che negli ultimi anni molti musicisti bianchi, anche inglesi, suonavano il blues e che ce n’erano di bravi, alcuni addirittura erano venuti a Chicago a suonare con i musicisti neri (non disse “negri”, disse proprio “neri”, quale onore!). Insomma questi due bianchi volevano sapere com’era andata che ero sparita dal “giro”, volevano conoscere la mia storia. “Ma guarda un po’– dissi fra me e me – proprio qua dovevano capitare”; ma dai, alla fine erano simpatici, e li feci entrare – solo perché si stava congelando, se fossimo stati in un’altra stagione col cavolo che li facevo entrare, li avrei tenuti lì sui gradini -, sgomberai il mio divano dalle cianfrusaglie che i miei figli più piccoli ci avevano messo sopra e preparai un po’ di caffè bollente, nero naturalmente. Ero tutta spettinata ed in disordine, eppoi non sono mai stata una bella donna; mi chiesero di fare una foto, una sola, e quella fecero.
Dissi “ho sei figli a cui badare e una casa da riassettare, non ho tempo di ascoltare il blues alla radio. Si sono io Mississippi Matilda, mi chiamavano cosi prima della guerra. Ma che diavolo volete da me?”. Detto fra noi, i miei blues erano svaniti, quello che ne era rimasto era nel mio cuore, sepolto, nascosto. E basta. “Del blues non ne voglio più sapere. La domenica vado alla chiesa battista e canto i gospel nel coro per ringraziare Dio anche se spesso mi domando per cosa, visto la vita che si fa qui nel South Side”.
Beh, sessant’anni in un paio d’ore non erano facili da raccontare, era chiedere un po’ troppo ma volevo che i due se ne andassero prima possibile; lo sapete anche voi certe cose si ha piacere a ricordarle, altre assolutamente no. Giusto? Comunque alcune gliele raccontai, altre no, altre ancora non me le ricordavo proprio e alcuni ricordi li “aggiustai” un poco, giusto per far loro sentire qualcosa che volevano sentire. Mi pare giusto, che dite?
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Avete mai sentito parlare della Contea di Forrest giù nel Mississippi? D’estate si crepa di caldo e noi negri dovevamo lavorare nei campi dalla mattina alla sera, ma questa storia la conoscete bene vero? Qui a Chicago siamo nel 1972, giù a Hattiesburg siamo ancora ai tempi della segregazione razziale, alla faccia di Malcom X e di Martin Luther King. Sì, a parole non c’è più ma provate ad andare laggiù e svegliarvi una mattina, diciamo così, con la pelle scura. Hattiesburg è davvero un postaccio, provate ad immaginarvi come poteva essere negli anni ’10 e ’20, quando ero ancora una bambina. Sono cresciuta in una piccola casa in legno, rialzata dal terreno con dei blocchetti di cemento lontana dal paese ma abbastanza vicina alla linea ferroviaria della compagnia New Orleans & Northeastern RR il cui nome era tutto un programma, intendo dire che ogni volta che passava un merci sognavamo di andarcene da lì, nel più moderno Nord Est piuttosto che a New Orleans. Ogni tanto vedevamo qualche vagabondo salire sul treno in corsa vicino al semaforo laggiù in fondo al rettilineo, mi sembra di vederli ancora; qualche volta ne trovavano uno morto sulla massicciata, buttato giù dai vigilanti, quei bastardi.
Insomma mio padre era un bracciante agricolo, mia mamma no: aveva dei problemi alla schiena, non poteva piegarsi più tanto. Lei faceva dei lavoretti, delle commissioni per le famiglie della zona che si trovavano in difficoltà più di noi s’intende e non era facile esserlo, ve l’assicuro. A scuola? No non ci sono mai andata, la domenica veniva a casa nostra un mio zio che piano piano mi insegnava a leggere, scrivere e “far di conto”. In compenso cantavo, non ho mai imparato a suonare uno strumento o a leggere uno spartito, cantavo in modo del tutto spontaneo: filastrocche per bambini, scioglilingua, canzoni facili che mi insegnavano mia mamma e mia nonna paterna. Mi ricordo, era ancora piccola avrò avuto nemmeno dieci anni, che incontravo ogni tanto giù a Hattiesburg qualche Buffalo Soldier reduce mutilato in guerra che per raggranellare qualche spicciolo cantava canzonette agli angoli delle strade; ecco, le imparavo e poi le ricantavo.
La domenica andavo con mamma alla chiesa Battista dove cantavano gli spirituals ed anche qualche gospel: c’era tutta la comunità, tutti cantavano e c’era una solista straordinaria, si chiamava ………… Betty Winslon, o Wilson, mah! Io imparavo a memoria e a casa ricantavo. Sì, avevo una bella voce, lo ammetto.
Qualche anno dopo, la guerra era finita da oramai più di dieci anni, iniziavano a girare dalle mie parti dei musicisti girovaghi – neri ma anche qualche redneck bianco – che con la chitarra cantavano dei blues, spesso pieno di doppi sensi e di allusioni sessuali. Dalle mie parti le “tristezze” non mancavano di certo, a fatica si tirava la carretta, ma quei musicisti, almeno qualcuno di loro, era bravo a suonare la chitarra: Blind Joe Alfred, Old Smockey John, Frankie Cat Jack suonavano per le strade o nei jukejoints in cambio di qualcosa da mangiare – e naturalmente da bere -, e più di qualcuno – dicevano – aveva venduto la sua anima al diavolo, pur di imparare bene a suonare. In giro dicevano ce n’erano anche di bravi giù in città, e qualcuno aveva inciso dei dischi, dei 78 giri. Giù in paese ce n’era uno bravo, suonava di nascosto, aveva un voce non bellissima, insomma, un po’ stridula e quasi fastidiosa. Una sera lo conobbi, si chiamava Eugene Powell e veniva dalla Contea di Perry, vicino a Hattiesburg. Iniziammo a cantare qualche blues assieme, dopo qualche mese, nel settembre del ’35, ci sposammo: veramente un bell’affare. Suonavamo blues lui conosceva ed anche qualcuno di quelli che avevamo sentito in giro; non eravamo poi così male tant’è che il sabato sera suonavamo giù ad Hattiesburg in un locale, una bettolaccia più che altro della quale non mi ricordo il nome. “Sam’s Hole”, o forse “The wrong Side” o “The Wrong Korner”, con la kappa davanti: sì, era “The Wrong Korner”, magari esiste ancora, andate a vedere voi che potete……….. un luogo di perdizione era! E meno male che eravamo capitati lì perché una sera un tizio, un musicista pure lui, ci raccontò che giù a New Orleans, al St.Charles Hotel, la domenica c’erano un paio di bianchi che registravano acetati per farne dei “race records”, e che pagavano pure per le registrazioni!
Decisi con Eugene di provare alcuni blues, io era già incinta del primo figlio ed avevo qualche problemino nel muovermi, ma fatto sta che un paio di mesi dopo prendemmo il treno e ci andammo, a New Orleans. Era il 14 ottobre del ‘36, la mia prima volta in una città come quella e non dimenticherò mai la frenesia nelle strade, tutte quelle automobili, il tram, il Mississippi era enorme, tutta quella gente che camminava; era incredibile! Andò che entrammo in quella stanza dell’albergo, era già tutto preparato, e registrammo quattro brani con un secondo chitarrista, Wille Harris Jr. uno che poi non ho più incontrato: “A. & V. Blues”, “Hard Working Woman”, “Happy Home Blues” e “Peel Your Banana”. Fuori che aspettavano di registrare c’erano anche Lonnie e Sam Chtaman, Robert Hill e Bo Carter. Comunque sia i due uomini lavoravano per la Bluebird Records, che poi pubblicò tre brani, lasciando fuori “Peel Your Banana”, fu una scelta giusta perché quel testo era di una volgarità fuori controllo. Eugene litigò durante la registrazione con uno dei due della Bluebird, se non ricordo male, lui improvvisò un blues ed io cantai “a braccio”, quasi per fare incavolare ancora di più quel tipo. Forse non fu proprio una gran bella idea, me lo chiesi se lo fosse stata per qualche tempo, poi smisi di chiedermelo. In ogni caso quei tre brani non incisero per niente sulla storia del blues, erano tre piccole gocce d’acqua in un mare di race records. Per me furono invece importanti perché a me da quel giorno del blues, di registrazioni, di New Orleans, di race records non ne volli più sapere. Basta.
A parte che stavo per avere il mio primo figlio, volevo redimermi, ed iniziai anzi ricominciai a frequentare la Chiesa Battista ed a cantare gospel e spiritual. In seguito, e questo per parecchi anni, la mattina continuai a raccogliere cotone e a badare ai figli che erano diventati otto nel frattempo. Otto! Mio marito trovò un lavoro come bracciante a Greenville, la famiglia era numerosa e così dovevamo spaccarci la schiena e lavorare come muli.
Alla fine la lontananza divenne insostenibile, il nostro rapporto si logorò e così ci separammo; nel ’56 mi trasferiì a Chicago con un flglio e cinque figlie. Non potevo stare da sola, era durissima e così l’anno seguente mi risposai con un brav’uomo, Jasper Williams: no, non aveva niente a che fare con la musica. Capite bene quanto fosse difficile tirar su tutti quei figli, e così mi misi a fare la cameriera in case di famiglie benestanti, una di un avvocato e l’altra di un medico, bianchi naturalmente. La mattina di qua il pomeriggio di là a pulire, rammendare, stirare, riassettare la casa, qualche volta anche cucinare. Qualche tempo fa ho lasciato quei due lavori, ero stanca e le due case troppo lontane dal South Side, adesso faccio la babysitter e tiro avanti così. I miei figli? I più grandi badavano ai più piccoli, andavano tutti a scuola.
La domenica in chiesa a cantare, ecco dove era finita Mississippi Matilda. Pensavate fossi morta? Rimpianti? Nessuno, doveva andare così e così è andata. La mia eredità sono quei tre brani, e tutto il mio amore per il gospel. Non mi chiederete adesso di cantare il blues, vero? Dai, su, fate i bravi, scrivete pure tutto quello che avete sentito, ma non chiedetemi di cantare il blues di nuovo, eh?