LES CONTES D’ALFONSINA “Chapitre I”

LES CONTES D’ALFONSINA “Chapitre I”

LES CONTES D’ALFONSINA  “Chapitre I”

DODICILUNE RECORDS. CD, 2020

di alessandro nobis

Si respira una fresca ed originale aria d’oltralpe in questo bell’esordio del quartetto “Les Contense D’Alfonsine”: aria della miglior canzone d’autore, dello swing manouche e del valse musette che si incontrano grazie a quattro musicisti, la cantante Sofia Romano, il clarinettista Hugo Proy, il violinista Frédéric Gairard e il chitarrista Marco Papadia.

Giusto per mettere le cose in chiaro, il disco si apre con “Indiffèrence” una ottima versione di un valse musette scritto nel ’42 da Joseph Colombo e dall’accordeonista italo-francese Tony Murena (un autore e strumentista da riscoprire assolutamente) e tra le tracce segnalo anche “La Bicyclette” di Pierre Barouh portata al successo da Yves Montand con una significativa interpretazione di Sofia Romano, sempre all’altezza di un repertorio non facile da affrontare senza cadere nel “già sentito” ed autrice di alcuni dei testi come in “Le Géant” scritta a quattro mani con Marco Papadia ed unico brano totalmente originale che va nella direzione del rinnovamento del repertorio manouche, e dell’unico brano proveniente dalla musica afroamericana scritto dal sopranista Joshua Redman (era nel disco “Back East”) che chiude il disco, “Zarafah”; un’interessante introduzione – e – chiusura  dichiaratamente “bartokiana” di violino, un’espressiva parte di Proy e il sempre delicato arpeggio di chitarra che con il clarinetto stendono il perfetto “fondale” per la voce di Sofia Romano.

Un lavoro notevole, questo “Les Contes D’Alfonsina”, tra rinnovamento e tradizione, con arrangiamenti che non mostrano alcuna caduta di tono e che indicano molto chiaramente la direzione musicale che questo quartetto italo francese ha intrapreso.

http://www.dodicilune.it

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FINTAN VALLELY “Merrijig Creek”

FINTAN VALLELY “Merrijig Creek”

FINTAN VALLELY “Merrijig Creek”

imusic.ie. CD, 2021

Pur essendo uno dei primi a rivalutare il ruolo del flauto traverso nella musica tradizionale irlandese, Fintan Vallely, originario di Armagh ma da moltissimi anni residente a Dublino, non ha mai fatto parte di celebrati ensemble del cosiddetto fenomeno del folk-revival preferendo l’attività accademica e di giornalista (è l’autore del monumentale “Companion of Irish Traditional Music”(https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/01/15/fintan-vallely-companion-to-irish-traditional-music/) ma non disdegnando comunque di incidere ottimi album a suo nome – pochissimi per la verità, il primo nel ’79 fu “Irish Traditional Music” – come questo suo recentissimo “Merrjig Creek” per la registrazione del quale ha chiamato in studio musicisti eccezionali come Caoimhin Vallely, Sheena Vallely, Liz Doherty, Brian Morrissey, Gerry O’Connor e Dáithíá Sproule.

Sul repertorio, da italiano, non possono non essere felicemente sorpreso dalla melodia che Vallely ha scelto di arrangiare per flauto: mi riferisco al set eseguito assieme a Brian Morrissey e Caoimhin Vallely,  che comprende “Reggio Jig” e soprattutto “Emilia Romagna Redoubt”, una preziosa rilettura di una celebre folk song scritta da Fausto Amodei “Per i morti di Reggio Emilia” (Reggio nell’Emilia è una città dell’italia Settentrionale) che fa riferimento all’uccisione da parte della polizia di cinque operai ventenni sindacalisti iscritti al Partito Comunista Italiano che partecipavano ad una manifestazione per rivendicare i propri diritti sindacali (https://www.youtube.com/watch?v=WmFYVEiXGyA). Era il 7 luglio 1960 e la canzone di Amodei diventò uno dei simboli delle lotte operaie da quel momento in poi: dice il testo: “Compagno Ovidio Franchi, compagno Afro Tondelli / e voi Marino Serri, Reverberi e Farioli / dovremo tutti quanti aver d’ora in avanti / Voialtri al nostro fianco per non sentirci soli” (“Comrade Ovidio Franchi, comrade Afro Tondelli, / And you, Marino Serri, Reverberi and Farioli, / From now on we all need to have you by our side / To not feel lonely.“. Traduzione di Giovanna Baglieri).

Degli altri brani voglio citare dapprima il set “The Rambles od Grappa” composto da una melodia si Sean O’Riada e da una originale di Vallely (“Verona Reel”, in ricordo di un tour del ’90 nell’area veronese”) suonata con Liz Doherty e Caoimhin Vallely ed un altro set, “Roving Rhythm” eseguito yn duo con il brillante chitarrista Dáithíá Sproule) che comprende una melodia scozzese del 28° secolo e due irlandesi: “The Crosses of Annagh” del violinista di Galway Tommy Cohen e “Captain O’Kane” di Turlough O’Carolan. 

A mio modesto avviso questo “Merrijig Creek”, prodotto dal compositore e straordinario suonatore di concertina Niall Vallely, è uno dei più interessanti lavori per flauto traverso irlandese che ho ascoltato ultimamente, assieme a quello di Enda Seery.

 

ELSA MARTIN · STEFANO BATTAGLIA “Al centro delle cose”

ELSA MARTIN · STEFANO BATTAGLIA  “Al centro delle cose”

ELSA MARTIN · STEFANO BATTAGLIA  “Al centro delle cose”

ARTESUONO, RECORDS. CD, 2020

di alessandro nobis

Rispetto, ricerca sonora, delicatezza, originalità: questo emerge dall’ascolto di questo splendido lavoro della cantante Elsa Martin e del pianista Stefano Battaglia ai quali va certamente affiancata la figura del poeta – friulano anche lui – Pierluigi Cappello con le liriche, e la sua voce che appare in “Inniò”, che ci ha lasciato dopo la sua inopinata scomparsa di tre anni fa ed al quale i due musicisti dedicano questo lavoro monografico. Visti i precedenti “individuali” ed il loro precedente “Sfueai” (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2019/05/31/elsa-martin-stefano-battaglia-sfueai/), una riuscitissima interazione con i poeti friulani, non ci si poteva aspettare un semplice ed ovvio “accompagnamento” alle liriche di Cappello, e tutta la bellezza del lavoro è a mio avviso racchiusa in “Lucciole” un lungo rincorrersi ed accavallarsi tra il canto delle liriche dell’autore friulano ed i lunghi momenti improvvisativi dove emerge l’ottimo lavoro di postproduzione con il raddoppiarsi, il triplicarsi della voce di Elsa Martin e le splendide sottolineature melodiche e le creazioni spontanee di Stefano Battaglia; sembra di essere lì, sdraiati nel bosco avvolti dal silenzio e dalla meditazione ad osservare il cielo stellato dove non sono le stelle a brillare ma le lucciole che “si travestono di stelle”. Lo stesso schema nella realizzazione di “Oggi scrivere il nome”, con arrangiamento di Elsa Martin che si distingue per il ruolo della sperimentazione vocale con le emissioni vocali raddoppiate, triplicate che giocano con le reiterate note del pianoforte (“a goccia a goccia cede e ti si allarga dentro”) che collegano la melodia che apre e chiude il brano: da ascoltare attentamente, più e più volte.

Certo non si può definire “jazz” questo “Al centro delle cose” e nemmeno musica contemporanea, ma piuttosto un tentativo perfettamente riuscito di portare i versi di Cappello in un universo prima sconosciuto creato dall’interazione delle “tre” sensibilità che hanno costruito questo piccolo grande omaggio alla poesia e la cui “porta d’ingresso” è il suono arcaico di “Scluse”, la breve ma significativa traccia che ti trasporta dall’altra parte, da un’”altra” parte tutta da esplorare.

CARLO BAZAN • CARLO RISPOLI “IL CASO SINDELAR”

CARLO BAZAN • CARLO RISPOLI “IL CASO SINDELAR”

CARLO BAZAN • CARLO RISPOLI – “IL CASO SINDELAR”

LE INCHIESTE DEL COMMISSARIO BARONI

Segni D’Autore Edizioni. Volume 30,5 x 24,5 cm. Pagg. 56, 2020

di alessandro nobis

Vittorio Pozzo, che di calcio se ne intendeva (la doppietta mondiale 1934 e 1938 fu anche merito suo), scriveva di lui il 26 gennaio del ‘39 su La Stampa di Torino: «La sua non era una finta scomposta, plateale, marcata. Era un accenno, una sfumatura, il tocco di un artista. Fingeva di andare a destra e poi convergeva a sinistra colla facilità, la leggerezza, l’eleganza di un passo di danza alla Strauss, mentre l’avversario, ingannato e nemmeno sfiorato, finiva a terra nel suo vano tentativo di carica

Lui era “Carta Velina”, il “Mozart del Calcio”, lui era il numero 10 della nazionale austriaca, lui era l’antesignano del “falso nove”, il miglior giocatore austriaco di tutti i tempi anche se austriaco non era; era Matej (a.k.a. Matthias) Sindelar di Kozlov in Moravia, uno di quelli capaci di rinunciare alla sua carriera pur di dire “NO” alla nazionale tedesca (dopo l’annessione dell’Austria alla Germania hitleriana i giocatori della rappresentativa danubiana passarono alla nazionale tedesca) ed al nazismo, e per questo con la moglie Camilla Castagnola fu giustiziato in modo “non ufficiale” dalla Gestapo a Vienna, il 23 gennaio del 1939 nel loro appartamento probabilmente dopo la manomissione della stufa da poco acquistata.

Della loro scomparsa e soprattutto dei suoi motivi indaga il Commissario di Polizia Andrea Baroni che dal commissariato di Porta Vittoria a Milano si trasferisce quasi in clandestinità in quel di Vienna per far luce sul duplice omicidio su accorata richiesta dei genitori di Camilla, rischiando non poco e ………… 

Al solito sia le immagini di Carlo Rispoli sia la sceneggiatura di Carlo Bazan sono efficaci e descrittive quanto basta per lasciare al lettore la possibilità di fantasticare e di entrare nella storia, come nel caso della loro precedente collaborazione in occasione della pubblicazione del bellissimo “Sangue sul Lago Otsego”.

www.segnidautore.it

 

VAL BONETTI “A world of lullabies”

VAL BONETTI  “A world of lullabies”

VAL BONETTI  “A world of lullabies”

AUTOPRODUZIONE. CD, 2020

di alessandro nobis

Ci sono due ragioni per avere questo disco, realizzato grazie ai contributi dei numerosi appassionati che hanno partecipato alla raccolta fondi promossa da Val Bonetti tramite “Produzioni dal Basso”: la prima perché la musica registrata è di rara bellezza, la seconda perché acquistandolo si dà un aiuto concreto all’Associazione Famiglie con bambini affetti da LGS (L.G.S è L’acronimo di Sindrome di Lennox – Gastault, una piuttosto rara forma di epilessia).

Detto ciò, penso di poter dire come “A World of Lullabies” sia il disco della maturità di Val Bonetti, vista la qualità degli arrangiamenti, la purezza esecutiva e l’aria di grande respiro che permea tutto il lavoro e, naturalmente, per l’accuratezza con la quale ha scelto il repertorio e gli strumenti con le loro timbriche; un lavoro eterogeneo ma reso splendidamente omogeneo che mette in risalto le peculiarità di ogni singolo brano e di ogni singolo popolo nelle cui tradizioni si sono conservate queste autentiche gemme musicali. Le due ninne nanne del Western Africa (dal Senegal e dal Mali) con la splendida Kora di Cheikh Fall (il solo in “Ayo Nèe Ne” è a dir poco spettacolare), i ritmi dispari bulgari di “Polegnana e Todora” eseguita in solo da Val Bonetti, il medioriente iraniano di “Gonjeshk Lala” in trio con l’oud di Peppe Frana e la batteria di Alberto Pederneschi assieme all’inedita chitarra elettrica e quello armeno di “Kessabi Oror” con la deliziosa voce di Nadine Jeanne e la sempre originale chitarra di Simone Massaron sono i brani che più mi hanno intrigato, ma tutto il disco si mantiene ad un livello davvero alto. Apprezzabile – e raro – l’uso anche delle lingue originali dei diversi titoli e molto bella la copertina. Tutto perfetto quindi? Sì. Procuratevene una copia, il perché, se siete arrivati a leggere fin qui, lo sapete già.

Del CD, che in questa versione non sarà più ristampato, sono ancora disponibili pochissime copie sul sito di Val Bonetti (www.valbonetti.com); il chitarrista sta lavorando ad una nuova edizione di questo lavoro, che non avrà la stessa copertina di Quentin Graban – che ha concesso l’uso dell’immagine solo per questa versione benefica – e che sarà pubblicato ufficialmente e quindi disponibile sul mercato, magari con qualche novità ……

Di Val Bonetti ne avevo scritto anche qui:

https://ildiapasonblog.wordpress.com/2015/12/27/simone-valbonetti-cristiano-da-ros/

https://ildiapasonblog.wordpress.com/2020/09/05/da-remoto-val-bonetti-·-marco-ricci/

https://ildiapasonblog.wordpress.com/2020/12/05/val-bonetti-hidden-star/

URBAN FABULA “Movin’”

URBAN FABULA  “Movin’”

URBAN FABULA  “Movin’”

TRP MUSIC RECORDS. CD, 2020

di alessandro nobis

Il pianista Seby Burgio, il contrabbassista Alberto Fidone ed il batterista Peppe Tringali sono il trio “Urban Fabula” e questo loro recente disco, “Movin’” è l’ottimo risultato del loro processo compositivo collettivo e della sua concretizzazione musicale. A parte la bella rilettura di “Englishman in New York”, che chiude il disco, il trio propone sei brani originali che si possono definire “maistream contemporaneo”, il che sta a significare che i tre hanno ben chiara l’evoluzione della musica afroamericana e compongono tenendo ben presenti i suoi comandamenti riuscendo ad essere originali e non facilmente assimilabili ad altri compositori. E questo, a mio modesto avviso è un gran pregio. Il lungo brano eponimo, ad esempio, richiama l’Africa intarsiando la voce narrante di Yoro Ndao nel jazz con lo splendido duo contrabbasso – pianoforte ed i due significativi assoli accompagnati dal preciso e robusto drumming di Tringali ed anche “Manu”, il brano che più richiama la “Mother Africa” (e qui ci ho sentito l’eredità del pianismo sudafricano di Dollar Brand) aperto dal pianoforte che canta la melodia accompagnata dalla percussione e che si conclude con il coro di bambini diretto da Aurora Leonardi sono il chiaro esempio di questo bel progetto tutto iitaliano a testimonianza del valore che ha raggiunto il jazz nel nostro Paese. Ed infine “Circle”, suddiviso in due parti: la prima, una ballad con il contrabbasso suonato con l’archetto e con il pianoforte e la seconda con l’ingresso della batteria dal ritmo più sostenuto e brillante (la terminologia specifica la lascio a quelli che “se ne intendono”) che conduce alla pacata conclusione del brano, una scrittura le cui variazioni vogliono ricordare i cambiamenti che inevitabilmente si verificano nell’esistenza di ciascuno di noi e che descrivono bene il progetto “Movin’” un concept album dedicato alla vita ed alle sue continue trasformazioni.

PADDY KEENAN “Poirt an Phíobaire”

PADDY KEENAN  “Poirt an Phíobaire”

PADDY KEENAN  “Poirt an Phíobaire”

GAEL- LINN RECORDS. LP, 1983

di alessandro nobis

Paddy Keenan è un “Irish Traveller”, comunità importante parte della società irlandese da secoli, come confermano gli storici: una comunità che ha saputo sviluppare nei secoli una propria identità culturale, una propria lingua, abitudini e tradizioni che ne hanno determinata l’unicità rispetto agli irlandesi “stanziali” e questa identità è dovuta ad una forte coesione sociale e ad uno stile di vita (nomade) che li distingue. Per ciò che riguarda la tradizione musicale gli Irish Travellers hanno contribuito in modo determinante allo sviluppo ed alla conservazione delle uilleann pipes, come si sa strumento fortemente identificativo della musica irlandese in tutto il mondo. I Cash (Samuel Rowsome fu molto influenzato dallo stile di James “The Young Cash”), i Keenan, i Doran (Johnny Doran è stato il piper che più di ogni altro ha influenzato lo stile di Paddy Keenan, a suo dire), i Furey appartengono a famiglie Traveller e tra quelli che ho citato i più conosciuti al di fuori dell’Irlanda sono senz’altro Finbar Furey e Paddy Keenan, quest’ultimo se non altro per avere fatto parte della Bothy Band e per aver registrato straordinari lavori come quello con il violinista Paddy Glackin.

Nel 1983 entra nei Windmill Studios di Dublino con lo straordinario chitarrista Arty McGlynn di Omagh nella Contea di Tyrone (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2019/12/19/suoni-rimersi-arty-mcglynn-mcglynns-fancy/) per registrare questo eccellente album che ancora oggi resta una delle miglior incisioni di sempre in relazione alle uilleann pipes: la precisione e la brillantezza della chitarra acustica si abbina alla perfezione con il flauto e le pipes di Keenan (l’accoppiata ideale della musica irlandese è in verità quella con pipes e violino, n.d.r.) esprimono tutta la classe e lo stile dei “Travelling Pipers” a proposito del quale lui stesso dice: “La musica evidenzia le differenze perché mette in risalito l’umore, il sentimento, il dolore, la tristezza, il senso di rifiuto, è il veicolo per esternare queste emozioni. Nessuno potrà suonare come suono io per il semplice fatto che nessuno ha avuto le esperienze che io ho avuto* (ma questo riguarda un po’ tutti i musicisti tradizionali, n.d.r.)”.

Un disco importante questo quindi, nel quale Keenan propone sia brani della tradizione irlandese che brani alloctoni: tra i primi segnalo il reel “Man of the House” eseguito al flauto e la “O’Neill’s Calvary March” composta dal generale Owen Roe O’Neill (1585 – 1649) originario dell’Ulster che combattè la battaglia di Benburb dalla parte delle truppe della Confederazione di Kilkenny, una altro esempio di come spesso la musica popolare nasconde pagine di storia irlandese, e tra i secondi “Jazaique” una slow air bretone composta da Gillet Le Bigot che la registrò nel lontanissimo 1981 per l’album di esordio dei Galorn (il titolo del brano era “Jezaïg”). Perfetti come si conviene ad un chitarrista della sua fama l’accompagnamento e gli abbellimenti di Arty McGlynn che rendono ancor più interessante questo splendido “Poirt an Phíobaire”.

Attenzione, la copertina del CD è diversa rispetto a quella originale.

*Le parole di Paddy Keenan sono tratte dal volume “Free Spirits. Irish Travellers and Irish Traditional Music” di Tommy Fegan e Oliver O’Connell, MPO 2011

IL DIAPASON incontra PEO ALFONSI

IL DIAPASON incontra PEO ALFONSI

IL DIAPASON incontra PEO ALFONSI

“Nubivago”. AZZURRA RECORDS. CD, 2020

di alessandro nobis

D’accordo, nel 2009 Peo Alfonsi pubblicava il primo volume dei lavori per liuto di J. S. Bach arrangiati per chitarra, nel 2015 “O Velho Lobo” un disco con i preludi e studi di Heitor Villa Lobos e “Change of Heart” dove interpreta suoi arrangiamenti degli spartiti di Pat Metheny, ma questo “Nubìvago” pubblicato da poche settimana dall’etichetta veronese Azzurra può essere considerato a tutti gli effetti il primo vero lavoro solista del chitarrista cagliaritano non fosse altro perché le scritture che compongono questo lavoro sono tutte, o quasi, originali. L’uscita di “Nubìvago” è pertanto l’occasione ideale per fare con il chitarrista cagliaritano due chiacchiere sulla sua carriere solista.

– Johann Sebastian Bach, Pat Metheny e Heitor Villa Lobos, seguendo il tuo percorso musicale sembrano essere dei punti fermi del tuo essere musicista e compositore, insomma la conferma di un carattere “Nubìvago”. Ad esempio riascoltando il tuo lavoro di trascrizioni per chitarra del 2009 sembra che tutto quello che è venuto dopo sia stato già detto da Bach quasi trecento anni fa (composte intorno al 1730) nelle sue Suites, nel Preludioe nella Fugaper il liuto, soprattutto se suonate con la chitarra: mi sembrano, detto da ascoltatore, di una modernità sorprendente (ascoltate la Fugadella Suite 997, per fare un esempio, n.d.r.). Ma detto da un musicista, in cosa consiste questa modernità?

– Come ho scritto nelle note di copertina del Cd a lui dedicato cui fai riferimento, la musica di J. S. Bach è probabilmente l’influenza più rilevante di tutta la mia vita musicale. Quali ne siano le ragioni, e quali gli elementi della sua “modernità” come giustamente dici sarebbe troppo difficile dire compiutamente in questa sede. Mi colpisce il fatto che tu ti riferisca in particolare alla Fuga 997 perché è da sempre, insieme con la Ciaccona, la composizione di Bach che amo di più suonare. Posso solo accennare al fatto che, forse, tra gli elementi che rendono la musica di Bach non solo moderna, nel senso di attuale, ma oserei dire eterna vi sia il fatto che per una congiuntura temporale il genio di Bach si sia manifestato proprio quando la tradizione della musica contrappuntistica aveva raggiunto il suo apice. Dopo di lui si poteva solo girare pagina, e così è avvenuto.

Per questo che fortunatamente, pur essendo d’accordo con te sul fatto che in un certo senso “tutto quello che è venuto dopo sia stato già detto”, ciò non ha impedito alla musica, come è peculiarità di tutte le arti, di trovare nuovi modi, tradizioni e stili per ripetere, rinnovandola, la sua parola al mondo.

– A mio avviso la musica di Pat Metheny si caratterizza per una quasi maniacale ricerca dell’aspetto melodico della sua musica ma anche per la sua vicinanza al mondo del jazz più puro e più all’avanguardia colemaniana e improvvisativa. Anche qui hai saputo dare una tua visione personale acustica del suo songbook: quale è stato l’approccio verso la sua musica?

– Ho un debito di riconoscenza infinita verso Metheny, è dal giorno che ragazzino imberbe innamorato del pop-rock distrattamente incappai in “Yolanda you learn” che la mia vita musicale non è più stata la stessa.. quel brano insieme con il “Koln concert” di K.Jarrett aveva gettato il seme del jazz e della musica improvvisata, e quel seme negli anni è diventato un albero rigoglioso e ingombrante nel giardino delle mie passioni musicali. “Change of heart” è nato da questa voglia di pagar pegno da un lato, e dall’altro dalla curiosità di scoprire come – a distanza di almeno trent’anni da quel primo incontro – la musica di Pat Metheny avrebbe potuto ritornare tra le mie dita che nel frattempo avevano incontrato nuovi amori, accettato nuove sfide e – soprattutto – definitivamente abbandonato la tendenza ad imitare le sue!

– Io non sono un musicista, per fortuna del genere umano, ma se ne avessi avuto la capacità e la costanza avrei voluto essere un chitarrista acustico e quindi sarei dovuto passare dalle “forche caudine” di Heitor Villa Lobos. Perché il compositore brasiliano è ancora un punto di riferimento per chi suona la chitarra? Personalmente tu cosa hai visto nelle pieghe nascoste delle sue composizioni?

– “O velho lobo” è il mio omaggio ad uno dei compositori più geniali della storia della musica. Da chitarrista poi, come dici bene tu, la sua opera rappresenta un passaggio imprescindibile. Essermi confrontato con l’integrale delle sue composizioni per chitarra sola è stata una sfida particolarmente difficile e allo stesso tempo stimolante. Difficile perché, pur essendo io un “chitarrista classico”, come si suol dire, cioè proveniente da studi accademici di conservatorio ecc. (e mi preme qui ringraziare il mio adorato maestro Gino Mazzullo senza il quale non avrei  scoperto i tesori di Villa Lobos, né avrei mai potuto serenamente sviluppare e vedere incoraggiate le mie “pulsioni” verso il jazz e le musiche popolari che spesso, soprattutto in quegli anni, venivano viste come il fumo negli occhi dalla stragrande maggioranza degli ambienti “accademici”) ero e sono ben consapevole che con l’integrale di Villa Lobos si sono negli anni cimentati fior fior di virtuosi della tradizione della chitarra classica tali da far impallidire chiunque volesse approcciarsi a questo repertorio con la presunzione di non sfigurare. Sentivo però d’altro lato che qualcosa dello spirito di questa musica poteva trarre giovamento ed illuminarsi di una luce diversa, se osservato e riletto dal punto di vista di un improvvisatore abituato al confronto quotidiano con la musica popolare, il jazz ecc. Quello che ho provato a fare l’ho riassunto in una frase riportata sul cd: “…restituire queste meravigliose pagine di musica alla foresta..” ma è certamente espresso molto meglio, nonché contestualizzato magistralmente nelle note di copertina che accompagnano il cd, firmate da quel luminare in fatto di musica brasiliana che è il mio caro amico e straordinario musicista Gabriele Mirabassi.

– Pur avendo una preparazione classica hai sempre avuto una grande curiosità, conoscenza e rispetto delle altre forme musicali ………

– Questa è forse proprio la chiave che mi ha permesso, come detto sopra, di avvicinarmi con timore solo relativo anche ad opere così imponenti da suscitare una sana e ragionevole soggezione. C’è da chiedersi, in qualità di musicisti, se qualcosa di ciò che facciamo abbia “senso” dopo tutto quello che l’umano ingegno ha prodotto fin qui… Poter partecipare con una piccola goccia all’oceano della creatività umana è possibile o con l’impulso del giovane che cerca una sua collocazione, o con il distacco di chi ha ormai capito che più che la goccia, è l’oceano a contare. Resta il piacere di ammirare, talvolta estasiati, il potere che l’arte umana nelle sue svariate forme ha sempre avuto e sempre avrà, di parlare con mille linguaggi diversi agli stessi meandri non altrimenti raggiungibili dello spirito umano. Tali linguaggi non meritano di essere incasellati secondo principi “gerarchici”, quanto piuttosto di esser avvicinati con curiosità sempre rinnovata e uno sforzo sincero che permetta di coglierne quanto più possibile le specificità.

– Anche in questo tuo nuovo lavoro, “Nubivago” non sei riuscito – e lo dico in modo ironico – a stare lontano da rivisitazioni di brani altrui: il brano che chiude il disco è un brano beatlesiano, e c’è una citazione “colta” del Coltrane di “Giant Steps” perfettamente “innestato” in una tua composizione, “Passi da Gigante”. La curiosità mi spinge a chiederti qual’é stato il tuo approccio a questi due brani, quando ci si misura con questi autori penso sia facile cadere nella riproposta calligrafica?

– Ebbene si, tra i miei grandi amori ci sono certamente i Beatles… non sempre è facile discernere quanto delle ragioni che ci inducono ad amare alcuni autori in particolare sia dovuto al potere che la musica ha di riportarci a emozioni significative del nostro passato, e quanto invece li ameremmo comunque se anche ci imbattessimo oggi per la prima volta nella loro arte con tutta la nostra storia ed evoluzione personale… Sono domande senza risposta ma posso dire che nel caso specifico dei Beatles sono certo di essere in ottima compagnia nel ritenere che  qualcosa di magico sia effettivamente avvenuto dall’incontro di quei quattro ragazzini di Liverpool, anche al netto di tutti gli aspetti sociologici con cui tutto il “fenomeno Beatles” è inestricabilmente intrecciato.Quanto a Coltrane, i passi da gigante sono, ovviamente, i suoi … quelli di un musicista che non si è mai accontentato dei propri traguardi.

Al di là dell’ineguagliata maestria strumentale, resta ancora più rilevante a mio giudizio la sua testimonianza di vita che lo ha visto porre sopra ogni altro imperativo quello di nutrire la sua ricerca spirituale con sempre nuove sfide e una instancabile esplorazione senza compromessi di nuovi territori.  

– Come racconti nelle note di copertina questa è la concretizzazione, simpaticamente tardiva, di un vecchio sogno, quello di registrare in piena libertà la tua musica. Come nascono le tue composizioni?

– Nascono per lo più casualmente, da un’idea che, chissà bene perché, il mio istinto giudica “degna” di essere seguita e sviluppata. Quell’idea è il seme di tutto il resto, quello che viene dopo è appunto la composizione, ovvero il processo, talvolta anche lungo e travagliato, di sviluppo e “organizzazione” dell’idea originaria.

Di come questa idea originaria – che è il vero inizio e la conditio sine qua non per tutto quel che viene dopo – prenda vita non so proprio dire granché, forse perché in fondo preferisco non sollevare il velo di mistero che l’accompagna e che ancora oggi mi permette di sorprendermi e divertirmi a fare il mestiere che faccio.

– Possiamo dire che questo progetto solistico avrà un seguito e, a proposito di Bach, hai intenzione di registrare un secondo volume dei suoi lavori per liuto?

– Mi auguro che le particolari condizioni in cui siamo precipitati e continuiamo ad essere immersi da ormai un anno abbiano presto fine e che si possa riprendere  a godere di quello che resta comunque il privilegio più bello del fare musica, ovvero il farla insieme. Per questo mi auguro che i miei prossimi lavori possano essere il frutto di collaborazioni con qualcuno dei tantissimi musicisti che stimo e che, come me, in questo momento soffrono la privazione della gioia più grande che la musica sa darci: quella di immergere in un’unica bolla due o più individui diversi, talvolta lontani, e fargli sentire il calore di un unico abbraccio che li unisce.

Quanto a Bach, arriverà un volume 2, prima o poi, ma è sorprendente come davanti a certe sue composizioni che amo e frequento da oltre trent’anni ormai, non mi senta ancora pronto..

MASSIMO BARBIERO “Foglie d’erba”

MASSIMO BARBIERO “Foglie d’erba”

MASSIMO BARBIERO “Foglie d’erba”

AUTOPRODUZIONE. CD, 2020

di alessandro nobis

Questo nuovo significativo lavoro del compositore, batterista e percussionista Massimo Barbiero è il quinto dedicato alle percussioni dopo “Nausicaa” (2009), “Keres” (2011), “Sisifo” (2012), “Simone De Beauvoir” (2014, per solo marimba) e “Mantis” (2015); nella discografia di Barbiero una parte rilevante è quindi dedicata allo studio delle percussioni “in solo” e vorrei rimarcare come la qualità dei lavori in duo e i progetto “Enter Ellen” e “Oldwalla” confermano al di là della ormai “assodata” capacità strumentale una continua ricerca timbrica e compositiva.

In “Foglie d’Erba” l’attenzione è rivolta alle percussioni – e quindi non c’è la batteria – e precisamente al vibrafono, alla marimba, al glockenspiel, ai timpani ed ai gong ed il risultato è ancora una volta affascinante e piacevolissimo all’ascolto.

Barbiero scrive e naturalmente esegue dieci composizioni che riescono evidenziare al meglio le potenzialità sonore degli strumenti che di volta in volta “abbraccia”, senza mai essere autoreferenziale o puramente accademico regalando all’ascoltatore emozioni che raramente invece si ascoltano quando le percussioni partecipano ad uno suono di gruppo dove quasi sempre hanno una funzione – peraltro fondamentale – ritmica. Poi, se mi costringo a segnalare i brani che più mi hanno affascinato, scelgo senz’altro quelli per marimba, ovvero “La Rupe” e “La Chimera” per l’atmosfera quasi primordiale che questo strumento riesce a creare e per il suono che mi ha riportato ad ascoltare “Simone De Beauvoir” e Steve Reich e la sua straordinaria composizione “Six Marimbas”. Inoltre mi sono particolarmente piaciute “La Pioggia”per percussioni “assortite” con il suo avvolgente incedere ipnotico e la breve “Schiuma d’onda”, per timpani; ma tutto il lavoro è piacevolissimo all’ascolto e dà la possibilità – ribadisco – di conoscere in modo profondo sia le potenzialità degli strumenti che di apprezzare la grande passione e dedizione di Barbiero per le percussioni. Disco da avere.

http://www.massimobarbiero.com

THE BOYS OF THE LOUGH “Welcoming Paddy Home”

THE BOYS OF THE LOUGH  “Welcoming Paddy Home”

SUONI RIEMERSI: THE BOYS OF THE LOUGH  “Welcoming Paddy Home”

LOUGH RECORDS 001. LP, 1985 / 86

di alessandro nobis

Pubblicato in America nel 1985 dalla Shanachie Records con un titolo simile (“To Welcome Paddy Home”) e naturalmente con copertina diversa e ripubblicato in Scozia dalla neonata etichetta Lough nell’anno seguente, questo ottimo LP vede l’esordio nella band di due irlandesi, l’uilleann piper  e cantante Christy O’Leary dalla Contea di Kerry ed il chitarrista e pianista John Coakley dalla Contea Cork che vanno ad affiancare il violinista Aly Bain (Isole Shetland), Dave Richardson (northumberland) ed un altro irlandese, il flautista Cathal McConnell. Il gruppo, che ha contribuito in modo determinante allo sviluppo del folk revival di matrice scoto irlandese, nelle sue diverse formazioni si è sempre distinto per la perfetta armonia, per la sobrietà dei suoni – il pianoforte acustico, per fare un esempio – l’equilibrio tra gli strumenti e per la scelta del repertorio che dall’Irlanda va alla Scozia “pescando” anche oltreoceano nell’area di Cape Breton: per la prima volta come detto qui appare il suono delle uilleann pipes che con il loro apporto identificano i brani portati in eredità dalla parte irlandese della band: il reel che apre la seconda facciata del disco “The Antrim Rose” dell’accordeonista Paddy O’Brien (1922 – 1991) eseguito magistralmente da O’Leary ed abbinato ad altri due reels, “Miss McGuinness” e “Brereton’s”, oppure la ballata “The Song of Ardee” di Gaby McArdle che si caratterizza per il sontuoso accompagnamento del pianoforte di Coakley alla voce e le pipes di O’Leary che suonano la melodia ed infine le due hornpipes (“Alexander’s” e “The Green Cockade”) con il violino di Aly Bain in grande evidenza.

I Boys of the Lough nella loro storia hanno saputo sempre mantenere una forte indentià restando fedeli al patrimonio tradizionale senza mai cedere a “collaborazioni” con suoni e musicisti alloctoni: non sono mai venuti a suonare in Italia, e questo resterà sempre un cruccio per noi di Folkitalia che abbiamo per anni, forse decenni, di poter ammirare questo ensemble dal vivo. Personalmente confesso di avere avuto la fortuna di assistere ad un loro concerto sull’Isola di Skye, circa quattro decenni fa: grande performance naturalmente, chi c’era non la dimenticherà.