ORCHESTRA MOSAIKA “Orchestra Mosaika”

ORCHESTRA MOSAIKA “Orchestra Mosaika”

ORCHESTRA MOSAIKA “Orchestra Mosaika”

Azzurra Music CD, 2017

di Alessandro Nobis

Mi piace considerare questa significativa opera prima dell’Orchestra Mosaika come una suite di sedici “stanze” in ognuna delle quali trovare colori, suoni e musicisti di diversa provenienza capaci di usare un linguaggio comune per raccontare se stessi e le proprie radici. Un progetto nato da qualche anno a Verona e che sotto la direzione di Tommaso Castiglioni e di Marco Pasetto ha trovato continuità e saputo creare un suono omogeneo la cui caratteristica che lo rende omogeneo nella sua eterogeneità è il gusto per la melodia.

Il repertorio comprende brani originali a fianco di altri di diversa estrazione: tra i primi vi segnalo l’”overture” di Elisabetta Garilli “Nessun si accorse”, “Salsa verde” di Tommaso Castiglioni con i tre soli di pianoforte, marimba e percussioni e tra i secondi quelli che mi sono più gustato sono stati naturalmente l’arrangiamento di “Molde Canticle” del sassofonista norvegese Jan Garbarek, “N’Dorinha” con la voce di Ernesto Da Silva, la melodia del trovatore armeno del XVIII° secolo Harutyun Sayatan “Eshkhemed” con il duduk di Aram Ipekdjian ed infine il canto mariano proveniente dal Llivre Vermeil de Montserrat “Los Set Gotxs”. Intelligentemente c’è anche una citazione musicale di area veronese, una melodia di Emanuele Zanfretta che accompagna un testo tradizionale dell’antica cultura cimbra della montagna veronese, “Binte”.

Un bel lavoro, che si gusta molto piacevolmente nel suo insieme, anche se ogni brano è stato pensato indipendentemente dagli altri, e che in concerto evidenzia ancor più in modo diretto la bontà e la particolarità del progetto al quale partecipano ben ventiquattro musicisti di varia estrazione, dal jazz all’etnica, dalla classica al rock.

Se l’Orchestra Mosaika vi capita “a tiro di concerto”, non lasciatevela scappare.

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KEVIN ROWSOME “The Musical Pulse of the Pipes

KEVIN ROWSOME “The Musical Pulse of the Pipes

KEVIN ROWSOME

“The Musical Pulse of the Pipes”

Kelero CD, 2016

di Alessandro Nobis

Nella musica tradizionale la dinastia è una cosa importante: il passaggio da generazione in generazione di insegnamenti, suggerimenti, tecniche di esecuzione, melodie ed anche piccoli grandi segreti conservati minuziosamente in famiglia è il nucleo di quella che viene definita cultura orale. Kevin Rowsome, ad esempio: è la quinta generazione di pipers e di costruttori di cornamuse irlandesi ed il primo ad interessarsi alla uillean pipes fu Samuel, nato intorno al 1820. Suo nipote, Leo Rowsome, con Willie Clancy e Seamus Ennis fu uno dei più importanti costruttori e virtuosi di questo strumento, influenzando le generazioni successive che ancora oggi tengono in grande considerazione questo particolare tipo di cornamusa con il mantice azionato dal gomito.img_0016

Kevin Rowsome (visto al William Kennedy Piping Festival lo scorso novembre, NELLA FOTO) è il nipote di Leo e figlio di Leon, anche lui costruttore e suonatore naturalmente (come i figli Tierna e Naois) e con questo “Luisle Cheol na bPìob” regala agli appassionati una raccolta di 15 tracce tra brani originali (la descrittiva “The Musical Pulse od the Blasket Islands”), brani tratti dalle più importanti collezione a stampa di musiche per cornamusa come quella di O’Neill del 1850 e di Maclean del 1810 – 1815 e tesori di famiglia come l’Aria The Dark Slender Boy appresa dal padre che la incise come anche fece il nonno Leo e le hornpipes “The Last of the Twins / Roger’s O’Neill” da un manoscritto lasciato dal padre che abbinò una melodia per violino di Edward Cronin ed una per Northumberland Pipes raccolta da Billy Pigg.gen5-kevincd2016-cover

Un disco che suona magnificamente e che gli appassionati di musica irlandese non vorranno far mancare nella loro discoteca: musica che raccorda gli ultimi duecento anni di storia musicale in un’ora di freschezza e di purezza come poche volte mi è capitato di ascoltare.

http://www.kevinrowsome.com

 

BILLY BRAGG & JOE HENRY “Shine a Light”

BILLY BRAGG & JOE HENRY “Shine a Light”

BILLY BRAGG & JOE HENRY “SHINE A LIGHT”

Cooking Vynil Records CD, LP, 2016

di Alessandro Nobis

La storia di un hobo che immagina di salire gratis su di un aereo come faceva molti anni prima quando saliva sui vagoni merci dei treni che andavano in California, e quella di un detenuto che immancabilmente ogni sera a mezzanotte percepisce nel dormiveglia il fischio dello “Speciale Passeggeri” che corre a tutto vapore sui binari non lontani dalla prigione immaginando che la notte durante la quale il faro della locomotiva illuminerà la sua cella sarà finalmente e di nuovo un uomo libero. Un canto di un sognatore che non si arrende al progresso e quello di un uomo disperato che sconta la sua pena, due dei tanti canti narrativi che la microstoria ha regalato alla letteratura americana ed due di quelli inseriti in questo “Shine a Light – Field Recordings from the Great American Railroads”, recentissima collaborazione tra l’americano Joe Henry e l’inglese Billy Bragg, che ritengo un piccolo grande capolavoro musicale.billy-bragg-joe-henry-shine-a-light-field-recordings-from-the-american-railroad

Capolavoro non solo per la purezza naturale del suono e per il profondo rispetto e devozione verso il repertorio che lo pervade tutto il disco ma anche per l’idea che sta alla base del progetto, recuperare alcune folksongs dedicate al mondo delle linee ferroviarie americane, vero motore dell’espansione e colonizzazione verso l’oceano Pacifico. Un modo anche per conoscere e dare il giusto risalto agli autori di queste ballate spesso dimenticati ma così importanti nell’evoluzione della musica nordamericana. Come Dave Cutrell che nel 1929 registrò la prima versione audio di “Midnight Special” (citata in apertura) per la Okeh Records o del misconosciuto – almeno da noi – Gordon Lightfoot che scrisse “Early Morning Rain” nel 1964 incisa anche da Peter, Paul and Mary oltre ad essere inserita nella colonna sonora di “Inside Llewyn Davis” dei fratelli Coen.

Un viaggio di 4400 chilometri dalla Union Station di Chicago a quelle omonima di Los Angeles tagliando in due le pianure centrali con sette fermate (tra le quali Tuscon, St. Louis, El Paso): tempo di far scendere e salire i viaggiatori e Billy Bragg con Joe Henry pronti a registrare, negli spazi disponibili, una canzone con due microfoni e due chitarre. Immagino i due provare e riprovare i brani tra una stazione e l’altra, per la gioia dei compagni di viaggio……….

Grande musica. Diventerà un classico.

Naturalmente consiglio la versione LP per la bella copertina, per le note nella busta interna ed  anche perché con il disco viene consegnato un codice per scaricare i files in digitale.

 

 

IL DIAPASON INTERVISTA “TERRENI KAPPA”

IL DIAPASON INTERVISTA “TERRENI KAPPA”

IL DIAPASON INTERVISTA TERRENI KAPPA

Raccolta da Alessandro Nobis

E’ pronto da pochissimi giorni, e per ora solamente presso l’Associazione Artingegno a Verona in via Ludovico Cendrata 16, è disponibile “Ripples in the Lagoon” l’album di esordio del trio formato da Luca Crispino (contrabbasso), Roberto Zantedeschi (tromba) e Luca Pighi (batteria). Di questo bel disco, del pregevole jazz di nuova composizione che contiene ne avevo già parlato nelle scorse settimane (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/12/20/terreni-kappa-ripples-in-the-lagoon/), ma per saperne di più sul trio e sulla sua filosofia musicale ho pensato di rivolgere alcune domande ai tre musicisti.

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– Prima ancora di ascoltare la musica mi ha incuriosito subito il nome che avete scelto per il trio. Diciamo che il limite della fantasia dei jazzisti con “Terreni Kappa” si sposta ancora più in avanti……….

Luca Pighi: Il nome è stato tratto dal film Zeder dell’83, di Pupi Avati, dove vengono menzionati i “Terreni Kappa”, terreni “singolari” che hanno la proprietà di reinfondere la vita a chi ne venga a contatto. Nel nostro caso i “Terreni” sono territori di esplorazione dei generi, senza porsi dei limiti ma altresi lasciandosi coinvolgere e dando nuova forma a stili musicali diversi, legando i brani in qualche modo ad uno scenario quasi cinematografico.

– La musica che suonate mi sembra già piuttosto matura per un lavoro d’esordio. Come vi siete incontrati e quando avete deciso di dare vita a questo progetto?

Luca Crispino: Mi sono trasferito da Padova a Verona circa tre anni fa, da qui, per motivi di lavoro, ho ricominciato a collaborare in varie formazioni musicali dove, in base all’occorrenza, mi alternavo tra chitarra e contrabbasso, anche se il mio strumento principale rimane la chitarra. In una di queste formazioni ho avut l’occasione di suonare e conoscere Roberto Zantedeschi e davanti ad una tazza di caffè, poco prima di suonare, nacque l’idea di collaborare per un progetto di musica di nuova composizione. Da lì a poco Roberto contattò il batterista Luca Pighi con il quale suonava già da diverso tempo nella band “Peluqueria Hernandez”. Ci fu subito sintonia ed iniziammo a lavorare all’album

– Tromba, contrabbasso e batteria è un trio inusuale per il jazz. Perché non un pianista?

Luca Crispino: Non è così inusuale, sicuramente non avendo uno strumento armonico il tutto risulta molto più complesso, ma ci ha molto stimolato perché ci ha portato a trovare nuove soluzioni compositive ed interpretative per riempire gli spazi vuoti che a volte si potevano creare, lasciando molto più spazio alla libertà nell’improvvisazione. Un altro motivo è sicuramente la volontà di non voler rovinare un equilibrio che si era andato a creare dal punto di vista lavorativo ed umano

– Nel brano che dà il titolo all’album c’è anche un po’ di elettronica, ben usata e calibrata. Quali sono i vostri trascorsi musicali? Solo jazz o anche altro?

Luca Crispino: Ho iniziato suonando progressive e blues approdando poi al jazz ed alla fusion, anche se in alcune occasioni mi esibisco in performance di musica sperimentale ed improvvisazione. Comunque ascolto i più svariati generi ed essendo di natura una persona molto curiosa cerco sempre di approfondire e suonare cose nuove.

Roberto Zantedeschi: Il mio background è fatto di ascolti principalmente jazz e latin/jazz come Dizzy Gillespie, ed musicisti del mainstream come Miles Davis, Chet Baker, Freddie Hubbard, per poi passare a trombettisti moderni come Tomasz Stanko, Kenny Wheeler e Terence Blanchard che tra l’altro è stato mio argomento di tesi al Conservatorio. Nel brano “Ripples in the Lagoon” emerge la voglia di esplorare nuovi territori con l’ausilio dell’elettronica, e questo è ciò che da subito ha creato l’intesa tra me e Crispino. Non volevamo però diventasse invadente, ma bensi un valore aggiunto al brano ed alla band. E’ appunto la ricerca compositiva ed improvvisativa che accennava Luca; questo dialogo fra le parti per far in modo che il tutto funzioni e stia in piedi anche con pochi strumenti a disposizione.

Luca Pighi: Il mio percorso musicale, inizia dal rock-progressive, con una band veronese chiamata “Francesco baracca Pilota” nel ’81 dopo un percorso di studi presso l’Accademia di musica moderna a Milano. Successivamente ho avuto modo di suonare in molte band veronesi e non, spaziando dal soul, R’nB al funk, con cantanti come Kay Foster e Ginger Brew e musicisti del calibro di James Thompson e Gianluca Tagliavini. Dal 2004 sono percussionista del gruppo “Peluqueria Hernandez”, band nella quale ho avuto modo di conoscere Roberto

– Ho apprezzato molto il fatto come le composizioni siano tutte originali. Quali sono state – se ce ne sono state – le fonti d’ispirazione per i due compositori, Luca Crispino e Roberto Zantedeschi? In certi momenti mi sembra di ascoltare certe atmosfere jazz che vengono dal nord, o mi sbaglio?

Luca Crispino: E’ difficile spiegarlo…..credo che la mia fonte d’ispirazione nasca principalmente dall’unione tra immaginario e stati d’animo, incidentalmente contaminata dai “vapori” dell’epoca in cui viviamo. Il processo di composizione nel complesso si è evoluto in maniera naturale e spontanea ed ognuno di noi ha contribuito nello sviluppo dei brani dell’altro lasciando largo spazio ad improvvisazioni e libertà d’ azione, per questo anche la scelta di registrare in presa diretta e con pochissimi take, agevolando così emotività ed istinto.

Roberto Zantedeschi: Quando scrivo generalmente mi lascio travolgere da un’immagine che mi ha colpito, da un mood particolare o da persone che incontro nella mia vita, cercando appunto di descrivere le emozioni che mi ha trasmesso quel particolare evento.Di sicuro le influenze di un jazz nordico ci sono, di fatto, sono rimasto colpito da una band Norvegese che ho avuto modo di ascoltare in un concerto live l’estate scorsa che utilizzavano molto l’elettronica (anche se forse fin troppo per i miei gusti musicali).

– Il jazz italiano cresce continuamente di livello, eppure ai festival importanti i nomi in cartellone sono sempre quelli. Eppure in parecchie piccole produzioni come la vostra la qualità c’è, ed è anche alta. Avete tutte le carte in regola per uscire dal sottobosco ed emergere a livello italiano e non solo. Come pensate di muovervi? Solo social network – che a mio parere vanno bene per un contatto epidermico – o avete in mente qualcosa d’altro?

Luca Crispino: La musica nell’arco degli anni è cambiata, un musicista al giorno d’oggi oltre che al suonare si deve occupare di tutti quegli aspetti imprenditoriali quali raccogliere i contatti, organizzare le serate, creare la pubblicità e fare un vero e proprio lavoro di marketing. Per quanto riguarda i festival gli organizzatori di quest’ultimi hanno la tendenza, per ragioni commerciali, di andare sul “sicuro” e spesso e volentieri i nomi che appaiono sui cartelloni sono sempre gli stessi, senza nulla togliere all’indubbia qualità degli artisti. Non danno cosi spazio però a nuove proposte, mantenendo la situazione musicale sempre ferma e stagnante.

 

FABIO DOVIGO “Mirò”

FABIO DOVIGO “Mirò”

FABIO DOVIGO “Mirò”

MG Records 04, 1990

di Alessandro Nobis

Violoncellista, organettista, tastierista e compositore bergamasco e membro dell’ensemble Magam (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2017/01/15/magam-suonando-lallegrezza/), Fabio Dovigo con questo “Mirò” realizzava il suo primo ed unico lavoro solista, pubblicato – autopubblicato per la verità – nel 1990 (ventisette anni fa…….) e sostanzialmente rimasto sconosciuto anche ai musicofili più attenti.

“Mirò” è la prova provata, veramente l’ennesima, di come il mondo musicale italiano abbia nascosto, nasconde – e proseguirà su questa strada – piccoli ma significativi progetti di ricerca popolare e di composizione verso i quali (fatte le debite quanto rarissime eccezioni) le case discografiche e di distribuzione a loro collegate, i produttori, gli enti pubblici, i tuttologi ed infine i promoter nazionali e locali malati spesso di esterofilia acuta non hanno mai mostrato e perseverano  in questo, alcun interesse.

scansione-dovigoE quindi è con grande piacere e grave ritardo che, grazie a Ranieri Fumagalli al tempo coinvolto nell’operazione “Mirò”, ho ascoltato questo lavoro del quale non conoscevo affatto l’esistenza. Tutte le composizioni sono originali di Dovigo ed alle registrazioni hanno partecipato musicisti legati alla tradizione come Ranieri Fumagalli e Oliviero Biella vicino ad altri provenienti dal mondo del jazz come Gianluigi Trovesi. La musica? Siamo nell’area di quella che oltralpe veniva chiamata in quegli anni “nuova musica acustica”, ovvero musica sì ispirata dalle tradizioni ma anche dalla ricerca di nuovi suoni, di nuove combinazioni, di nuove strade (e Riccardo Tesi in Italia ne è stato il pioniere). Ecco quindi lo scottish dell’aviatore aperto dall’organetto di Dovigo e dal contrabbasso pizzicato di Sandro Massazza, la danza “E sette e otto” vicino a “Sempre l’ora del tè” con l’intro di campanine ed il bel solo di Trovesi al soprano; una prova convincente e sincera, brani costruiti con passione ed abilità artigianale che quasi trent’anni dopo si ascoltano e si apprezzano ancora. Interessante ma un vero peccato che questo progetto non abbia avuto un seguito, peccato anche che Fabio Dovigo abbia abbandonato – così mi risulta – l’attività di musicista.

IL DIAPASON INTERVISTA LINO STRAULINO

IL DIAPASON INTERVISTA LINO STRAULINO

IL DIAPASON INTERVISTA LINO STRAULINO

Raccolta da Alessandro Nobis

Uno dei più interessanti musicisti che mi è capitato di ascoltare e di apprezzare – e lo faccio costantemente da quando un amico mi ha fatto sentire “Blue” pubblicato nel 2003 – è il friulano Lino Straulino, già membro fondatore dell’importante ensemble di folk revival La Sedon Salvadie in compagnia di Andrea Del Favero e Dario Marusic. E quale migliore occasione per porgli alcune domande se non quella della pubblicazione di uno straordinario disco per sola chitarra come “Barbad e L’alighe”, stampato solo in 130 copie numerate ma che si è già candidato a diventare un modello per i chitarristi acustici che si ispirano alla musica tradizionale?

  • Il tuo più recente lavoro lo hai dedicato alla chitarra acustica e comprende brani originali, di origine rinascimentale, brani del repertorio popolare inglese e danze tradizionali italiane. Come ti sei avvicinato alla tradizione musicale della tua terra di origine, la Carnia?
  • In realtà, la musica popolare mi girava attorno da sempre, avendo vissuto in una valle carnica fin da piccolo ero costantemente immerso in un mondo di cantori e suonatori tradizionali con repertori davvero sorprendenti
  • Hai registrato anche una coppia di danze tratte dalla raccolta di Giorgio Mainerio.
  • Diciamo che le due danze in questione sono le “danze friulane” che Giorgio Mainerio raccolse nel suo leggendario “primo libro de balli” del ‘500, in realtà ce n’è una terza: l’arboscello (ballo furlano). Delle tre, la celeberrima Scjarazule è sicuramente uno dei brani più importanti e misteriosi di queste terre.
  • Quali le fonti dalle quali hai tratto le danze popolari: scritte oppure orali?
  • Le tre danze italiane a dire il vero le ho recuperate da dei video in rete e poi ci ho costruito su un arrangiamento.
  • Nella tua vita musicale hai affrontato diversi generi musicali, dalla canzone d’autore al progressive alla tradizione popolare in generale, intendo anche celtica. Insomma, sei un musicista eclettico……….
  • Lasciami fare una battuta: perché mangiare solo pastasciutta al ragù tutta la vita? La musica è talmente intrigante che è difficile non farsi ammaliare dalle sue svariate ed invitanti forme, per cui mi sono sempre lasciato guidare dal mio istinto nell’approccio al mondo dei suoni come fa un bambino di fronte ad un negozio di dolciumi, cercando di assaggiare un po’ tutto.
  • Dal punto di vista squisitamente tecnico, quali sono i chitarristi che più ti hanno influenzato? Quelli di scuola anglosassone o americana?
  • Senza ombra di dubbio il mio modo di suonare è figlio dei maestri inglesi in particolare John Renbourn al quale devo moltissimo e senza il quale probabilmente non suonerei come sto suonando.
  • Anche questo nuovo CD è stato pubblicato in un numero limitato – limitatissimo – di copie, rinforzando la tua immagine di “nobile artigiano della musica” e di musicista “di nicchia”. Una tua scelta?
  • Non proprio, direi una scelta forzata; ogni musicista penso gradisca il fatto di far arrivare a quanta più gente possibile la propria musica ma ultimamente sembra difficile poter pensare di vendere anche solo 100 copie di un disco e pertanto la produzione va calibrata su queste taglie purtroppo. Io stesso sto acquistando centinaia di dischi di gruppi e artisti emergenti degli ultimi 4\5 anni ed ho osservato che difficilmente stampano più di 300 copie delle quali un centinaio in tiratura ultra limitata. I supporti nascono già come oggetti da collezione e non di consumo: questa è quello che sta accadendo per le musiche di settore più interessanti.
  • In molti Paesi la cultura popolare è supportata dalle istituzioni locali e nazionali che promuovono – anche se spesso solo in parte – Festival, Rassegne e scuole dove si insegna il repertorio e gli stili della musica tradizionale e comunque finanziano progetti di ricerca negli archivi e sul territorio. Qual è la situazione in Friuli (che ricordo è una regione “a statuto speciale”), è cambiata l’attenzione delle istituzioni verso le tematiche culturali negli anni o è rimasta come in molte altre aree poco o per nulla considerata?
  • Che io sappia a parte Valter Colle e Folkest dischi non c’è molto altro per quanto riguarda questo tipo di documentazione e non credo che abbiano significativi sostegni da parte della regione che anzi sembra molto più attenta a finanziare i grossi concerti estivi che le microrealtà culturali del territorio.
  • Pensi che ci siano ancora aree friulane poco esplorate e studiate dal punto di vista etnomusicologico, o materiale giacente in qualche piccolo archivio nascosto?
  • Sicuramente c’è ancora tanto lavoro da fare dal punto di vista etnomusicologico anche se le fonti con il passare del tempo si fanno sempre più deboli e incerte. La strada da percorrere secondo me è quella dell’analisi dei materiali raccolti durante i decenni. Credo che un’opera di sintesi che tenga conto degli studi fatti finora e dei documenti orali e scritti comparati sia inevitabile per vare un’idea più chiara sul da farsi.
  • Cosa ci dobbiamo aspettare da te in questo 2017? Qualche progetto in cantiere? So che hai scritto – anzi ne ho letto un paio sulla tua pagina di Facebook – una serie di racconti autobiografici. Ne nascerà un libro?
  • E’ un’idea che sto accarezzando da tempo, i racconti sono nati un paio di anni fa e ora rileggendoli mi sembrano ancora freschi e interessanti, pertanto non è escluso che prendano forma in un libro. Ho sempre considerato con sospetto i musicisti che diventano scrittori e viceversa, un po’ come i panettieri che diventano macellai, ma se la cosa nasce spontanea e non indotta credo che si possa tollerare no?

LED ZEPPELIN “THE COMPLETE BBC SESSIONS”

LED ZEPPELIN “THE COMPLETE BBC SESSIONS”

LED ZEPPELIN “THE COMPLETE BBC SESSIONS”

Atlantic Records 3CD – 5 LP, 2016

di Alessandro Nobis

Nel novembre di venti anni fa, correva l’anno 1997, con mia somma felicità veniva pubblicato un doppio Cd che conteneva quella che allora si pensava fosse l’integrale delle 6 session che i Led Zeppelin registrarono per la BBC tra il 19 marzo 1969 ed il 1 aprile del 1971 in varie locations andando a coprire storicamente il periodo tra il primo album (marzo 1969 ma registrato alla fine del ’68) ed il terzo, a parte una versione di “Black Dog” che apparirà sul quarto album. Senza mancare di rispetto al periodo successivo – che inizia alla fine del ’71 con la pubblicazione appunto di Led Zeppelin IV –  questi sono gli Zep che preferisco per l’ancora fortissimo legame con la fase Yardbirds di Page, il blues elettrico – molte le “citazioni” dei maestri e le interpretazioni dei classici del blues – e la composizione di “riffs” e di brani indimenticabili che fanno oramai da molti anni parte integrante della storia del rock e che sono stati e sono tuttora il banco di prova per una moltitudine di chitarristi in erba.led-zep-bbc-sessions-packshot

Come detto, i primi due compact contengono materiale già pubblicato nel 1997 in un doppio CD mentre il terzo contiene in realtà brani già apparsi su bootleg: si tratta per lo più di esecuzioni di brani ultraconosciuti degli Zeppelin, ovvero “Communication Breakdown”, “What Is and What Should Never Be”, “Dazed and Confused”, “White Summer“, “What Is and What Should Never Be”,”Communication Breakdown”, “I Can’t Quit You Baby” di Willie Dixon, “You Shook Me” di Dixon e J.B. Lenoir e “Sunshine Woman”, brano mai pubblicato dal quartetto ma noto ai fans più sfegatati della band inglese. Gli ultimi tre in particolare provengono da una registrazione captata da una radio AM, quindi la qualità non è la stessa, invece ottima, di tutto il resto. Nel libretto allegato – che riporta le note già apparse nel ’97 – la minuziosa cronologia degli “eventi”.

Per chi se lo può permettere, è stato anche pubblicato un megacofanetto con 5 ellepì……………

Procuratevelo, gli Zeppelin dal vivo di quegli anni erano straordinari, ruvidi, arcigni e innovativi.

 

 

ATLAS “Affinity”

ATLAS “Affinity”

ATLAS “Affinity”

Ropeadope CD, 2016

di Alessandro Nobis

Grazie al crowfunding – ed anche io avuto il piacere di dare un modesto contributo “sulla fiducia” -il chitarrista Cillian Doheny ed il suonatore di concertina Cillian King hanno confezionato questo ottimo CD al quale è “allegato” un DVD con oltre 50 minuti di interessanti e ben girate riprese effettuate durante la registrazione in studio: registrazioni che evidenziano quanto sia stato importante il lavoro di musicisti come Noel Hill per le nuove generazioni, che si sono “armate” di una modernissima pedaliera di tutto rispetto da far invidia ai chitarristi, non per stravolgere il suono di questo piccolo ma difficile strumento ma per aumentarne lo spettro sonoro. Le giovani generazioni ascoltano musiche molto diverse oltre a quella dei maestri della tradizione, e questo aumenta certamente la loro capacità di scrittura ed anche di arrangiamento di musiche lontane anni luce da questa (non dimenticherò mai la versione di “In a Silent Way” di Niall Vallely).

Se state pensando che questa sia musica per specialisti state prendendo un grosso granchio, qui i due Cillian hanno composto, suonato ed arrangiato un’ora di musica godibilissima sia a livello superficiale che profondo, nella quale le radici del mainstream irlandese sono ben visibili ed anche trattate con grande rispetto. Ascoltate la raffinatezza dell’arrangiamento di “One day like this” con il trio d’archi, “Hyperion” con il tempo scandito dalla batteria e la lunga composizione “Fail better” che alterna momenti riflessivi ad altro più vicini alle arie “danzanti” irlandesi.

Per me una vera e bellissima sorpresa, uno dei migliori dischi di musica di area celtica che abbia ascoltato di recente. Bella anche la copertina in puro stile visionario “Roger Dean”.

Il crowfunding ha funzionato, per una volta ho avuto la “vista lunga”.

 

http://www.generationatlas.com/

 

 

IL DIAPASON INTERVISTA OTELLO PERAZZOLI

IL DIAPASON INTERVISTA OTELLO PERAZZOLI

IL DIAPASON INTERVISTA OTELLO PERAZZOLI

Raccolta da Alessandro Nobis

Otello Perazzoli, originario della bassa veronese della quale conserva la caratteristica e riconoscibilissima “parlata”, è certamente uno dei più importanti divulgatori della cultura popolare veronese in senso lato, visto che per ragioni professionali ha passato parecchi anni nella parte opposta della provincia, nella Lessinia che fu dei Cimbri.

Mi è sembrato doveroso ed opportuno porgli delle domande riguardanti la sua attività, la sua storia di ricercatore e di divulgatore, parole che definiscono la sua “mission” – come si usa chiamare adesso e lo disco con tono ironico – ma che in realtà definiscono “solo” la sua enorme passione verso la storia e la cultura che le generazioni passate ci hanno regalato e che non dobbiamo assolutamente far cadere nell’oblio. Come ricorda Otello al termine dell’intervista citando Mahler – che non è proprio uno qualsiasi – “la tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco.

  • Otello, tu sei originario della pianura veronese zona lungamente studiata da Dino Coltro. Come si sei avvicinato e poi appassionato alla cultura popolare, attraverso tuoi familiari o studiando l’opera di studiosi come Coltro?
  • Tutto è nato parecchi anni fa, diciamo una trentina, quando, con un gruppo di amici abbiamo dato vita al Canzoniere del Progno, un gruppo di Illasi ci ricerca ed esecuzione delle cante della tradizione orale. E’ stato allora che ho sentito la necessità e la voglia di conoscere Dino Coltro che tanto a lungo e tanto profondamente aveva studiato la cultura contadina.img_0022
  • Come si è evoluto il tuo approccio e quali sono state le principali attività in questo ambito?
  • Dopo il periodo passato con il Canzoniere del Progno, con altri amici abbiamo dato vita al Cantafilò che, oltre alle cante, propone tutt’oggi anche le danze della nostra tradizione. Nel frattempo sono andato ad insegnare Lettere a Selva di Progno e mi sono accorto che, nella memoria degli anziani, sopravviveva molto del patrimonio orale originale della zona. Grazie agli alunni sono venuto in contatto con i genitori ed i nonni e ciò mi ha permesso di continuare la ricerca sulle tradizioni locali. In quegli anni è iniziata la ricerca sistematica su quanto è stato scritto sul la tradizione orale e mi sono reso conto che , oltre alle circa 10.000 pagine di Dino Coltro,  altro c’era da conoscere e da studiare.
  • Come insegnante hai girato la provincia in lungo ed in largo. Hai avuto modo di incontrare “informatori” dai quali hai imparato cante, filastrocche o storie “popolari, persone alle quali sei rimasto legato, con le quali hai avuto la sensazione di essere sulla stessa “lunghezza d’onda”. Vuoi ricordarne qualcuna?
  • Sono tante le persone a cui sono riconoscente, penso a quelle che mi hanno aiutato a conoscere più da vicino l’anima profonda della montagna veronese e dei quali sono stato orgoglioso di diventare amico (Piero, Ettore, Gildo, Tilio, Agostino, Don Alberto e tanti altri) Li ho conosciuti che erano aventi con gli anni ed ora non ci sono più. Rimane vivissimo il loro ricordo e spesso propongo le loro storie, le cante che mi hanno insegnato, alcuni aneddoti della loro vita negli incontri che faccio in giro per la provincia, e non solo.
  • Da quando hai iniziato il tuo lavoro di docente di lettere, come è cambiato l’approccio tra i ragazzi e le tradizioni della terra dove vivono?
  • Rispetto ai primi anni di insegnamento, circa 35 anni fa, mi sono reso conto che il rapporto degli alunni con l’ambiente andava cambiando. All’inizio, quando si usciva dalla scuola per percorrere i sentieri del bosco lì vicino, erano loro ad indicarmi, in dialetto, il nome delle piante, che mi parlavano del lavoro dei nonni, che sapevano come si fa il formaggio, si prepara la legna per l’inverno, si taglia e si raccoglie il fieno. Poi molto è cambiato, al rapporto con gli anziani si è sostituita la tv, i videogiochi e, tutte quelle piante con tanti nomi particolari sono diventati “pinetti”. E così ho cercato di essere il loro legame con la cultura della tradizione, aiutato in questo nella straordinaria produzione di opere che trattano la Lessinia. Abbiamo cercato nuove cante, formato un gruppo, i Torototei, con i quali andavamo a proporle in tante occasioni, abbiamo cercato nuove fole, consegnate poi ad Attilio Benetti che le ha inserite nelle sue raccolta, abbiamo pubblicato un piccolo volume di fiabe e collaborato ad altre pubblicazioni edite da Taucias Gareida, la casa  editrice di Giazza. Siamo ritornati nei boschi vicini alla scuola per riconoscere e chiamare per nome gli alberi, gli arbusti, i fiori spontanei, siamo stati alla Carbonara preparata ogni anno dal Nello di Giazza ed abbiamo allestito, alla fine dell’anno scolastico, mostre a tema con gli oggetti di uso quotidiano.
  • Selva di Progno è uno dei paesi nei quali hai lavorato, una “terra cimbra”. Quanto è distante il “mondo cimbro” o le sue vestigia “orali” nelle valli della Lessinia e nella memoria delle persone?
  • Ho lavorato per 30 anni a Selva di Progno, il comune più a nord della Val d’Illasi che comprende le frazioni di Campofontana, San Bortolo e Giazza. La lingua cimbra è scomparsa dal capoluogo e dalle frazioni più alte almeno un centinaio di anni fa mentre è resistita solo a Giazza, dove ancora sopravvivono pochi testimoni che ricordano quell’idioma. Difficile stabilire ciò che sia retaggio dei Cimbri nella cultura trasmessa agli alunni.
  • Hai cercato di raccontare la “cultura popolare” nelle classi dove hai lavorato. Quali erano i temi che affrontavi e che più interessavano i ragazzi? Ti è capitato qualche volta che dalle famiglie dei ragazzi “arrivassero” informazioni nuove?
  • Come ho già detto prima, ho sempre considerato mio compito primario quello di far conoscere ai ragazzi l’ambiente fisico ed umano dal quale provenivamo, di trasmettere loro l’orgoglio di tale appartenenza, la bellezza e l’originalità della loro storia e delle loro tradizioni. Il contributo della famiglie è stato fondamentale per le varie ricerche che con i colleghi abbiamo intrapreso. Sono stati raccolti canti che non conoscevo, fole inedite, storie bellissime. Molte delle relazioni che sono nate allora con i genitori continuano tuttora, molti dei ragazzi, alle superiori ed all’esame di maturità hanno presentato relazioni sul loro ambiente, con molti di loro il dialogo continua. E trovo tutto questo per me molto gratificante ed importante.
  • Credo tu non sia esattamente ciò che si definisce un “musicista tradizionale”, ma piuttosto un cantastorie, un divulgatore con l’importante ruolo non di far rivivere filologicamente un mondo che non tornerà più ma quello di fa conoscere che un mondo diverso da questo è esistito nelle passate generazioni………
  • Certamente non posso proprio essere definito un musicista tradizionale, dato che non conosco nemmeno il pentagramma….. Mi va bene la definizione di “cantastorie”, anche se mi sento inadeguato rispetto ai grandi, veri cantastorie che mi hanno preceduto. Mi ritengo un “contastorie” (“racconta storie”, n.d.r.) perché il tempo dedicato ai racconti, alle tradizioni, ai proverbi ultimamente supera quello riservato alle cante. Considero Coltro un “amico da lontano”, come mi scrisse nella dedica di un suo libro, e lo ricordo in ogni occasione. Come scrisse Gustav Mahler “tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco”. Ecco, nel mio piccolo, cerco di essere nei miei incontri il custode di un fuoco che, spiace constatarlo, si è spento.
  • Quali sono le tematiche che proponi quando con il tuo organetto diatonico viene chiamato a divulgare la tradizione o semplicemente intrattenere il pubblico?
  • I più “gettonati” sono “Il ciclo della vita nei canti, nelle storie, nei proverbi della tradizione orale”, “Riti, miti leggende e cante della cultura contadina”, “lavoro ed emigrazione nelle cante e nelle storie della nostra tradizione”, “Dal Risorgimento alla Costituzione, le cante e le storie del nostro passato”, “ Il filò”, “La vita e l’opera di Dino coltro, amico da lontano”, Cante e storie di cantastorie come “Il ciclo dell’anno nella tradizione orale”,“ Da Santa Lucia alla Veceta, cante, riti e storie legate al Natale, e dintorni”
  • I tuoi contatti?
  • Molti inviti arrivano dalle università del tempo libero della provincia, da associazioni locali come Proloco, Associazioni Alpini, Biblioteche Comunali, dalle scuole materne fino all’università dove per esempio ho proposto il mio repertorio alla cattedra di “Storia dell’educazione”, da privati per particolari ricorrenze, da qualche festa o sagra. Il lavoro non manca perchè grande è la voglia di ricordare un passato vicino ma tanto lontano.
  • Chi fosse interessato a conoscermi mi può contattare su Facebook: il link è https://www.facebook.com/otello.perazzoli?fref=ts

 

 

MAGAM “Suonando l’Allegrezza”

MAGAM “Suonando l’Allegrezza”

MAGAM “Suonando l’Allegrezza”

Robi Droli 008 LP, 1988

di Alessandro Nobis

Al momento della pubblicazione di questo LP, ovvero nel 1988, il catalogo Robi Droli (benemerita etichetta piemontese che ebbe il coraggio di promuovere musica e musicisti del panorama tradizionale italiano) aveva in catalogo La Ciapa Rusa, I Suonatori delle Quattro Province, Ritmia, Buntemp, Re Niliu, ed i Musetta insomma le migliori realtà di quegli anni. Ed i Magam.

Era tempo che desideravo scrivere due righe sui Magam, da quando un anno fa ne avevo parlato con Vittorio Grisolia in occasione di un bel concerto veronese degli Smorfiacc del quale avevo parlato in questa sede (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/03/05/dalla-piccionaia-smorfiacc/).r-5522846-1395572056-3433-jpeg

I Magam erano un quartetto dell’area bergamasca nel quale militavano Fabio Dovigo (organetto, violoncello, tastiere e voce), Luigi Basurini (campanine, cetra, clarino e voce), Oliviero Biella (chitarra, violino, voce) e Ranieri Fumagalli (baghet, piva bergamasca, bombardino, flauto e voce). Il loro repertorio comprendeva brani della tradizione delle valli bergamasche – soprattutto la Val Seriana –  arrangiati in modo elegante ed allo stesso tempo filologico affiancati da brani originali, cosa che per l’epoca era una novità: Casnigo, Leffe, Parre, Grumello, Desenzano al Serio i punti di origine delle musiche (danze, serenate, canti narrativi) ripresi da volumi editi dal DAMS di Bologna curati da Valter Biella ed anche arrangiamenti di composizioni originariamente scritte per campane, come “Asimmetrica” e “Quand’i campane / Otto campane) che chiudono questo bel disco.

Ad essere sincero non sono a conoscenza di altro materiale prodotto dai Magam (a parte l’audiocassetta “Musiche per il Natale” del 1990) o dell’esistenza del CD di “Cantando l’Allegrezza”.

Un disco significativo che copre un’area del centro nord che nascondeva e forse ancora nasconde tesori musicali importanti. Il testimone è passato agli Smorfiacc: sosteniamoli.