SOSTIENE BORDIN: DEVO “Q: Are we not men? A: We are Devo”

SOSTIENE BORDIN: DEVO “Q: Are we not men? A: We are Devo”

SOSTIENE BORDIN: DEVO

“Q: Are we not men? A:We are Devo”

VIRGIN RECORDS. LP, 1978

di Cristiano Bordin

Se per produrre il disco di esordio di una band si offrono David Bowie, Brian Eno, Robert Fripp e Iggy Pop è facile prevedere che quell’album sarà destinato a restare nella storia. Ed è quello che è successo a “Q:Are we not men? A:We are Devo”. Se vogliamo tradurre in suoni una definizione come “new wave” la scelta può sicuramente cadere su questo disco.

L’anno era il 1978 e, per la cronaca, la gara tra i produttori la vinse Brian Eno che però dovette poi mediare parecchio con il quintetto di Akron, Ohio. “Q. are we not men? A: We are Devo” è insomma il classico disco   capace di reggere i cambiamenti epocali che ci sono stati nella musica da allora ad oggi e quindi di diventare un disco senza tempo. I suoni- per quanto realizzati con le tecnologie e gli strumenti dell’epoca-  sono ancora  freschi e potenti come allora. Basta il riff di “Uncontrollable urge”, la voce schizoide di Gerry Casale, i cori- elemento importante dell’album- e si è pronti per un viaggio in un mondo alla rovescia e per un futuro inquietante anche se descritto con ironia. “Era un mongoloide/A nessuno importava/ Più felice di te e di me”: dice infatti “Mongoloid”.

Ma il viaggio nel futuro – o quello che sarebbe stato il nostro futuro senza che noi lo sapessimo – continua con l’episodio forse più celebre, una “Satisfaction” che da monumento della storia del rock   si trasforma diventando un’altra cosa, lontano anni luce dall’essere una cover. Ma il 1978 conosceva anche l’esplosione del punk: c’è traccia di questo nel disco? Senz’altro, tenendo conto che “punk” per i Devo è una forma di espressione, un mezzo, non una gabbia, e che quindi finiscono per essere quelli che hanno tenuto davvero fede al senso originario di quel movimento. “Come back Jonee”, “Gut feeling” devono molto al punk, i riff sono secchi come epoca impone, ma poi c’è sempre qualche particolare, qualche invenzione che supera i clichè.

I cinque di Akron- i fratelli Casale, i fratelli Mothersbaugh con il batterista Alan Myers – hanno la capacità di reinventare e di rileggere suoni ed ispirazioni tra le più diverse: dai Kraftwerk al punk, dall’elettronica a Captain Beefhart alle sigle pubblicitarie. Ne esce un disco da ascoltare, quasi 45 anni dopo, tutto di un  fiato fino al finale, più lento e avvolgente, di “Shrivel up”.

C’è un altro elemento importante che segna la storia di questo come dei lavori successivi: la visionarietà, il saper vedere un mondo che cambiava in peggio quando erano in pochi ad accorgersene. E in questa capacità c’entra anche il vissuto dei protagonisti. Il 4 maggio 1970 quando scoppia la rivolta studentesca alla Kent State in Ohio e la polizia spara Gerry Casale era lì. Se andiamo oltre le tute gialle, il gusto per lo show, gli occhiali bizzarri e i cappelli elicoidali scopriamo un gruppo che aveva una forte carica politica. “Sono sempre stato politicizzato – racconta in una intervista Casale – qualunque scelta che noi facciamo è politica, anche la più banale. Oggi stiamo assistendo ad una separazione tra i poveri e ricchi sempre più ricchi, antidemocratici per definizione. Siamo arrivati a questo punto per colpa del peggior capitalismo possibile”.

La devoluzione ha vinto come loro avevano previsto e anche in Usa se ne vedono i frutti come si è visto nei protagonisti dell’assalto a Capitol Hill: “Vogliamo parlare di quel tipo con l’elmo da vichingo? – continua Casale – Assolutamente incredibile, un vero subumano. “Are we not men“? Ecco spiegato il senso di un titolo come quello”.

Il cerchio si chiude, passato e presente con questo album si mescolano, la distopia è servita e la devoluzione continua a stravincere.

Loro, nel 1978, avevano già capito tutto…

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SOSTIENE BORDIN: THE GUN CLUB “Miami”

SOSTIENE BORDIN: THE GUN CLUB “Miami”

SOSTIENE BORDIN: THE GUN CLUB “Miami”

Animal Records. LP, 1982

di Cristiano Bordin

Per lui in tanti hanno tirato in ballo il fantasma di Jim Morrison e, probabilmente Jeffrey Lee Pierce su quel paragone un po’ ci giocava. Ma se possiamo ritrovare qualche eco morrisoniano nel suo modo di cantare e di stare sul palco, il suo gruppo, i Gun Club, nel loro percorso hanno battuto strade diverse da quelle dei Doors. Quella principale è senza dubbio il blues: un blues velocizzato, drammatizzato, irrobustito, sporcato dall’esperienza del punk ma che però riaffiora sempre nel suono della band. Alla fine le radici contano sempre, vale, anche e soprattutto, per la musica.

Jeffrey Lee Pierce nasce a Los Angeles e frequenta l’ambiente punk della fine degli anni ‘70 e dei primi anni ‘80: quindi gli X, i Cramps, i Blasters. Se guardiamo bene però nessuno di questi gruppi è incasellabile nel punk per come era vissuto in Europa: perché le loro radici erano profondamente americane. E quindi, anche se si suonava più veloce ed i riff erano più secchi, il rock’n’roll, il country, il blues venivano fuori sempre ed era su quelle radici che veniva costruito il proprio suono.

Lo spiega bene il chitarrista del gruppo, Ward Dotson: “Non avevamo molto in comune con la scena punk, eravamo differenti e Jeff aveva le idee molto chiare su come far evolvere i Gun Club ed è riuscito a raggiungere il suo obiettivo. Jeff infatti non seguiva le orme di nessuno e non scimmiottava nessuno”.

Una prova –  il punto più alto della loro carriera- è proprio “Miami”, uscito nel 1982, dopo “Fire of love” e un rimaneggiamento della formazione da cui esce Kid “Congo” Powers per unirsi ai Cramps, poi rientrare e successivamente suonare per una decina di anni con Nick Cave ed i Bad Seeds.

A produrre l’album c’è un altro chitarrista, quello dei Blondie, Chris Stein e se guardiamo la lista dei brani troviamo più di un indizio su quella che è la strada presa dal gruppo: “Run through the jungle” cover dei Creedence Clearwater Revival, “Fire of love” un classico rock ‘n’ roll portato al successo da Jod Reynolds nel ‘58 e “John Hardy” brano con cui si erano già cimentati sia Johnny Cash che Bob Dylan, tanto per tornare al tema delle radici musicali della band.

In “Miami” ci sono i Gun Club al loro massimo splendore: lirici, sporchi dove serve, capaci di reinventare, di rileggere a modo loro sia il  country che  il blues. Qualche reminiscenza punk la troviamo ancora in “Bad indian” o in  “Devil in the woods”. Mentre “John Hardy” e “Fire of love” sono molto di più di un tributo: dentro c’è un po’ tutto lo spirito, l’epica e il vissuto musicale dei Gun Club. Non si può parlare di “cover”, per come sono state ripensate e suonate diventano due canzoni riconoscibili ma allo stesso tempo anche completamente nuove. Un po’ come succede a “Run through the jungle”: quale gruppo con le origini dei Gun Club avrebbe  mai pensato di confrontarsi con i Creedence? Eppure quello che ne esce fuori è un mezzo miracolo, un piccolo capolavoro, un brano capace di dare un segno ad un intero album e  alla fine, ancora,  una questione di radici.

In “Miami”, una parte non secondaria, infatti la gioca anche  la steel guitar, come la giocano i testi ed i richiami che vanno tutti nella direzione dei miti americani prestati al rock’n’roll: c’è posto infatti  per sciamani,  riti voodoo, pellerossa, paludi, frontiere. Un immaginario che scomoda ancora una volta la cultura popolare ed il blues. Ma Jeffrey Lee Pierce era – a dispetto della sua scontrosità, dei mantelli neri, degli anelli e delle collane indiane e purtroppo della sua autodistruttività – un autentica enciclopedia musicale e in “Miami” si sente.

Negli anni successivi uscirono “Las Vegas story”, 1984, un album solo “Wildweed” che non ebbe fortuna, e poi “Death party” e “Mother Juno”: tutti dischi da riscoprire.

La storia dei Gun Club e del suo leader finiscono nel marzo del 1996: il fisico di Jeffrey Lee Pierce, provato da anni di eroina e di alcool non reggerà  più.

A ricordarlo- ma per moltissimi potrebbe essere una scoperta-  è da poco uscito un documentario dall’azzeccatissimo titolo  di “Elvis from hell”: ci sono alcuni personaggi che hanno avuto a che fare con lui come Iggy Pop, Nick Cave, Debby Harry e un paio di illustri suoi fan come Jim Jarmusch e Jack White dei White Stripes. Un  doveroso tributo ad un gruppo capace di  influenzare moltissime altre band e ad un personaggio che  ha fatto davvero un pezzo di storia del rock a stelle e strisce negli anni Ottanta.

SOSTIENE BORDIN: THE LEAGUE OF GENTLEMEN “The League of Gentlemen”

SOSTIENE BORDIN: THE LEAGUE OF GENTLEMEN “The League of Gentlemen”

SOSTIENE BORDIN: THE LEAGUE OF GENTLEMEN “The League of Gentlemen”

EG Records. LP, 1981

di Cristiano Bordin

“Come faccio a ballare questa musica?

“Non ballare con i piedi, segui bene la musica e poi inizia a ballare”.

La voce campionata, e anche i campionamenti precedenti, rendono subito l’idea di quello che sarà lo spirito di questo disco: ritmo in 4/4, musica da ballo,  ironia.

Siamo nel 1981 e il nome stampato sulla copertina è un nome misterioso, The League of Gentlemen. Leggendo però i nomi dei “gentiluomini” arriva subito qualche notizia in più: alla chitarra, ad esempio, c’è Robert Fripp, che è lo stratega di tutta l’operazione. Ma cosa c’entra Robert Fripp con il 4/4 e la musica da ballo? C’entra, perché riesce a mettersi su queste lunghezze d’onda alla sua maniera e anche se indossa una veste diversa dal solito ed  i suoni della sua chitarra prendono forme diverse dal suo passato.

Però facciamo attenzione alle date: “The League of Gentlemen” – il nome dell’album è identico a quello del gruppo –  viene realizzato nella seconda metà del 1980 ma uscirà nel 1981, anno in cui, a settembre, esce anche “Discipline” cioè quello che sarà il grande il grande ritorno dei King Crimson sette anni dopo “Red” con Adrian Belew in formazione insieme a Bill Bruford e Toni Levin. Un brano come “Trap” – che troviamo verso la fine di “The League of Gentlemen” – lo anticipa in pieno,  il suono della chitarra e l’atmosfera complessiva  sono praticamente un antipasto del nuovo corso  dei King Crimson. A scandire “The League of Gentlemen” l’intreccio tra chitarra e tastiere che si rincorrono per tutto l’album, un album che potrebbe facilmente essere catalogato come new wave ma in  ogni traccia  c’è sempre quel qualcosa in più rispetto al clichè del periodo.  Anche perché dire new wave, una autentica esplosione di gruppi, personaggi e di suoni, significa dire tante cose molto diverse  tra loro.

Fripp in questi territori si muove da par suo producendo un album che  non è un intermezzo né una divagazione  ma qualcosa che lancia già un segnale su quella che sarà la sua  una direzione futura. E in “The League of Gentlemen” c’è anche un ingrediente in più, l’ironia come è impossibile non notare dai campionamenti e dalle voci registrate con cui si apre il disco.

Del resto la vena ironica di Fripp oggi la vediamo nei video insieme alla moglie Toyah Wilcox.

Ma chi suona con lui nella League of Gentlemen? Alle tastiere, fondamentali in questo progetto, portato anche sul palco, troviamo Barry Andrews già con gli Xtc, alla batteria invece Kevin Wilson, poi con i Waterboys ed i China Crisis, al basso Sara Lee, che ritroveremo nei Gang of Four e una comparsa la fa anche Danielle Dax, già con i Lemon Kittens e poi autrice di un buon disco a metà anni ‘80, “Jesus egg that wept”, autrice anche della copertina. I brani si rincorrono, l’ipnotico  strumentale dall’impronunciabile titolo “Heptaparaparshinok” è un po’ la sintesi dell’intero disco, “Minor man”, più cupa e dal ritmo spezzato, è forse il brano più in linea con i suoni dell’epoca, “Cognitive dissonance” spiega già le sue intenzioni nel  titolo, “H.G.Wells”  lascia più spazio ancora alle tastiere e “Trap”, come detto, fa da apripista a “Discipline”.

“The League of Gentlmen” considerato a torto come un disco  minore all’epoca della sua uscita è invece un album importante e in ogni caso assolutamente piacevole e godibile.

Ieri come oggi.

SOSTIENE BORDIN: THE LOUNGE LIZARDS

SOSTIENE BORDIN: THE LOUNGE LIZARDS

SOSTIENE BORDIN: THE LOUNGE LIZARDS

“The Lounge Lizards”

EG RECORDS, LP. 1981

di cristiano bordin

Se c’è un gruppo che può dare l’idea della vitalità e dell’eclettismo della scena newyorkese degli anni ’80, quel gruppo potrebbe essere proprio i Lounge Lizards. 

E del resto basta fare subito i nomi dei 5 protagonisti dell’album di esordio, che porta laconicamente il nome della band, per potersi orientare: Arto Lindsay, John ed Evan Lurie, Steve Piccolo e Anton Fier. 

Arto Lindsay aveva già fatto un pezzo di storia della New York fine anni ’70: i Dna. Tra rumorismo, suoni abrasivi, strumenti percossi e brutalizzati più che suonati, urla lancinanti, quella che venne definita “no wave” fu un passo oltre il punk capace di produrre gruppi, personaggi- Lydia Lunch, ad esempio- e un album-manifesto come “No New York”. 

Quella stagione produsse anche una vera e propria avanguardia artistica che prediligeva luoghi malsani, marginali, pericolosi come erano il Lower East Side e la Bowery  dove c’era il CBGB’s, vero e proprio tempio per il punk della Grande Mela. 

John Lurie, l’altra anima della band, ricorda così quei luoghi e quel periodo: “New York oggi ha certamente perso qualcosa. Per esempio, non è più pericolosa come una volta. Male. Prima  dovevi essere un duro e  avere carattere per abitarci. Ora sembra un grande shopping mall per gente che si fa pagare l’affitto da papà e mamma“. 

E’ in questo contesto che nascono i Lounge Lizards.

Lindsay, dopo i Lizards, virò  verso il Brasile ed i suoi suoni senza però dimenticare le stagioni precedenti e producendo moltissimo. Anche Evan Lurie e Steve Piccolo, che finì per trasferirsi in Italia, proseguirono tra jazz e avanguardia, mentre Anton Fier lo ritroviamo dietro la batteria di un gruppo anticipatore e abbastanza dimenticato, i Feelies. 

L’album di esordio eponimo uscì nel 1981 e fu davvero un disco capace di lasciare il segno: copertina austera, in bianco e nero, con i 5 vestiti tutti in camicia bianca e cravatta nera. 

Il primo brano, “Incident on south street” chiarisce tutto: le tastiere a fare da ritmica, il sax di Lurie protagonista, la chitarra di Lindsay da cui escono suoni secchi, abrasivi. 

Sono le coordinate su cui articolerà il disco.

Ma i Lounge Lizards però non sono semplicemente jazz più no wave: sono qualcosa che ha che fare sia con il jazz, e parecchio, che con la no wave, molto meno ma proprio la chitarra ce la ricorda in più di un episodio, per arrivare a qualcosa di nuovo e di originale. 

Alla base di tutto questo c’è il jazz: quasi distorto in forme nuove, come suonato tenendo ben presente la lezione di Thelonious Monk, omaggiato con  le versioni di “Epistrophy” e “Well you needn’t“. 

E, a proposito di jazz, in questo esordio troviamo il bop ma incrociamo anche il free, magari messo  a confronto con il funk come in “Do the wrong thing“.

The Lounge lizards” però è un album che ama mettere insieme atmosfere opposte,  momenti quasi rumoristici come  “Wangling” o “Remember Coney island” dove il drumming di Fier anticipa e può ricordare quello di Joey Baron  possono convivere  con aperture liriche  come in “Conquest of rar” e con  omaggi alla classicità come la splendida ed impeccabile “Harlem nocturne“. 

Insomma, un gran disco, che ha ancora un grande futuro davanti a sè. 

La band, purtroppo, produsse poco: altri tre album – “No pain for cakes” e “Voice of chunk” entrambi da riscoprire – e alcuni live. 

Tenere insieme due personalità come Lindsay e Lurie non era semplice, erano i classici due galli nel pollaio: Lurie percorse la strada del cinema soprattutto con Jarmusch – “Stranger than paradise” e “Down by law” con Benigni, poi approdò in tv e ora si dedica alla pitturama ma in seguito una malattia lo costrinse ad abbandonare il sax e la musica.

Negli anni sono passati sul palco dei Lounge Lizards moltissimi altri musicisti: Marc Ribot e John Medeski tra gli altri ma il loro approccio sul palco però lo racconta bene  Arto Lindsay in un’intervista: “Il fatto è che il pubblico dell’arte era troppo facile per noi  e sembrava apprezzarci a prescindere Mentre in  un posto come il CBGB dovevi sudare per guadagnarti attenzione e rispetto. Noi alla fine suonavamo rock’n’roll questo voglio che sia chiaro. Si, magari era una musica più storta e aperta della media ma tuttora mi considero un musicista rock’n’roll o “popular” che è meglio. Miles Davis la chiamava “social music” e penso sia un termine bellissimo“.

THE LOUNGE LIZARDS:

Basso – Steve Piccolo

Batteria – Anton Fier

Sassofono – John Lurie

Chitarra – Arto Lindsay

Tastiere – Evan Lurie

Produttore – Teo Macero

Registrato negli studi della CBS a New York il 21,22,28 e 29 luglio 1980. 

SOSTIENE BORDIN: STIFF LITTLE FINGERS “Nobody’s Heroes”

SOSTIENE BORDIN: STIFF LITTLE FINGERS “Nobody’s Heroes”

SOSTIENE BORDIN: STIFF LITTLE FINGERS “Nobody’s Heroes”

Chrysalis Records. LP, 1980

di cristiano bordin

Era il 1980 quando uscì “Nobody’s heroes”, il secondo album degli Stiff Little Fingers.

In quell’anno c’era stato il primo grande sciopero della fame nel famigerato blocco H del carcere di Long Kesh. I militanti dell’IRA e delle altre organizzazioni armate repubblicane ed indipendentiste irlandesi si ribellarono alla perdita dello status di prigionieri politici e scelsero l’arma estrema dello sciopero della fame. Cominciò allora un’altra drammatica lotta con la Thatcher, che restò inamovibile, e che arrivò al tragico epilogo dell’anno successivo con 10 morti tra cui Bobby Sands che resse più di 60 giorni di sciopero della fame prima di cedere.

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Erano gli anni dei “Troubles” e alla situazione del loro paese 4 ragazzi di Belfast, che avevano scelto come nome Stiff Little Fingers prendendolo da una canzone dei Vibrators,  avevano già dedicato il loro folgorante album di esordio, “Inflammable material”. Le loro canzoni erano insieme politiche – “Alternative Ulster” è un vero e proprio inno – ma anche  capaci  di  parlare a ragazzi come loro usando anche un registro personale. Il segreto? Quello di sempre per chi cammina sulla strada del punk, a quei tempi come oggi: la cosiddetta credibilità di strada.

“Inflammable material” resta una  vera  e propria pietra miliare del punk, che però sapeva anche guardare oltre il punk. E del resto il gruppo si era formato dopo aver visto suonare a Belfast i Clash, ma da ragazzino  Jack Burns, cantante e leader della band, era rimasto affascinato da Rory Gallagher. L’esordio, oltre ad essere un disco che rimarrà per sempre, finisce in classifica e la band trova in John Peel un solido alleato.

E allora arriva il momento di fare il bis, con “Nobody’s heroes”. Il secondo disco non è mai un passo facile. Confermarsi al livello dell’esordio- materiale infiammabile di nome e di fatto-  era davvero bella sfida che però la band vince con una naturalezza, e una forza, impressionanti.

Gotta getaway” ha la stessa potenza granitica e la stessa di capacità di stamparsi nella memoria di “Suspect device“.

Fly the flag” e  “Wait and see” sono episodi più complessi e più strutturati che vanno oltre il punk e lasciano aperti altri percorsi al gruppo senza però  tradire le origini.

In primo piano i marchi di fabbrica degli Stiff Little Fingers: la voce, roca, rabbiosa, inconfondibile di Burns, i riff di chitarra, i cori. “Nobody’s heroes” dà il titolo al disco ed è una delle canzoni simbolo della band nord irlandese: potenza, ritmica devastante, ritornello indimenticabile. Insomma c’è praticamente tutto e sicuramente sarà stata un esempio per tanti altri gruppi anche dei decenni successivi.

Ma una delle caratteristiche di quel periodo era unire la rabbia del punk ai suoni del reggae. I Clash, nel loro esordio, avevano segnato la strada con “Police and thieves“, cover di Junior Marvin e gli Stiff Little Fingers avevano accettato la sfida già nell’esordio con “Johnny was” di Bob Marley. E allora bastava solo proseguire, magari creando l’atmosfera adatta con “Bloody dub” e il terreno per un altro grande pezzo, “Doesn’t make all right” era pronto.

La potenza del punk arrivava e colpiva  e contaminava un pezzo degli Specials, altro grandissimo gruppo di quella stagione.

Ormai “Nobody’s heroes” sta scivolando verso l’epilogo anche se viene già voglia di ricominciare da capo: “I don’t like you” e la successiva “No change” hanno sfumature power pop e  preludono al gran finale di “Tin soldiers” un altro classico del gruppo.

Gli Stiff Little Fingers proseguirono poi con “Go for it”, e uscì, lo stesso anno di “Nobody’s hero”, un grande live, “Hanx” e poi si persero un po’ per strada. Si riformarono, cambiarono spesso formazione in cui ebbe posto per un po’ anche Bruce Foxton, bassista dei Jam,  ci furono ritorni dei membri originali del gruppo, altri dischi e soprattutto tanti tour e tanti concerti.

L’ultimo album in studio è di 6 anni fa, ma i concerti sono proseguiti anche dopo

Certo, la voce di Jack Burns non è più così abrasiva come un tempo  e i chili di troppo sono inevitabili.

Ma il loro pezzo di storia lo hanno fatto e per chi magari, per ragioni anagrafiche,  li scopre ora perchè non ne hai mai sentito parlare prima “Nobody’s heroes” ha ancora l’effetto di una scossa e la capacità di riportarci indietro di 40 anni per rivivere una stagione leggendaria e probabilmente irripetibile.

SOSTIENE BORDIN: THE DUKES OF STRATOSPHEAR “Psonic Psunspots”

SOSTIENE BORDIN: THE DUKES OF STRATOSPHEAR “Psonic Psunspots”

SOSTIENE BORDIN: THE DUKES OF STRATOSPHEAR “Psonic Psunspots”

VIRGIN RECORDS. LP, 1987

di cristiano bordin

“È stato sconvolgente pensare che gli ascoltatori preferissero queste finte personalità alle nostre stesse personalità”. Così dichiarò Andy Partridge, leader degli Xtc, uno dei gruppi inglesi più importanti e prolifici dalla esplosione del punk fino agli anni ’90.

Eppure andò più o meno davvero così.

I Dukes of Stratosphear fu un’ avventura, un travestimento in quelli che erano gli abiti preferiti della band: quelli degli anni ’60 della psichedelica inglese e americana.

Strumenti d’ epoca, pseudonimi – Partridge era sir Jon Johns – due sole sessions per ogni brano. Una boccata d’aria fresca per una band che ha conosciuto il successo ma anche mille traversie e alla fine ha raccolto meno di quanto ha seminato.

I Dukes of Stratosphear iniziano nell’85 con “25 o’clock”. La data di uscita spiega molto: il primo aprile. Ma succede l’imprevedibile: con sole 5 mila sterline di budget l’album vende il doppio di “Big express”, firmato Xtc, uscito l’anno prima. E allora perché non riprovarci?

Il budget raddoppia e il miracolo si ripete “Psonic psunspots” vendera’ più di “Skylarking”, uscito l’anno prima, il 1986, che pure è uno dei dischi più belli fatti dagli Xtc.

Il gioco riesce per la seconda volta e gli ingredienti sono la classe e la creatività della band, il saper fondere radici e passioni musicali con la propria personalità.

Non è da tutti giocare ad armi pari coi Beatles o con i Byrds ma alla fine dipende sempre da chi ci gioca. E Partridge è soci se lo possono permettere.

Bellissima copertina in puro stile psichedelico, un titolo che sembra una frase di Età Beta e 10 brani uno più bello dell’altro che si incastrano perfettamente tra passato, gli anni ’60, e il presente, gli’ 80. “Vanishing girl”, “Shiny cage”, ” sono ballate psichedeliche perfette e senza tempo. “Have you seen Jackie”, “You’re a good man Albert Brown” sono delicati omaggi alla psichedelica inglese: Tomorrow, Bonzo Dog Band. “Caleidoscope”, “You’re my drug” rappresentano in pieno il progetto Dukes of Stratosphere tra richiami beatlesiani – e il fantasma dei Beatles ha accompagnato tutta la vicenda degli Xtc – echi barrettiani e richiami ai Kinks. Se mettiamo insieme questo album a “Skylarking” non si può che concludere che quegli anni tra il 1986 e l’87, sono stati tra i migliori della band di Swindon.

Ma il gioco Duke of Stratosphear finirà presto.

Per un incidente orribile con un sorbetto” dichiarò Partridge con humour britannico.

Ma “Psonic Psunspots” resta qualcosa di più di uno scherzo: un album che funziona adesso come allora è che funzionerà sempre.

THE DUKES OF STRATOSPHEAR: SIR JOHN JOHNS (Andy Partridge): voce, chitarra – THE RED CURTAIN (Colin Moulding): basso – LORD CORNELIUS PLUM (Dave Gregory): tastiere, chitarra – E.I.E.I. OWEN: batteria

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SOSTIENE BORDIN: RIP RIG & PANIC “God”

SOSTIENE BORDIN: RIP RIG & PANIC “God”

SOSTIENE BORDIN: RIP RIG & PANIC  “God”

Virgin Records. doppio 12 pollici, 1981

di cristiano bordin

In principio era il Pop Group. Due album essenziali per capire i percorsi e le potenzialità del post punk, “Y” e “For how much longer do we tolerate mass murder” per un percorso brevissimo  che terminò nel 1980 riprendendo  poi solo con la reunion di 35 anni dopo.

Nel 1980, con la fine del Pop Group, inizia una specie di diaspora dei musicisti che ne facevano parte.

imagesMark Stewart fonda i Maffia e prosegue lavorando   sul versante dub/industrial collaborando con diverse etichette, la On U Sound tra le altre, e con moltissimi musicisti.

Simon Underwood, bassista del Pop Group, forma invece i Pigbag e si spinge sul lato più funky della band originaria. Gareth Sager, chitarrista ma anche sassofonista, e Bruce Smith, batterista, mettono insieme a questi altri suoni  spaziando un po’ ovunque  e raccolgono altri musicisti: il pianista Mark Springer e una cantante poco più che sedicenne e allora sconosciuta, la  figlioccia di Don Cherry, Neneh Cherry.

Parte così l’avventura dei Rip Rig & Panic.

L’esordio è un anno dopo la fine del Pop Group, il 1981 con un album chi si intitola “God”.

Un album strano per la scelta del formato, un doppio 12 pollici che gira a 33. Quattro facciate  identificate con altrettanti colori: rosso, giallo, verde e blu. Sono passati 38 anni da questo esordio ma “God” è un album che ha ancora parecchie cose  da dire, un album che ad ogni ascolto sarà sempre capace di rivelare  qualche particolare nuovo. Insomma un album che non invecchierà mai. Riascoltandolo, o continuando ad ascoltarlo nel tempo, stupiscono due cose: l’autorevolezza, la sicurezza, la grande tecnica dei musicisti, tra l’altro giovani, e l’originalità del progetto. Avventurarsi su queste strade è rischioso ma chi suona ha metabolizzato l’esperienza del Pop Group e vuole continuare su quel percorso aggiungendo influenze, suggestioni e richiami.

Nel 1981 “God” era un disco davvero molto avanti rispetto a quei tempi: esplorava percorsi apparentemente  quasi contraddittori, metteva insieme suoni molto diversi ma che alla fine risultavano coerenti e assolutamente comprensibili anche se il percorso tanto facile non era. Ma la musica di “God” per quanto eclettica riusciva a stupire e a comunicare sia con chi allora ascoltava post punk sia con chi ascoltava jazz- e dal jazz prendono infatti  il nome rifacendosi ad un brano di Roland Kirk- sia con chi ascoltava black music.

L’esordio dei Rip Rig & Panic è il classico disco a cui dare un’etichetta è un’operazione oltre che sbagliata, sostanzialmente inutile. Chitarra, piano e sax con una padronanza e una fantasia incredibile, esplorano sentieri che partono dal funk per arrivare al jazz arrampicandosi in fraseggi free con un attitudine in certi punti ruvida e tribale, “Knee deep in shit” ad esempio,  in altri, “Howl caged bird”  quasi funanbolica. Ma non mancano momenti di compostezza e di rigore  jazzistico se pensiamo al piano di Springer in “Blue bird third” o in “Change your life“. Come non mancano i richiami alla musica africana ed atmosfere che addirittura anticipano l’hip hop . La voce di Neneh Cherry, quando compare, poi è una sorpresa.

La storia della band proseguirà con altri due album, “I am a cold”, in cui suona anche  Don Cherry,  e il conclusivo “Attitude” che esce nel 1983. “God”, senza togliere nulla agli due di altissimo livello entrambi, è l’album di esordio che quindi ha quel pizzico di incoscienza e di potenza in più. E che quasi 40 anni dopo resta un capolavoro.

SOSTIENE BORDIN: KING CRIMSON, ARENA DI VERONA 8 LUGLIO 2019

SOSTIENE BORDIN: KING CRIMSON, ARENA DI VERONA 8 LUGLIO 2019

SOSTIENE BORDIN: KING CRIMSON LIVE, ARENA DI VERONA 8 LUGLIO 2019

di Cristiano Bordin

Se c’è un gruppo che ha sempre camminato per una strada tutta sua costruendosi un suono dai tanti richiami ma dalla assoluta indefinibilità quelli sono proprio i King Crimson. E il gruppo di Robert Fripp, mutando nel corso dei decenni costantemente pelle ma compiendo il miracolo di rimanere  sempre se stesso, ha tagliato quest’anno il traguardo dei cinquanta  anni. Cinquanta candeline da festeggiare con un tour con la formazione che rappresenta l’ultima versione del  Re Cremisi: tre batterie – Gavin Harrison, Pat Mastelotto e  Jeremy Stacey, impegnato anche alle tastiere – Mel Collins, sax e flauto, Jakko Jaksick, chitarra e voce, Tony Levine al basso e ovviamente sua maestà Robert Fripp alla chitarra.

Una formazione, già protagonista in Italia di altri concerti e di altri tour, lunedì sera ha suonato davanti ad una platea prestigiosa come l’Arena di Verona. Niente tutto esaurito, ma comunque per festeggiare il compleanno del gruppo e del loro  primo album “In the Court of the Crimson King” c’erano circa diecimila persone per un concerto diviso in due set più un bis. In tutto quasi tre ore di musica. Tutte ad un livello altissimo.

Si parte con un dialogo a tre proprio tra i batteristi e poi “Pictures of a city“, brano da “In the wake of Poseidon”, con un riff chitarristico denso, scuro, metallico, quasi cattivo che ritroveremo in altri brani, accompagnato dal sax.  Poi si arriva ad uno dei momenti forse più attesi,  “Epitaph“.

E dopo “Radical action” e una grande versione di  “Islands” si  arriva quasi a concludere la prima parte ma ci sono ancora almeno un paio di  sorprese:  “Cat Food“, complessa e virtuosistica,  e “Frame by frame” .

Un primo set  impeccabile: tante sfumature ma anche un suono coerente che è capace  di costruire e di  spaziare tra paesaggi sonori diversi con la stessa maestria. Fripp è sempre  impassibile e sembra il direttore di un’orchestra che riesce sempre a ritrovarsi anche per i percorsi musicalmente più difficili con una naturalezza incredibile. E forse è proprio questa l’unica definizione possibile per i King Crimson: un’orchestra di musica contemporanea capace di riproporre con uno stile inconfondibile e sempre attuale  perché sempre capace di rinnovarsi, cinquant’anni di musica e cinquant’anni di carriera.

La seconda parte è qualcosa di quasi indescrivibile per coesione e  potenza. Si inizia con una fantastica “Sheltering sky” ed è il suono di “Discipline” a tornare ovviamente in una nuova veste. Succederà anche con “Indiscipline”  e sinceramente per apprezzando moltissimo Adrian Belew le versioni di questi due pezzi non me lo hanno fatto rimpiangere anche se rivederlo a fianco di Fripp per festeggiare i 50 anni sarebbe stata la classica ciliegina sulla torta. Dopo una  stupenda  versione di “Cirkus” arriva “Moonchild”  in una veste rinnovata, costruita sulla nuova formazione e sulle tre batterie e ovviamente “In the Court of the Crimson King“. Il finale è da brivido: prima “Starless” che chiude il secondo set e poi, nel bis,  una più che poderosa “21th Century Schizoid Man” con improvvisazione finale con cui i Crimson terminano la loro esibizione areniana tra gli applausi e un’ovazione generale

Proprio “Starless” sarà poi al centro dei commenti post concerto: una imperfezione di Fripp durante “Starless”, una specie di refuso, diventa motivo di interminabili discussioni in rete. Discussioni che forse dimenticano una frase pronunciata proprio da Fripp in un’intervista “Personalmente non mi importa  quando i musicisti commettono errori. Anzi quello che vedi è la qualità del musicista che risponde all’errore davanti al pubblico“. E la qualità del musicista e del gruppo sul palco è stata incredibile come tutto questo concerto e come lo saranno  sicuramente le  prossime date  di questo tour. Cinquant’ anni di carriera  hanno dimostrato che ci sono più idee in una canzone dei King Crimson che in interi decenni di musica. E questa serata lo ha assolutamente confermato.

Dei King Crimson vi avevo già parlato qui:

https://ildiapasonblog.wordpress.com/2018/06/20/king-crimson-live-in-vienna-december-1-2016/

https://ildiapasonblog.wordpress.com/2017/11/06/king-crimson-live-in-chicago/

https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/04/19/king-crimson-live-in-toronto/