RABIH ABOU KHALIL “Nafas”

RABIH ABOU KHALIL “Nafas”

Rabih Abou Khalil “Nafas”

ECM Records, CD 1988

di alessandro nobis

Nafas” del libanese Rabih Abou-Khalil penso sia il primo disco di musica di “ispirazione etnica” pubblicato dall’etichetta di Manfred Eicher ed è anche l’unico che il compositore e suonatore di oud ha pubblicato per lui (i successivi furono prodotti dalla tedesca Japo) ed è stato un prezioso punto di partenza per i “seguaci” dell’ECM per scoprire i suoni ed i colori della musica del Vicino Oriente che ha ispirato queste bellissime composizioni del quartetto formato oltre che dal libanese dal siriano Selim Kusur alla voce e nay, dall’americano Glen Velez ai tamburi a cornice (il bandair o forse un tar) e dall’armeno libanese Setrak Sarkassian al darabukka. A ben vedere non tutti i brani sono eseguiti da quattro musicisti, alcuni sono eseguiti in “solo” o in duo: “Awakening” e “Nandi” che aprono e chiudono il disco sono due magnifici ed evocativi brani eseguito da Glen Velez, la perfetta cornice all’interno della quale si sviluppa questo disco che come detto si ispira sì alla tradizione ma che anche la interpreta come nel caso di “Amal Hayati“, la melodia di una canzone scritta dall’egiziano Mohammad Abdul Wahab (1902 – 1991), considerato uno dei più importanti compositori di musica araba del novecento. I brani rimanenti sono tutte nuove composizioni o improvvisazioni (il linguaggio improvvisativo è molto usato dai musicisti di questa cultura musicale) e penso di poter dire che il duo di percussioni “Gaval Dance” rientri in questa tipologia esecutiva come anche le due parti in cui si divide “The Return” la prima in quartetto e la seconda in trio con lunghi e significativi assoli di oud nella prima e di nay nella seconda su di un complesso schema ritmico delle percussioni di Velez e Sarkassian.

Nafas” è il disco che mi ha dato l’opportunità di ascoltare la classe e la tecnica di Rabih Abou Khalil del quale, e lo dico con piccolo orgoglio, parecchi anni fa riusciì ad organizzare un suo concerto solista in un piccolo centro della provincia veronese, in una veste che mise in luce tutto il suo talento di improvvisatore e di compositore che comunque già avevo avuto modo di apprezzare in questo e nei suoi lavori successivi per la Enja Records.

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NANCY & NORMAN BLAKE “Blind Dog”

NANCY & NORMAN BLAKE “Blind Dog”

NANCY & NORMAN BLAKE “Blind Dog”

Rounder Records. LP, 1988

di alessandro nobis

Questo disco di Norman & Nancy Blake fu l’ultimo ad essere pubblicato in vinile, naturalmente dalla Rounder Records; ancora delle incisioni di una semplicità disarmante ma che allo stesso tempo racchiudono tessere di quel complesso mosaico che è la musica americana, frammenti che arrivano da lontano e frammenti usciti dalle fertili vene dei due protagonisti che la raccontano attraverso i loro preziosi strumenti, due stupende Martin del 1929 e del 1934, quasi che il legno di cui sono costruite racchiuda racconti secolari spesso frutto di emigrazioni e delle culture arrivate dall’Europa all’America.

Storie come quella registrata su commissione da Woody Guthrie nel 1941 sulla diga “Grand Coulee“, un nuovo testo sulla melodia di “Wabash Cannonball“, e qui interpretata dalle chitarre (e le voci!) di Nancy e Norman o quella che racconta dell’incidente ferroviario accaduto nel 1903 del treno postale “Old 97” o ancora quella che narra dei crimini e della morte violenta a 37 anni del bandito “Otto Wood” storie scritte dallo stesso chitarrista come “Billy Gray“, già presente su “Old and New” del 1975 (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2021/03/05/suoni-riemersi-norman-blake-old-and-new/), brano “emigrato” in Irlanda ed interpretato dai favolosi Planxty nel 1980 (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2021/01/19/suoni-riemersi-planxty-the-woman-i-loved-so-well/); tra gli strumentali il leggendario “Black Mountain Rag” e la slow air “Shallegra“, le due chitarre si incrociano, dialogano, fanno uscire dal legno tutto il fascino della musica di tradizi one e ispirano nuove composizioni.

Serve ribadire che anche questo lavoro dei Blakes presenta un repertorio così prezioso con una delicatezza e brillantezza tali dar sorvolare all’ascoltatore l’incredibile tecnica strumentale di Norman e Nancy?

 

TONY CUFFE “When First I Went to Caledonia”

TONY CUFFE  “When First I Went to Caledonia”

TONY CUFFE  “When First I Went to Caledonia”

IONA Records IR 011. LP, 1988

di alessandro nobis

Alcuni dei migliori ensemble del folk revival di matrice scozzese lo hanno visto come fondamentale protagonista, e mi riferisco ai “Jock Tamson’s Bairns”, “Alba” ed “Ossian”. E’ l’autore e raffinato chitarrista – ma anche pluristrumentista come vedremo – Tony Cuffe, scomparso purtroppo nel 2001 a soli 37 anni nel pieno della sua creatività musicale rallentata nei suoi ultimi anni dal cancro. La sua impronta nei gruppi succitati e soprattutto nei quattro album degli Ossian a cui ha partecipato (“Seal Song”, “Dove Across the Water”, “Borders and light” e “Light on a Distant Shore”) è determinante grazie al suo raffinato chitarrismo ed alla sua riconoscibile voce.

Nel 1988, poco prima di trasferirsi con la famiglia negli Stati Uniti registrò questo bellissimo lavoro negli studi di Edimburgo cimentandosi oltre che con la chitarra e canto con flauti, harmonium ed un pizzico di suoni elettronici ma soprattutto componendo molti dei brani contenuti in questo “When First I Went to Caledonia”.

Qui trovate tutte coordinate del suo grande spessore artistico, trovate il raffinato chitarrismo nell’esecuzione di arie da danza come “Miss Wharton Duff / The mare” e le due hornpipes “Dr.McInnes Fancy / Jom Tweedie’s Sea Leg”, trovate frammenti della storia di Scozia (“Otterburn” dove nel 1388 i baroni scozzesi ed il loro esercito si scontrarono con quello inglese nel tentativo di invadere l’Inghilterra) e storie di emigrazione e di amore come il brano eponimo del disco, originario della Nuova Scozia nel quale “Caledonia” si riferisce alle miniera di carbone di Glace Bay.

Un disco importante questo perchè mette in primo piano tutto il talento di Tony Cuffe, talento di primissimo grado che manca alla comunità di musicisti scozzesi e, se mi permettete, anche ai suoi numerosissimi appassionati.

LIAM O’FLYNN “LIAM O’FLYNN”

LIAM O’FLYNN “LIAM O’FLYNN”

LIAM O’FLYNN  “LIAM O’FLYNN”. L.O.F. Records. LP, 1988

di alessandro nobis

Uscito piuttosto in sordina nel 1988 per la LOF (l’acronimo di “Liam O’Flynn Records”), questo secondo splendido lavoro del piper di An Nas nella Contea di Kildare (il primo era stato pubblicato otto anni prima dalla Tara ed era “The Brendan Voyage”) non ebbe la diffusione che meritava e questo è un vero peccato visto che la sua bellezza è indiscutibile e perché ancora una volta mette in luce al di fuori del mondo Planxty la classe di questo grande piper, uno che a mio avviso sta alla pari con i vari Seamus Ennis, Willie Clancy e Leo Rowsome per fare i tre “soliti” nomi. O’Flynn per registrare questo ellepì chiama in studio un manipolo di vecchi amici che assieme a lui eseguono le 13 tracce che compongono il lavoro: ci sono Donal Lunny e Christy Moore, Nollaig Casey e Sean Keane, Michéal O’Súilleabháin, John Sheahan, Helen Davies, Ashling Drury-Byrne o Catherine Ennis.
Dodici “duetti” ed un “Trio” tutti davvero interessanti per le timbriche e gli strumenti scelti da O’Flynn, alcuni brani sono “distillati” di cultura popolare, altri più cameristici; il frequentare da parte del piper del Kildare anche ambienti diversi da quello puramente tradizionale pur mantenendo sempre intatta la sua immensa classe e lo stile raffinatissimo lo ha reso unico nel panorama dei pipers irlandesi. ”The Beauty Sopt / Bean Tinceara” in compagnia del violinista Sean Keane “Willie Cancy’s Reel / The Milliner’s Daughter” con le delicate tastiere di Donal Lunny, “The Faery Queen” con il clavicembalo di Michéal O’Súilleabháin  e il cameristico “Shadow on the Hill”, composto da Shaun Davey dove O’Flynn è accompagnato da un quartetto d’archi (Keane, Sheahan, Casey e Drury Byrne) sono i brani che vi segnalo di questo gran bel disco.

Qui la biografia di O’Flynn in occasione della sua scomparsa, il 14 marxo di due anni fa: (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2018/03/21/dalla-piccionaia-liam-og-o-floinn-1945-14-marzo-2018/)

 

MAKÁM ENSEMBLE “Közelitések / Approaches”

MAKÁM ENSEMBLE “Közelitések / Approaches”

MAKÁM ENSEMBLE “Közelitések / Approaches”

HUNGAROTON DISCHI SLPX 18146, LP 1988

di Alessandro Nobis

La prima volta degli ungheresi Makam in Italia fu grazie al circuito di Folkitalia, ed arrivarono preceduti dall’impegnativo appellativo di “Oregon dell’Est”. Avevano appena pubblicato questo ottimo album d’esordio – dopo i due precedenti in collaborazione con i Kolinda -, e la loro musica si staccava in modo nettissimo dalle numerose produzioni dell’etichetta di stato Hungaroton, un esempio per tutta l’Europa per l’attenzione, la cura e la dedizione alla produzione di gruppi che studiavano gli archivi e praticavano la ricerca sul campo, riproponendo le varie forme della tradizione musicale ungherese.

I Makam proponevano con questo disco un repertorio di composizioni originali del chitarrista mancino e leader Zoltan Krulik – che ancora dirige l’ensemble – che per farle eseguire aveva riunito attorno a sé musicisti con una grande preparazione tecnica e culturale realizzando un’alchimia di rara qualità per quei tempi, e che risulta ancora attuale e affascinante: strumenti e suoni ora più legati al jazz vicino ad altri appartenenti a culture balcaniche e del sub continente indiano: contrabbasso e chitarra, gadulka e kaval, tabla, tampura e sarangi, nay ed oboe.

E l’accostamento all’idea concettuale degli Oregon di Ralph Towner ci stava tutto, almeno per questo primo album: musica acustica di composizione fortemente influenzata dai suoni etnici per i Makam, musica acustica più influenzata dal jazz e dalla musica cameristica con forti sonorità etniche (le percussioni di Collin Walcott) per il gruppo americano. Punti di partenza diversi, risultato sonoro che andava ad inventare e quindi descrivere un mondo musicale nuovo.MAKAM_03

All’epoca il sestetto budapestino comprendeva oltre a Zoltan Krulik, Laszlo Bencze ak contrabbasso e percussioni, Endre Juhasz all’oboe, Peter Zsalai alle table e marimba, Szabolc Szoke al gadulka e sarangi, Balasz Thurnai al kava e marimba: “Approaches” è stato pubblicato anche in compact disc (con copertina però diversa). I Makam nel tempo hanno prodotto una discografia cospicua e Krulik ha saputo scegliere i musicisti più adatti ad interpretare le sue composizioni ed i suoi arrangiamenti. Il più recente lavoro del 2016 è “Szerelem”, di quasi impossibile reperibilità sul mercato italiano, bisogna avere una certa dose di pazienza – che io non ho avuto – e “smanettare” sulk web alla ricerca dei CD di questo gruppo, dal suono davvero originale, ungherese.

Questo loro album d’esordio è comunque da avere. Qualche filmato anche su YouTube.

La foto ritrae il gruppo nel loro secondo concerto veronese del 1992, in esclusiva italiana, per la rassegna “suoni in libertà” organizzata da Luciano Benini de “Il Posto Produzioni Zero”, nell’aula magna dell’università di Verona.  Bei tempi andati.

www.makam.hu

MAGAM “Suonando l’Allegrezza”

MAGAM “Suonando l’Allegrezza”

MAGAM “Suonando l’Allegrezza”

Robi Droli 008 LP, 1988

di Alessandro Nobis

Al momento della pubblicazione di questo LP, ovvero nel 1988, il catalogo Robi Droli (benemerita etichetta piemontese che ebbe il coraggio di promuovere musica e musicisti del panorama tradizionale italiano) aveva in catalogo La Ciapa Rusa, I Suonatori delle Quattro Province, Ritmia, Buntemp, Re Niliu, ed i Musetta insomma le migliori realtà di quegli anni. Ed i Magam.

Era tempo che desideravo scrivere due righe sui Magam, da quando un anno fa ne avevo parlato con Vittorio Grisolia in occasione di un bel concerto veronese degli Smorfiacc del quale avevo parlato in questa sede (https://ildiapasonblog.wordpress.com/2016/03/05/dalla-piccionaia-smorfiacc/).r-5522846-1395572056-3433-jpeg

I Magam erano un quartetto dell’area bergamasca nel quale militavano Fabio Dovigo (organetto, violoncello, tastiere e voce), Luigi Basurini (campanine, cetra, clarino e voce), Oliviero Biella (chitarra, violino, voce) e Ranieri Fumagalli (baghet, piva bergamasca, bombardino, flauto e voce). Il loro repertorio comprendeva brani della tradizione delle valli bergamasche – soprattutto la Val Seriana –  arrangiati in modo elegante ed allo stesso tempo filologico affiancati da brani originali, cosa che per l’epoca era una novità: Casnigo, Leffe, Parre, Grumello, Desenzano al Serio i punti di origine delle musiche (danze, serenate, canti narrativi) ripresi da volumi editi dal DAMS di Bologna curati da Valter Biella ed anche arrangiamenti di composizioni originariamente scritte per campane, come “Asimmetrica” e “Quand’i campane / Otto campane) che chiudono questo bel disco.

Ad essere sincero non sono a conoscenza di altro materiale prodotto dai Magam (a parte l’audiocassetta “Musiche per il Natale” del 1990) o dell’esistenza del CD di “Cantando l’Allegrezza”.

Un disco significativo che copre un’area del centro nord che nascondeva e forse ancora nasconde tesori musicali importanti. Il testimone è passato agli Smorfiacc: sosteniamoli.

 

 

 

SUONI RIEMERSI: MATT MOLLOY “Stony Steps”

SUONI RIEMERSI: MATT MOLLOY “Stony Steps”

MATT MOLLOY

“Stony Steps” – Claddagh records, 1988

PUBBLICATO SU FOLK BULLETIN cartaceo, settembre/ottobre 1988

“Sono nato a Ballaghaderren, nella Contea di Roscommon, ed ho imparato a suonare il flauto da mio padre Jim, che proviene dalla Contea di Sligo. Anche lui era un flautista, come del resto mio zio Matt. A loro volta anche loro impararono lo strumento da loro padre, e così via, all’indietro nel tempo”. In queste poche parole autobiografiche di Matt Molloy, è racchiusa non solo la sua storia di musicista, ma tutta l’essenza della musica tradizionale, tramandata di generazione in generazione e giunta fino a noi. L’Irlanda è sicuramente in Europa una delle poche isole felici dove questa trasmissione di cultura non si è ancora interrotta, anzi. Lo studio della tradizione, e non solo di quella musicale, sta generando nuovi interessi, soprattutto tra i giovani, i quali, dopo aver assimilato gli antichi idiomi, li adattano ai linguaggi musicali moderni più vicini al loro modo di essere irlandesi (un caso per tutti, i Pogues). Ma torniamo a Matt Molloy: questo “Stony Steps” è il quarto album solista di colui che oggi rappresenta certamente il meglio della tradizione del flauto irlandese. Molloy ha infatti militato nei più importanti gruppi del movimento folk quali la Bothy Band, i Planxty e a tutt’oggi è un componente dei celeberrimi Chieftains, custodi della tradizione celtica. La produzione è affidata a Donal Lunny, autore di alcune delle più significative produzioni degli ultimi anni (Christy Moore, Liam O’Flynn, Moving Hearts) ed anche arrangiatore e musicista (suona in Stony Steps il bozouky e le tastiere); i brani sono tutte danze – jigs, reels, slip jigs, air – davvero splendide per esecuzione e per i raffinati arrangiamenti. Molloy si è circondato di ottimi musicisti, in grado di dare un apporto personale all’interpretazione dei brani eseguiti. Oltre al già citato Lunny è presente il chitarrista Arty McGlynn (Patrick Street) con il quale fornisce la base ritmica al flauto di Matt Molloy. Ospiti sono “gli amici di sempre” e cioè Kevin Burke (già con Molloy nella Bothy Band), Sean keane (dei Chieftains) e James Kelly (tutti violinisti) ed i tastierista Michael O’Sullivan. Difficile segnalare i brani più significativi: a nostro parere comunque indichiamo l’aria “O’Rathaille’s Grave” – dedicata al poeta Aodghan O’Rathaille, deceduto nel 1725 – e l’iniziale medley “McFadden Favourite, Sean McGuire’s, Jackson’ Favourite nel quale emergono maggiormente la chitarra di McGlynn ed i bozouky di Lunny. In conclusione, un grand bel disco, del quale dovete immediatamente mettervi alla caccia, che ahimè, prevedo lunga e difficile; non vi sarà facile trovarlo ma, come si dice il gioco vale la candela. Disponibile (incredibile ma vero) anche in CD.

SUONI RIEMERSI: THE BOYS OF THE LOUGH “Sweet Rural Shade”

SUONI RIEMERSI: THE BOYS OF THE LOUGH “Sweet Rural Shade”

BOYS OF THE LOUGH

“Sweet Rural Shade”, Shanachie records, 1988

PUBBLICATO SU FOLK BULLETIN cartaceo, giugno 1988

Sono parecchi, attualmente, i gruppi di folk revival celtici in crisi di idee e rifugiatisi nello sterile tunnel della musica pop. A questi dovremmo consigliare una vacanza (breve o lunga a seconda dei casi) ad Arlington, nello stato Washington dove, immersi nella natura selvaggia delle Montagne Rocciose potrebbero, oltre ad ossigenarsi i polmoni, ritrovare la loro identità di musicisti folk. E’ infatti in questa località americana che i Boys of the Lough hanno trovato (coaì almeno si legge nelle note di copertina) pace e serenità per registrare il quattordicesimo album della loro carriera, iniziatasi nell’ormai lontano 1971. A dire il vero i “Boys” non hanno mai sofferto di crisi d’identità o di idee, anzi. Dall’esordio su vinile hanno continuamente migliorato il loro suono, producendo una serie di album la cui gemma è rappresentata prprpio da “Sweet rural shade”. Già avevamo osannato il precedente “Farewell and Remember me” per la freschezza dei suoni e per la ricercatezza e raffinatezza degli arrangiamenti, i migliori del panorama folk dai tempi dei Planxty di Donal Lunny. La sorpresa musicale più gradita di questo “Sweet rural shade” è rappresentata, a nostro avviso, dal ruolo affidato al pianoforte di John Coakley; si tratta di una riscoperta di questo strumento, relegato, nel folk celtico, ad un mero ruolo ritmico, poco degno della storia di questo strumento.

In “The hills of Donegal” e in “Todd’s sweet rural shade” al piano viene invece dato il ruolo di cucire la melodia delle “songs”, mentre in “Forest flower”, unico brano tradizionale al di fuori dell’area celtica (è un valzer finnico), la tastiera introduce splendidamente la danza.

Ospiti del gruppo sono in questa occasione Ed Littlefield (americano, alle cornamuse e steel guitar) e lo scozzese Ron Shaw (al violoncello) che ben coadiuvano il quintetto che ormai si è avviato a divenire l’ensemble leader del folk celtico, spodestando gli irlansedi Chieftains, divenuti – a nostro avviso – fin troppo accademici.

Insomma, questo “Sweet rural shade” risulta essere il miglior album dei “Boys” che deve affiancare, in una discoteca che si rispetti, l’album di esordio, con i mitici Dick Gaughan e Robin Morton (produttore ora della scozzese Temple Records).

Resta il rammarico di non avere ancora assistito a un concerto italiano del gruppo, ma la speranza di un futuro blitz di Folkitalia è sempre presente.

Nell’attesa, andate alla ricerca di “Sweet rural shade”.

SUONI RIEMERSI: ROD PATERSON “Smiling Waved Goodbye”

SUONI RIEMERSI: ROD PATERSON “Smiling Waved Goodbye”

ROD PATERSON

“Smiling Waved Goodbye” – LP Greentrax records, 1988

PUBBLICATO SU FOLK BULLETIN cartaceo, dicembre 1988

Dell’etichetta indipendente “Greentrax” parla a sufficienza il collega Cunich in un’altra recensione in questa stessa rubrica; resta comunque da sottolineare come questa “label” sia una delle realtà più valide del folk della terra di Scozia.

Non recentissima l’uscita di questo “Smiling waved good-bye”, seconda prova solista di Rod Paterson 8la prima era stata “Two hats”, sempre su Greentrax), componente del quartetto Easy Club, già ammirato in Italia qualche anno fa ed autore di tre ottimi ellepì per un’altra “indie” scozzese, la R.E.L. records.

In questa sua prova solistica Rod Paterson può finalmente “liberare” la sua vena compositiva, scrivendo metà dei brani che costituiscono l’album. Sono proprio queste sue composizioni che mantengono alto il livello qualitativo di tutto il disco (senza nulla togliere agli arrangiamenti degli immancabili traditionals), nel quale si respira comunque “aria” di Easy Club, anche per l’importante supporto del chitarrista (o meglio polistrumentista Jack Evans, autore però del brano meno felice dell’intero album (il conclusivo “A wee flingette).

Per coloro che amano il folk swingante degli “Easy” (unico gruppo britannico, dopo i mitici Pentangle, ad unire i ritmi jazz alle melodie folk), ecco l’iniziale “Roll that boulder away”, dove Paterson scandisce il tempo con la chitarra (Django insegna…) e Dick lee ci regala uno splendido “solo” di clarinetto, e la delicata “Flying up to London”, con un “solo” alle scottish small pipes di Hamish Moore. Tra i tradizionali interpretati preferiamo “Dowie dens of jarrow”, brano di ampio respiro che riacquista splendore grazie all’azzeccato arrangiamento.

In definitiva un buon album, che prosegue sulla strada innovatrice intrapresa quattro anni fa dagli Easy Club, fondendo il folk scozzese con i ritmi afroamericani. In America questo incontro ha dato e dà tuttora ottimi risultati grazie soprattutto alle proposte dei gruppi leader, il David Grisman Quintet e lo Stringjazz del contrabbassista Buell Neidlinger. Rod Paterson ha tutte le carte in regola per dare una svolta, alternativa a quella elettrica, al forse troppo statico folk scozzese degli ultimi anni. Buon lavoro, Rod.

Nelle note di copertina ne appare una che ci pare interessante: questo quartetto (Paterson.Lee-Mppre-Evans) sembra essere una formazione stabile ed ha anche un nome: “The picts”, con annesso indirizzo e numero di telefono. Chi vuol intendere, intenda…