SUCCEDE A VERONA: 19 maggio 2024 “CHITARRE” CENTRO CULTURALE 6 MAGGIO 1848

SUCCEDE A VERONA: 19 maggio 2024 “CHITARRE” CENTRO CULTURALE 6 MAGGIO 1848

SUCCEDE A VERONA: CENTRO CULTURALE 6 MAGGIO 1848 “CHITARRE” · Audizione aperta al pubblico ·

19 maggio 2024 h 17:00

di alessandro nobis

Un incontro di un paio d’ore tra musicisti che frequentano ambienti musicali spesso lontani tra loro: il jazz, la musica tradizionale, l’avanguardia, il blues, la composizione di nuova musica. Così è nata l’idea dell’Associazione Culturale ZONACUSTICA e dell’Associazione Onlus · Le Fate di proporre ad alcuni chitarristi di incontrarsi domenica 19 maggio a partire dalle ore 17:00 nell’ombreggiato cortile del Centro Culturale “6 maggio 1848” in Via Mantovana 66, nel borgo di Santa Lucia a Verona e così darsi la possibilità di conoscere personalmente e ascoltare lontano dalle tensioni dei concerti ufficiali altri colleghi oltre che approcciarsi a nuovi idiomi musicali.

Una formula, uno scambio di idee “live”, di impressioni che potrebbe anche far scaturire nuove e impensate collaborazioni: una formula, insisto su questo termine, che dovrebbe essere sempre a mio avviso adottata dai cosiddetti festival · jazz e kermesse chitarristiche · dove talvolta però alla fine del proprio spazio assegnato dalla direzione artistica ognuno ripercorre la strada di casa o dell’hotel senza un arricchimento o scambio culturale. Aggiungo che spesso anche in questo “ambiente” aleggia una certa autoreferenzialità che non aiuta proprio ………..

Invitati dagli ideatori sono per questo primo incontro i chitarristi Enrico Breanza, Giovanni Ferro, Giulio Redaelli, Balen Lopez De Munain e Roberto Zorzi oltre alla violoncellista Paola Zannoni e Lorella Baldin con la sua nikelharpa, mi dicono che tutti hanno aderito immediatamente all’iniziativa che può essere anche letta come un’occasione per provare nuovi repertori (un mio amico dice “che una prova con il pubblico vale dieci prove private“) e nuove collaborazioni. Poi da cosa può nascere cosa, si sa. Interessanti tutti set, da quello del trio Lopez De Munian · Baldin · Zannoni (un nuovissimo progetto con insolite sonorità del chitarrista e compositore di Bilbao) al blues arcaico “personalizzato” di Roberto Zorzi, dalle melodie originali del fingerpicker Giulio Redaelli alle rivisitazioni del jazz e della canzone d’autore di Giovanni Ferro per finire con l’avanguardia improvvisativa legata allo stilema afroamericano di Enrico Breanza.

Non essendo un vero e proprio concerto ma piuttosto l’occasione per conoscere artisti di grande valore e capacitò, si è deciso di dare la possibilità al pubblico di partecipare a questo incontro che si terrà, in caso di maltempo, in una delle sale interne del Centro.

AGOSTINO STEFFANI · Baroni · Bertuzzi · Ferri · Pasotti · Tosi “Vocal Chambers Duets”

AGOSTINO STEFFANI · Baroni · Bertuzzi · Ferri · Pasotti · Tosi “Vocal Chambers Duets”

AGOSTINO STEFFANI · Baroni · Bertuzzi · Ferri · Pasotti · Tosi

“Vocal Chambers Duets”

Brilliant Classics Records. CD, 2015

di alessandro nobis

La casa discografica Brilliant si distingue oltre che per la fascia di prezzo delle sue pubblicazioni anche · e soprattutto · per il suo catalogo che propone autori del periodo barocco e pre barocco molto apprezzati dagli specialisti del settore, musicisti e musicologi, ma poco conosciuti dal pubblico che frequenta la musica “classica” ma che opta però nella · confort area · degli autori più celebri. Questo “Vocal Chambers Duets” registrato a Mantova nel 2014 è a mio avviso paradigmatico di quanto detto: Agostino Steffani nativo di Castelfranco Veneto e vissuto tra il 1654 e il 1728 è autore misconosciuto ai più · compreso lo scrivente · nonostante venga considerato uno dei maggiori compositori Barocco italiano. Musicalmente molto prolifico, condusse una vita attivissima anche come religioso e come diplomatico dello Stato Vaticano e senza entrare nei dettagli della sua vita e tanto meno nei meandri musicologici della sua attività di compositore dico solamente che da giovanissimo, intorno ai vent’anni, compose oltre duecento brani dedicati alla voce: racconta Elena Bertuzzi: “Agostino Steffani scrisse soprattutto per due soprani e per soprano e contralto, ma, scegliendo bene i duetti per due voci pari (come due soprani, o due contralti, ecc… ), questi possono diventare duetti per soprano e tenore, oppure per soprano e basso“. Il CD ne presenta sette alla cui registrazione hanno prestato la loro arte e la loro passione la soprano Elena Bertuzzi, il tenore Alessio Tosi, la violoncellista Rebeca Tosi, Michele Pasotti alla tiorba e Francesco Baroni al clavicembalo: cinque musicisti che riescono nella non facile impresa di “trascinare” fuori dai pentagrammi queste autentiche perle musicali facendole rivivere come un’araba fenice in tutta la loro bellezza translandoli nel ventunesimo secolo. Naturalmente ad un ascolto “superficiale” le voci di Elena Bertuzzi e di Alessio Tosi sono quelle che “emergono” · anche grazie alla lingua madre che permette loro una perfetta calibratura di toni e accenti · ma è sufficiente un secondo attento ascolto per apprezzare il preziosissimo lavoro del tutto complementare del piccolo “combo strumentale” che assieme alle due voci ridà nuova vita a questo repertorio i cui temi sono l’amore, la gelosia, la lontananza, la perdita: la breve “Lontananza Crudel” (“Lontananza crudel tu mi tormenti · lascia ch’io goda un giorno“), la struggente “Saldi marmi” (“Saldi marmi che coprite · del mio ben l’ignuda salma“) o ancora “Gelosia” (“Gelosia, che vuoi da me? · Folte schiere · di fantasmi e di chimere · già nell’alma · van turbando · …….”).

Musica di grande fascino, personalmente un’apertura su un ricchissimo mondo musicale che ho poco frequentato.

Purtroppo nel libretto allegato non sono presenti i testi dei sette duetti che comunque si possono rintracciare, e modestamente vi consiglio di farlo, sul sito della casa discografica (https://www.brilliantclassics.com/media/972186/94969-Steffani-COMPLETE-Sung-Texts-Download.pdf).

Ricordo in conclusione che ad Agostino Steffani è dedicato il Conservatorio Statale di musica della sua città di origine, Castelfranco Veneto.

OREGON “Treffpunkt Jazz · Live In Ludwigsburg 1990”

OREGON “Treffpunkt Jazz · Live In Ludwigsburg 1990”

OREGON “Treffpunkt Jazz · Live In Ludwigsburg 1990”

SWR Classics Records. 2CD, 2024

di alessandro nobis

Nel classico tour europeo di fine 1990, il quartetto Oregon (Ralph Towner, Glenn Moore, Paul McCandless e Trilok Gurtu) approda il 27 novembre a Ludwisburg nel Baden-Württemberg, il concerto per nostra fortuna viene registrato in modo eccellente ed ora viene pubblicato in due compact disc dalla SWR Records. Al tempo di questa performance il disco più recente era “Ecotopia“, terzo per l’ECM di Manfred Eicher, ed il suono naturalmente rispecchia proprio quelle delle registrazioni per la casa tedesca, meno profumi etnici (Colin Walcott era scomparso nel 1984 in un incidente stradale durante il tour della band) e più vicino al jazz con ancor più spazio lasciato al dialogo spontaneo ovvero all’improvvisazione; a questo proposito segnalo i diciotto minuti di “Opening · Pepe Linque” (da “Crossing”), gli oltre undici di “Opening II“, i quindici di “Leather Cats” (da “Ecotopia”) e l’iniziale “June Bug” (da “Roots in the Sky” del ’79) aperta da Towner con l’esposizione del tema curata dall’oboe di McCandless e con bellissimi soli di chitarra e delle tabla di Gurtu. Ma uno dei brani più interessanti oltre ad essere l’unico non composto dai componenti degli Oregon, è a mio avviso “Witchi·tai·to” per il quale penso sia utile spendere qualche parola in più; composto da tenorista Jim Pepper, è ispirato da una melodia dei nativi americani (Pepper proviene da una famiglia di sangue “Kaw”, gruppo etnico dell’area oggi Kansas e Oklahoma, e “Creek” gruppo del sudest degli Stati Uniti), un canto associato alla lunga cerimonia del peyote (detto anche mescal) e dedicato in particolare al potere curativo dello spirito dell’acqua. Nella rilettura degli Oregon la dodici corde apre il lungo brano, l’oboe imita quasi il lungo flauto del nativi con il tappeto delle tabla ed i soli si susseguono trasformando il brano dal sapore inizialmente etnico al suono intriso di jazz della band: spettacolare.

Un gran bel disco, sia che vi foste persi gli Oregon “live” di quel periodo o che invece foste stati presenti a qualche loro concerto, comunque questo doppio cd lo dovete avere.

Praticamente un anno prima, il 25 ottobre del 1989, il quartetto tenne un memorabile concerto al Club “Il Posto” di Verona.

PLANXTY “Words & Music”

PLANXTY “Words & Music”

PLANXTY “Words & Music”

WEA Records. Lp, 1982

di alessandro nobis

Scrive Leagues O’Toole nel suo “The Humours od Planxty” (Hodder Headline Ireland, 2006): “A differenza di altri gruppi, i Planxty erano formati da quattro musicisti ognuno dei quali dava ugual contributo alla musica. Gruppi com questo sono entità rare e generalmente si costituiscono senza un disegno prestabilito a tavolino.” “Words & Music” è il loro sesto album pubblicato nel 1982 e l’unico per la multinazionale WEA Records registrato nel periodo in cui  Lunny, Moore e O’Neill militavano nella prima line · up dei Moving Hearts e come il precedente “The Woman I loved so well” ha una line · up allargata con l’apporto della violinista Nollaig Casey, del tastierista Bill Whelan, del già citato bassista Eoghan O’Neill e di un altro violinista, James Kelly. L’ennesimo ottimo disco per il quartetto irlandese con una brillante scelta del repertorio tra canti narrativi, arie da danza e interpretazioni di brani d’autore come il dylaniano “I Pity the Poor Emigrant” originariamente su “John Welsley Harding” con il testo ispirato dal Terzo Libro Biblico di Mosè, “Il libro del Levitico” con un’interpretazione però che come riporta sempre O’Toole non aveva convinto all’epoca Christy Moore (ma che invece con questo arrangiamento fa sembrare la ballad tratta dal repertorio tradizionale irlandese). Particolarmente interessante l’esecuzione di “Irish Marche” proveniente dal “My Ladye Nevells Book of Viriginal Music” di William Byrd composta nel 1591 probabilmente ispirata da una marcia che identificava un particolare clan. Un altro brano che voglio segnalare è la ballad tradzionale cantata da Andy Irvine, appresa dal flautista Cathal Mac Connel “Thousand are Sailing” · che non va confusa con l’omonimo brano dei Pogues, peraltro splendido ·: è la visione da parte di una terza persona dei preparativi degli emigranti la sera prima della partenza, l’ultima notte a casa, la preparazione delle poche cose da portare, l’ultimo saluto alla famiglia e agli amici prima di affrontare la traversata dell’oceano nell’incertezza del proprio futuro. Che dire ancora a mio modesto avviso i Planxty non hanno mai sbagliato un colpo, erano sono e resteranno uno dei più luminosi fari per chi si avvicina al folklore musicale irlandese.

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Leagues O’Toole writes in his “The Humours of Planxty” (Hodder Headline Ireland, 2006): “Unlike other groups, Planxty consisted of four musicians who each gave an equal contribution to the music. Groups like this are rare entities and generally they are formed without a pre-established plan.” “Words & Music” is their sixth album released in 1982 and the only one for the multinational WEA Records recorded in the period in which Lunny, Moore and O’Neill played in the first line · up of the Moving Hearts and like the previous one “The Woman I loved so well” has an expanded line up with the contribution of violinist Nollaig Casey, keyboardist Bill Whelan, the aforementioned bassist Eoghan O’Neill and another violinist, James Kelly. Yet another excellent album for the Irish quartet with a brilliant choice of repertoire including narrative songs, dance arias and interpretations of signature songs such as Dylan’s “I Pity the Poor Emigrant” originally on “John Wesley Harding” with the inspired lyrics from the Third Biblical Book of Moses, “The Book of Leviticus” with an interpretation however which, as O’Toole always reports, had not convinced Christy Moore at the time (but which instead with this arrangement makes the ballad seem taken from the traditional Irish repertoire) . Particularly interesting is the performance of “Irish Marche” from William Byrd’s “My Ladye Nevells Book of Viriginal Music” composed in 1591, probably inspired by a march that identified a particular clan. Another song that I want to point out is the traditional ballad sung by Andy Irvine, learned by the flautist Cathal Mac Connel “Thousand are Sailing” · which should not be confused with the Pogues’song of the same title, which is also splendid ·: it is the vision of a third person of the emigrants’ preparations the evening before departure, the last night at home, the preparation of the few things to bring, the last farewell to family and friends before facing the ocean crossing in the uncertainty of one’s future. What can I say, in my humble opinion, Planxty never missed a beat, they were and will remain one of the brightest beacons for those approaching Irish musical folk music.

ALARICO GATTIA “Ivanhoe”

ALARICO GATTIA “Ivanhoe”

ALARICO GATTIA “Ivanhoe (di Rotherwood)”

Edizioni Segni D’Autore 2020, 68 pagg. cm 24 x 30. € 15,00

di alessandro nobis

Per noi che abbiamo passato la sessantina il ricordo di Ivanhoe è indissolubilmente legato all’omonimo sceneggiato televisivo mandato in onda dalla R.A.I. nei primi tre mesi del 1964, la domenica alle 17:30: si trattava del doppiaggio della versione originale inglese che la BBC mandò in onda nel 1958, protagonista Roger Moore, riduzione televisiva del romanzo storico che lo scozzese Sir Walter Scott scrisse nel 1829 per decenni derubricato a “romanzo per ragazzi”. La vicenda storica la conoscono (più o meno) tutti. Anno del Signore 1194: siamo al tempo della Terza Crociata, il Re Sassone Riccardo (Cuor di Leone) torna in incognito nella sua Inghilterra dopo la prigionia in Austria ma il fratello Giovanni (Senza Terra) da reggente è divenuto usurpatore del trono che vorrebbe mantenere facendosi amici i Normanni che lo avrebbero aiutato nell’impresa a scapito della sua gente Sassone. Nel romanzo di Sir Walter Scott, tra realtà e “fiction” come dicono quelli bravi, compaiono anche figure rimaste nell’immaginario collettivo come Robin “Locksley” Hood anche lui di ritorno dalla Crociate travestito da pellegrino e diseredato dal padre per essere andato in Terra Santa e frate Tuck. Sia che già conosciate gli avvenimenti e la conclusione della storia o che di Ivanhoe non abbiate mai sentito parlare, questo lavoro vi consente di avvicinare questo periodo storico raccontato “a china” da così belle ed evocative immagini, e vignette, da Alarico Gattia (1927 · 2022) eccellente sceneggiatore (qui il lavoro di “riduzione” a mio modesto parere è perfettamente riuscito) e figura importantissima nel panorama dell’illustrazione non solo italiana al quale la casa editrice ha dedicato tra il 2000 e il 2022 cinque volumi: “Ivanhoe“, “Vandea 1793“, “Il Prigioniero di Zenda“, “Giacche Blu · Garibaldi e la libertà promessa” e “I Tre Moschettieri“. Poi, letto questo fumetto, passate al romanzo di Walter Scott: non fate i timidi, questo non è un romanzo per ragazzi, eh!

DOC & MERLE WATSON “Down South”

DOC & MERLE WATSON “Down South”

DOC & MERLE WATSON “Down South”

Sugar Hill Records. LP, 1984

di alessandro nobis

Dal punto di vista cronologico questo magnifico disco di Doc e Merle Watson sta tra “Guitar Album” dell’83 e “Picking the Blues” dell’85 ed è anche, purtroppo, il penultimo che Doc registra assieme al talentuoso figlio Merle che perse la vita in un tragico incidente il 23 ottobre del 1985 a soli trentasei anni. Alle registrazioni di questo lavoro hanno partecipato musicisti di grandissimo spessore ovvero il violinista Sam Bush ed i contrabbassisti Micheal T. Coleman e Butty Davis, che aggiungono ulteriore valore alle chitarre dei due Watson. Il brano capolavoro è senz’altro “What A Friend We Have In Jesus“, inno scritto da Joseph Medlicott Scriven, irlandese di Banbridge nella Contea di Down emigrato in Canada nel 1844 durante la carestia della seconda decade degli anni quaranta ell’Ottocento che causò oltre un milione di morti e costrinse altrettanti irlandesi a emigrare. Watson qui accompagna la voce con l’armonica a bocca, sembra quasi di essere sulla banchina di un porto in attesa del bastimento verso l’ignoto, certamente il brano più intenso e toccante dell’album, non solo per la tematica a sfondo sociale ma anche per la prassi esecutiva.

Altri brani che meritano di essere menzionati sono “Fifteen Cents” dal repertorio degli old · timers del Tennessee Binkley Brothers Dixie Clodhoppers che lo incisero su 78 giri nel 1928, “Coal Miner’s Blues“, registrato dalla Carter Family nel 1938 a due voci che nasconde sotto un ritmo molto piacevole un testo piuttosto duro che racconta delle condizioni dei lavoratori nelle miniere di bitume e carbone con Watson accompagnato da Merle e da Buddy Davis, “The Twa Sisters“, una versione strumentale di una “murder ballad” che trova origine nel 17° secolo, riportata nelle raccolte Roud e Child ai numeri # 8 e # 10 rispettivamente; di questa ballata nelle isole britanniche ne sono state raccolte oltre venti lezioni la più conosciuta ed interpretata è forse quella chiamata “Cruel Sister“, storia dell’omicidio di due gemelle causato dalla gelosia e perpetrato dalla sorella: qui la perfetta e bellissima ambientazione “old time” è qui sottolineata da Merle Watson al banjo, Sam Bush al violino che traccia la melodia, da Doc Watson e Buddy Davis al contrabbasso. Infine segnalo  “Hello Stranger” registrata per la prima volta dalla Carter Family nel 1937, qui con Merle Watson alla slide, “Doc” alla voce e chitarra ed il contrabbasso di Micheal T. Coleman: è una classica canzone d’amore nella quale il protagonista cerca di avvicinare una ragazza elencandole ciò che li accomuna (“Oh, i see you when your troubles are like mine /  Oh, i see you when your troubles are like /  Oh, i see you when you haven’t got a dime“).

Nella poderosa discografia di Doc Watson è questo a mio avviso uno dei lavori imperdibili e solo il brano che ho citato “What A Friend We Have In Jesus” ne giustifica certamente l’acquisto.

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From a chronological point of view, this magnificent album by Doc and Merle Watson is between “Guitar Album” of ’83 and “Picking the Blues” of ’85 and is also, unfortunately, the penultimate one that Doc records together with his talented son Merle who lost his life in a tragic accident on 23 October 1985 at just thirty-six years old. The recordings of this work involved musicians of great caliber, namely the violinist Sam Bush and the double bass players Micheal T. Coleman and Butty Davis, who add further value to the guitars of the two Watsons. The masterpiece is undoubtedly “What A Friend We Have In Jesus”, a hymn written by Joseph Medlicott Scriven, an Irishman from Banbridge, County Down who emigrated to Canada in 1844 during the famine of the second decade of the 1840s which caused over a million died and forced as many Irish to emigrate. Here Watson accompanies the voice with the mouth organ, it almost seems like being on the dock of a port waiting for the ship towards the unknown, certainly the most intense and touching song on the album, not only for the social theme but also for executive practice.Other songs that deserve to be mentioned are “Fifteen Cents” from the repertoire of the Tennessee old timers Binkley Brothers Dixie Clodhoppers who recorded it on 78 rpm in 1928, “Coal Miner’s Blues”, recorded by the Carter Family in 1938 for two voices which hides under a very pleasant rhythm a rather harsh text that tells of the conditions of the workers in the bitumen and coal mines with Watson accompanied by Merle and Buddy Davis, “The Twa Sisters”, an instrumental version of a “murder ballad” which has its origins in 17th century, reported in the Roud and Child collections at numbers #8 and #10 respectively; of this ballad in the British Isles, over twenty lessons have been collected, the best known and most interpreted is perhaps the one called “Cruel Sister”, the story of the murder of two twins caused by jealousy and perpetrated by their sister: here the perfect and beautiful “old” setting time” is here underlined by Merle Watson on banjo, Sam Bush on violin who traces the melody, by Doc Watson and Buddy Davis on double bass. Finally I point out “Hello Stranger” recorded for the first time by the Carter Family in 1937, here with Merle Watson on slide, “Doc” on voice and guitar and Michael T. Coleman on double bass: it is a classic love song in which the protagonist tries to approach a girl by listing what they have in common (“Oh, i see you when your troubles are like mine / Oh, i see you when your troubles are like / Oh, i see you when you haven’t got a dime” ).

In my opinion, this is one of the unmissable works in Doc Watson's powerful discography and only the song I mentioned "What A Friend We Have In Jesus" certainly justifies its purchase.

IL CORSARO NERO “Rivista Salgariana di Letteratura Popolare” – Numero 35

IL CORSARO NERO “Rivista Salgariana di Letteratura Popolare” – Numero 35

IL CORSARO NERO “Rivista Salgariana di Letteratura Popolare” – Numero 35, gennaio 2024, 78 pagg.

di alessandro nobis

Da qualche settimana è stato pubblicato il numero 35 della Rivista Salgariana di Letteratura Popolare “ILCORSARONERO” diretta da Claudio Gallo che comprende 20 articoli che spaziano in modo intelligente tra doverosi ricordi di Mino Milani e la letteratura che Luca Di Fulvio definisce giustamente “compagna di gioco” e preziosa scintilla che accende la fantasia, aggiungo io.

Tre gli articoli che vorrei segnalare, il primo è dello studioso veronese Andrea Tenca che analizza il difficile e conflittuale rapporto tra letteratura scientifica e il romanzo scientifico: “Con sì vergognosa passione. Verne, il romanzo scientifico e le sue colpe” racconta degli attacchi ottocenteschi alla seconda a cominciare da quelli del geologo e prete naturalista Antonio Stoppani che a partire dal 1872, a Bassano del Grappa, critica fortemente le “parodie scientifiche” soprattutto del francese Jules Verne perchè a suo dire i suoi scritti sono una “mostruosa miscela di vero e falso; uguale intento a dilettare l’immaginazione piuttosto che ad arricchire la mente ……. quando non si possa distinguere fra verità ed errore, è meglio ignorare“.

Ma, con il senno di poi, noi possiamo chiederci invece quanti sono i ragazzi · lettori di Verne che si sono avvicinati al mondo scientifico (e mi metto tra questi da accanito lettore di “Viaggio al Centro della Terra“)? Molti, moltissimi a mio avviso.

Edoardo Camponeschi attore, doppiatore, narratore e fondatore dell’etichetta Ménéstrandise (in catalogo una quarantina di audiolibri) è autore del un breve saggio “Salgari e gli audiolibri: dal passato all’attualissimo, un connubio che funziona” che troverete a pagina 57 della rivista. Camponeschi auspica · e noi siamo con lui · un ritorno, anche parziale, della cultura della trasmissione orale, il racconto “ascoltato” piuttosto che “letto” o “visto”, e le opere di Emilio Salgari sono adatte ad “audiotrasportarci” nei grandi scenari che lo scrittore veronese ha creato. Quattro sono i romanzi salgariani nel catalogo Ménéstrandise (“Il Corsaro Nero“, “La Regina dei Caraibi“, “Jolanda, la Figlia del Corsaro Nero” e “Le Tigri della Malesia“), e l’idea è quella di equilibrare i passaggi più “etnografici” legati alla divulgazione geografico scientifica così frequenti nella bibliografia di Salgari con quelli che descrivono l'”azione” dei protagonisti: “mantenere un tono adatto che non scalfisca la natura dell’opera di Salgari“, scrive Camponeschi.

A pagina 67 troviamo infine un articolo davvero sorprendente pubblicato in origine da Huffington Post: “Ricordo di Pelè, asso unico abbagliante e salgariano” scritto dall’italo brasiliano, giornalista sportivo, Darwin Pastorin. Ci si chiede ineluttabilmente “che ci azzecca Pelè con Salgari?” per citare un ex magistrato che cercò di cambiare mestiere: poi ci si informa e si scopre che nella bibliografia di Pastorin troviamo un volume dedicato ai due eroi del calcio brasiliano rimasti nell’immaginario collettivo di quel Paese e non solo: eroe positivo senza dubbio “l’angelo dalle gambe storte” Manoel Francisco dos Santos a.k.a. Manè Garrincha (“Ode per Manè“), eroe negativo Moacyr Borbosa Nascimento (“L’ultima parata di Moacyr Barbosa“), il portiere che fece perdere alla nazionale carioca la finale mondiale del ’50 al Maracanà con l’odiatissimo Uruguay (che allora schierava Schaffino e Ghiggia tra gli altri) sconfitta che dopo settanta anni brucia ancora, eccome se brucia. Pelè e Sandokan, chi di noi non ha sognato di essere al loro fianco nella giungla malese o sui terreni di gioco di tutto il mondo? Eroi irrangiungibili creati da una penna ed eroi realmente vissuti cosa importa, hanno segnato comunque la fantasia di intere generazioni e quindi l’articolo di Pastorin ci sta alla perfezione ne “Il CORSARONERO” direi.

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JOHN HURLBUT · JORMA KAUKONEN “The River Flows · Volume 1”

JOHN HURLBUT · JORMA KAUKONEN “The River Flows · Volume 1”

JOHN HURLBUT · JORMA KAUKONEN “The River Flows · Volume 1”

Culture Factory. LP, 2021

di alessandro nobis

Pubblicato in occasione di un Record Day Store, “The River Flows” è il primo di due ellepì registrati durante il lock · down da John Hurlbut e Jorma Kaukonen e coprodotto da Vanessa Kaukonen al Fur Peace Ranch fondato dal chitarrista americano ormai parecchi anni or sono.

John Hurlbut, oltre che fine fingerpicker, ha un voce dolce, emozionante, cadenzata, quasi sussurrata, l’ideale per interpretare questo repertorio di “standards” e di brani di autori poco conosciuti in compagnia di un amico di vecchia data, Jorma Kaukonen che mette tutta la sua sconfinata classe ed esperienza al servizio · si fa per dire · della sua controparte: accompagna, non prevarica mai Hurlbut ma lo asseconda, duetta, lo rispetta e comunque si ascolti questa bellissima musica la sua chitarra è sempre presente, discreta ma presente. Si respira e si percepisce un’atmosfera intima, amichevole e la scaletta di conseguenza acquista un sapore particolare rispetto agli originali, alcuni celeberrimi, altri dimenticati, altri misconosciuti.

Magnifica, direi anche sontuosa la rilettura del brano di Roger McGuinn “Ballad of Easy Rider” che si sviluppa in oltre dieci minuti con un lunghissimo, dialogo tra le chitarre prima della parte cantata, atmosfera rilassata in “Kansas City Southern” (guardare il Kansas City Southern passare sui binari e sognare le grandi città) scritta da Gene Clark · pubblicata inizialmente con Doug Dillard nel ’69 · splendidi gli intarsi e il solo di Kaukonen. Una delle gemme più brillanti di questo primo volume è a mio modesto avviso il canto di emigrazione verso la Terra Promessa di Ryland Cooder “Across the Borderline(“Here’s a lesson you must learn / You could lose more the you ever hope to find”). Da segnalare inoltre due brani del misconosciuto songwriter almeno in Italia Spencer Bohren di Casper, Wy. (1950 · 2019), “Travelin’” e “The Old Homestead” e la ballad “Someone’s Calling” di John Hurlbut.

La versione in compact disc, che contiene i due volumi, è arricchita da otto brani inediti registrati dal vivo il 1 maggio 2021 al medesimo FPR nell’ambito dei “Quarantine Concerts”, serie “da remoto” iniziata il 4 aprile del ’20.

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Released on the occasion of a Record Day Store, “The River Flows” is the first of two albums recorded during the lock down by John Hurlbut and Jorma Kaukonen and co-produced by Vanessa Kaukonen at the Fur Peace Ranch founded by the American guitarist several years ago .

John Hurlbut, as well as a fine fingerpicker, has a sweet, exciting, lilting, almost whispered voice, ideal for interpreting this repertoire of “standards” and pieces by little-known authors in the company of an old friend, Jorma Kaukonen who he puts all his boundless class and experience at the service of his counterpart, so to speak: he accompanies, never overpowers Hurlbut but indulges him, duets, respects him and however you listen to this beautiful music his guitar is always present, discreet but present. You can breathe and feel an intimate, friendly atmosphere and the setlist consequently acquires a particular flavor compared to the originals, some very famous, others forgotten, others unknown.

Remarkable, I would even say sumptuous, is the re · reading of Roger McGuinn’s song “Ballad of Easy Rider” which develops over ten minutes with a very long dialogue between the guitars before the singing part, a relaxed atmosphere in “Kansas City Southern” (to watch the Kansas City Southern pass on the tracks and dream of big cities) written by Gene Clark · initially published with Doug Dillard in ’69 · splendid inlays and Kaukonen’s solo. One of the brightest gems of this first volume is in my humble opinion Ryland Cooder’s emigration song towards the Promised Land “Across the Borderline” (“Here’s a lesson you must learn / You could lose more the you ever hope to find“). Also worth mentioning are two songs by the unknown songwriter at least in Italy Spencer Bohren from Casper, Wy. (1950 · 2019), “Travelin‘” and “The Old Homestead” and the ballad “Someone’s Calling” by John Hurlbut.

The compact disc version, which contains the two volumes, is enriched by eight unreleased songs recorded live on May 1, 2021 at the same FPR as part of the “Quarantine Concerts”, a “remote live series” that started on April 4, ’20.

MAKÁM ÉS KOLINDA “Szélcsend után”

MAKÁM ÉS KOLINDA “Szélcsend után”

MAKÁM ÉS KOLINDA “Szélcsend után”

Hungaroton Records. LP, 1984

di alessandro nobis

Registrato e pubblicato in Olanda nel 1982 dalla Stoof Records e successivamente dall’Hungaroton nel 1984, “Szélcsend után” è il primo degli album registrati (a questo seguirà “Utón”) dalla connection tra i gruppi ungheresi Kolinda (autori di tre splendidi dischi per la francese Hexagone) ed i Makam. In realtà qui dei Kolinda originali è presente solamente Peter Dabasi (mandoloncello, kaval, voce) mentre la line · up dei Makam comprende Peter Köszegi (contrabbasso), Eszter Matolcsy (violino, viola, kalimba, percussioni) Zoltán Krulik (chitarra, voce), Szabolcs Szőke (gadulka) e Endre Juhász (oboe). Disco notevole e molto interessante questo “Szélcsend után”, piuttosto lontano dall’ortodossia tradizionale che caratterizzava il prezioso catalogo dell’Hungaroton e segnato da per lo più composizioni originali composte da Zoltán Krulik, Peter Dabasi  e lo straordinario suonatore di gadulka Szabolcs Szőke. E’ musica che ancora si presenta molto interessante e fresca, va contestualizzata ai tempi della registrazione dove la rara, innovativa e raffinata combinazione di suoni etnici (i flauti pastorali, la gadulka, la kalimba e le percussioni) è al servizio degli spartiti e del talento dei musicisti tutti con una preparazione di primissimo livello, tant’è che il Makam Együttes è tutt’ora in piena attività ed ha da poche settimane celebrato con un concerto il quarantesimo anniversario; nel tempo ci sono stati numerosi avvicendamenti dei musicisti ma al centro restano più che mai le composizioni di quello che può essere considerato il perno centrale dell’ensemble, Zoltán Krulik.

Le voci, la chitarra e l’oboe di Töredek che aprono il disco, gli armonici della dodici corde con il violino che lanciano il brano eponimo, l’oboe di Endre Juhász (protagonista della sua “Mese” che chiude la prima facciata) con il mandoloncello conferiscono alla musica del gruppo un suono decisamente unico, con lo sguardo volto a oriente ed alle musiche “colta e popolare” ungherese (“Szélcsend után” prosegue con “Két Népdal“, due canti popolari arrangiati da Dabasi). Come nella balcanica “Tràk Dallam” arrangiata e suonata da Szőke, splendido esempio di come la musica popolare possa essere riletta con un idioma musicale diverso.

Disco bellissimo che a molti me compreso ha aperto un mondo musicale sconosciuto. Avere poi ospitato i Makam a Verona per tre volte a distanza di anni ci ha permesso di vedere la loro evoluzione oltre ad essere stato un onore conoscerli.

ARMAROLI · MAIER “Figure(s) a due”

ARMAROLI · MAIER “Figure(s) a due”

ARMAROLI · MAIER “Figure(s) a due”

Dodicilune Dischi. CD, 2024

di alessandro nobis

Questo “Figure(s) a due” è (anche) un doveroso omaggio al grande vibrafonista Walter Roland Dickerson scomparso nel 2008, uno dei musicisti più dimenticati dagli appassionati e jazzofili ma non da Sergio Armaroli per il quale la sua musica rappresenta un riferimento. Il vibrafonista lo fa in compagnia di un altro gran musicista, il contrabbassista Giovanni Maier, compagno di viaggio complementare al vibrafonista sempre in grado di partecipare in modo creativo alla creazione delle “Figure(s)” lasciando con il suo strumento un segno davvero tangibile. Questo lavoro pubblicato dalla Dodicilune è quindi un viaggio in tredici tappe nell’idioma della creazione musicale spontanea fatta eccezione per la significativa rilettura · aperta dal contrabbasso · di uno degli “spartiti” di John Coltrane ovvero “India” che chiude anche il disco. Coltrane, perchè credo che le sue composizioni siano, lo dico da semplice fruitore, tra quelle che consentono ed anche invitano ad una maggiore libertà esecutiva i musicisti che le affrontano.

I primi dodici brani nascono da brevissimi temi il cui stesso concetto consente massima libertà ai due musicisti di sviluppare e di creare la musica in modo istantaneo, creativo e visto che stiamo parlando dell’idioma improvvisativo, anche irripetibili. Certamente non è musica di facilissima fruizione ma ascolto dopo ascolto si riesce ad entrare nella sua struttura e di apprezzare le sue sfumature, come ad esempio in “Figura #2” o nella “Figura #5” ma il discorso va allargato a tutto il disco. Intreccio continuo di suoni, comunanza di idee, stima reciproca per un lavoro che è stato pubblicato assieme a “Figure(s) a tre“, Maier e Armaroli con Francesca Gemmo, ed a “Stringsland” della stessa pianista in duo con il contrabbassista. Un trittico targato “Dodicilune” importante che molto modestamente consiglio. A tutti.