ALARICO GATTIA “Ivanhoe”

ALARICO GATTIA “Ivanhoe”

ALARICO GATTIA “Ivanhoe (di Rotherwood)”

Edizioni Segni D’Autore 2020, 68 pagg. cm 24 x 30. € 15,00

di alessandro nobis

Per noi che abbiamo passato la sessantina il ricordo di Ivanhoe è indissolubilmente legato all’omonimo sceneggiato televisivo mandato in onda dalla R.A.I. nei primi tre mesi del 1964, la domenica alle 17:30: si trattava del doppiaggio della versione originale inglese che la BBC mandò in onda nel 1958, protagonista Roger Moore, riduzione televisiva del romanzo storico che lo scozzese Sir Walter Scott scrisse nel 1829 per decenni derubricato a “romanzo per ragazzi”. La vicenda storica la conoscono (più o meno) tutti. Anno del Signore 1194: siamo al tempo della Terza Crociata, il Re Sassone Riccardo (Cuor di Leone) torna in incognito nella sua Inghilterra dopo la prigionia in Austria ma il fratello Giovanni (Senza Terra) da reggente è divenuto usurpatore del trono che vorrebbe mantenere facendosi amici i Normanni che lo avrebbero aiutato nell’impresa a scapito della sua gente Sassone. Nel romanzo di Sir Walter Scott, tra realtà e “fiction” come dicono quelli bravi, compaiono anche figure rimaste nell’immaginario collettivo come Robin “Locksley” Hood anche lui di ritorno dalla Crociate travestito da pellegrino e diseredato dal padre per essere andato in Terra Santa e frate Tuck. Sia che già conosciate gli avvenimenti e la conclusione della storia o che di Ivanhoe non abbiate mai sentito parlare, questo lavoro vi consente di avvicinare questo periodo storico raccontato “a china” da così belle ed evocative immagini, e vignette, da Alarico Gattia (1927 · 2022) eccellente sceneggiatore (qui il lavoro di “riduzione” a mio modesto parere è perfettamente riuscito) e figura importantissima nel panorama dell’illustrazione non solo italiana al quale la casa editrice ha dedicato tra il 2000 e il 2022 cinque volumi: “Ivanhoe“, “Vandea 1793“, “Il Prigioniero di Zenda“, “Giacche Blu · Garibaldi e la libertà promessa” e “I Tre Moschettieri“. Poi, letto questo fumetto, passate al romanzo di Walter Scott: non fate i timidi, questo non è un romanzo per ragazzi, eh!

DOC & MERLE WATSON “Down South”

DOC & MERLE WATSON “Down South”

DOC & MERLE WATSON “Down South”

Sugar Hill Records. LP, 1984

di alessandro nobis

Dal punto di vista cronologico questo magnifico disco di Doc e Merle Watson sta tra “Guitar Album” dell’83 e “Picking the Blues” dell’85 ed è anche, purtroppo, il penultimo che Doc registra assieme al talentuoso figlio Merle che perse la vita in un tragico incidente il 23 ottobre del 1985 a soli trentasei anni. Alle registrazioni di questo lavoro hanno partecipato musicisti di grandissimo spessore ovvero il violinista Sam Bush ed i contrabbassisti Micheal T. Coleman e Butty Davis, che aggiungono ulteriore valore alle chitarre dei due Watson. Il brano capolavoro è senz’altro “What A Friend We Have In Jesus“, inno scritto da Joseph Medlicott Scriven, irlandese di Banbridge nella Contea di Down emigrato in Canada nel 1844 durante la carestia della seconda decade degli anni quaranta ell’Ottocento che causò oltre un milione di morti e costrinse altrettanti irlandesi a emigrare. Watson qui accompagna la voce con l’armonica a bocca, sembra quasi di essere sulla banchina di un porto in attesa del bastimento verso l’ignoto, certamente il brano più intenso e toccante dell’album, non solo per la tematica a sfondo sociale ma anche per la prassi esecutiva.

Altri brani che meritano di essere menzionati sono “Fifteen Cents” dal repertorio degli old · timers del Tennessee Binkley Brothers Dixie Clodhoppers che lo incisero su 78 giri nel 1928, “Coal Miner’s Blues“, registrato dalla Carter Family nel 1938 a due voci che nasconde sotto un ritmo molto piacevole un testo piuttosto duro che racconta delle condizioni dei lavoratori nelle miniere di bitume e carbone con Watson accompagnato da Merle e da Buddy Davis, “The Twa Sisters“, una versione strumentale di una “murder ballad” che trova origine nel 17° secolo, riportata nelle raccolte Roud e Child ai numeri # 8 e # 10 rispettivamente; di questa ballata nelle isole britanniche ne sono state raccolte oltre venti lezioni la più conosciuta ed interpretata è forse quella chiamata “Cruel Sister“, storia dell’omicidio di due gemelle causato dalla gelosia e perpetrato dalla sorella: qui la perfetta e bellissima ambientazione “old time” è qui sottolineata da Merle Watson al banjo, Sam Bush al violino che traccia la melodia, da Doc Watson e Buddy Davis al contrabbasso. Infine segnalo  “Hello Stranger” registrata per la prima volta dalla Carter Family nel 1937, qui con Merle Watson alla slide, “Doc” alla voce e chitarra ed il contrabbasso di Micheal T. Coleman: è una classica canzone d’amore nella quale il protagonista cerca di avvicinare una ragazza elencandole ciò che li accomuna (“Oh, i see you when your troubles are like mine /  Oh, i see you when your troubles are like /  Oh, i see you when you haven’t got a dime“).

Nella poderosa discografia di Doc Watson è questo a mio avviso uno dei lavori imperdibili e solo il brano che ho citato “What A Friend We Have In Jesus” ne giustifica certamente l’acquisto.

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From a chronological point of view, this magnificent album by Doc and Merle Watson is between “Guitar Album” of ’83 and “Picking the Blues” of ’85 and is also, unfortunately, the penultimate one that Doc records together with his talented son Merle who lost his life in a tragic accident on 23 October 1985 at just thirty-six years old. The recordings of this work involved musicians of great caliber, namely the violinist Sam Bush and the double bass players Micheal T. Coleman and Butty Davis, who add further value to the guitars of the two Watsons. The masterpiece is undoubtedly “What A Friend We Have In Jesus”, a hymn written by Joseph Medlicott Scriven, an Irishman from Banbridge, County Down who emigrated to Canada in 1844 during the famine of the second decade of the 1840s which caused over a million died and forced as many Irish to emigrate. Here Watson accompanies the voice with the mouth organ, it almost seems like being on the dock of a port waiting for the ship towards the unknown, certainly the most intense and touching song on the album, not only for the social theme but also for executive practice.Other songs that deserve to be mentioned are “Fifteen Cents” from the repertoire of the Tennessee old timers Binkley Brothers Dixie Clodhoppers who recorded it on 78 rpm in 1928, “Coal Miner’s Blues”, recorded by the Carter Family in 1938 for two voices which hides under a very pleasant rhythm a rather harsh text that tells of the conditions of the workers in the bitumen and coal mines with Watson accompanied by Merle and Buddy Davis, “The Twa Sisters”, an instrumental version of a “murder ballad” which has its origins in 17th century, reported in the Roud and Child collections at numbers #8 and #10 respectively; of this ballad in the British Isles, over twenty lessons have been collected, the best known and most interpreted is perhaps the one called “Cruel Sister”, the story of the murder of two twins caused by jealousy and perpetrated by their sister: here the perfect and beautiful “old” setting time” is here underlined by Merle Watson on banjo, Sam Bush on violin who traces the melody, by Doc Watson and Buddy Davis on double bass. Finally I point out “Hello Stranger” recorded for the first time by the Carter Family in 1937, here with Merle Watson on slide, “Doc” on voice and guitar and Michael T. Coleman on double bass: it is a classic love song in which the protagonist tries to approach a girl by listing what they have in common (“Oh, i see you when your troubles are like mine / Oh, i see you when your troubles are like / Oh, i see you when you haven’t got a dime” ).

In my opinion, this is one of the unmissable works in Doc Watson's powerful discography and only the song I mentioned "What A Friend We Have In Jesus" certainly justifies its purchase.

IL CORSARO NERO “Rivista Salgariana di Letteratura Popolare” – Numero 35

IL CORSARO NERO “Rivista Salgariana di Letteratura Popolare” – Numero 35

IL CORSARO NERO “Rivista Salgariana di Letteratura Popolare” – Numero 35, gennaio 2024, 78 pagg.

di alessandro nobis

Da qualche settimana è stato pubblicato il numero 35 della Rivista Salgariana di Letteratura Popolare “ILCORSARONERO” diretta da Claudio Gallo che comprende 20 articoli che spaziano in modo intelligente tra doverosi ricordi di Mino Milani e la letteratura che Luca Di Fulvio definisce giustamente “compagna di gioco” e preziosa scintilla che accende la fantasia, aggiungo io.

Tre gli articoli che vorrei segnalare, il primo è dello studioso veronese Andrea Tenca che analizza il difficile e conflittuale rapporto tra letteratura scientifica e il romanzo scientifico: “Con sì vergognosa passione. Verne, il romanzo scientifico e le sue colpe” racconta degli attacchi ottocenteschi alla seconda a cominciare da quelli del geologo e prete naturalista Antonio Stoppani che a partire dal 1872, a Bassano del Grappa, critica fortemente le “parodie scientifiche” soprattutto del francese Jules Verne perchè a suo dire i suoi scritti sono una “mostruosa miscela di vero e falso; uguale intento a dilettare l’immaginazione piuttosto che ad arricchire la mente ……. quando non si possa distinguere fra verità ed errore, è meglio ignorare“.

Ma, con il senno di poi, noi possiamo chiederci invece quanti sono i ragazzi · lettori di Verne che si sono avvicinati al mondo scientifico (e mi metto tra questi da accanito lettore di “Viaggio al Centro della Terra“)? Molti, moltissimi a mio avviso.

Edoardo Camponeschi attore, doppiatore, narratore e fondatore dell’etichetta Ménéstrandise (in catalogo una quarantina di audiolibri) è autore del un breve saggio “Salgari e gli audiolibri: dal passato all’attualissimo, un connubio che funziona” che troverete a pagina 57 della rivista. Camponeschi auspica · e noi siamo con lui · un ritorno, anche parziale, della cultura della trasmissione orale, il racconto “ascoltato” piuttosto che “letto” o “visto”, e le opere di Emilio Salgari sono adatte ad “audiotrasportarci” nei grandi scenari che lo scrittore veronese ha creato. Quattro sono i romanzi salgariani nel catalogo Ménéstrandise (“Il Corsaro Nero“, “La Regina dei Caraibi“, “Jolanda, la Figlia del Corsaro Nero” e “Le Tigri della Malesia“), e l’idea è quella di equilibrare i passaggi più “etnografici” legati alla divulgazione geografico scientifica così frequenti nella bibliografia di Salgari con quelli che descrivono l'”azione” dei protagonisti: “mantenere un tono adatto che non scalfisca la natura dell’opera di Salgari“, scrive Camponeschi.

A pagina 67 troviamo infine un articolo davvero sorprendente pubblicato in origine da Huffington Post: “Ricordo di Pelè, asso unico abbagliante e salgariano” scritto dall’italo brasiliano, giornalista sportivo, Darwin Pastorin. Ci si chiede ineluttabilmente “che ci azzecca Pelè con Salgari?” per citare un ex magistrato che cercò di cambiare mestiere: poi ci si informa e si scopre che nella bibliografia di Pastorin troviamo un volume dedicato ai due eroi del calcio brasiliano rimasti nell’immaginario collettivo di quel Paese e non solo: eroe positivo senza dubbio “l’angelo dalle gambe storte” Manoel Francisco dos Santos a.k.a. Manè Garrincha (“Ode per Manè“), eroe negativo Moacyr Borbosa Nascimento (“L’ultima parata di Moacyr Barbosa“), il portiere che fece perdere alla nazionale carioca la finale mondiale del ’50 al Maracanà con l’odiatissimo Uruguay (che allora schierava Schaffino e Ghiggia tra gli altri) sconfitta che dopo settanta anni brucia ancora, eccome se brucia. Pelè e Sandokan, chi di noi non ha sognato di essere al loro fianco nella giungla malese o sui terreni di gioco di tutto il mondo? Eroi irrangiungibili creati da una penna ed eroi realmente vissuti cosa importa, hanno segnato comunque la fantasia di intere generazioni e quindi l’articolo di Pastorin ci sta alla perfezione ne “Il CORSARONERO” direi.

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JOHN HURLBUT · JORMA KAUKONEN “The River Flows · Volume 1”

JOHN HURLBUT · JORMA KAUKONEN “The River Flows · Volume 1”

JOHN HURLBUT · JORMA KAUKONEN “The River Flows · Volume 1”

Culture Factory. LP, 2021

di alessandro nobis

Pubblicato in occasione di un Record Day Store, “The River Flows” è il primo di due ellepì registrati durante il lock · down da John Hurlbut e Jorma Kaukonen e coprodotto da Vanessa Kaukonen al Fur Peace Ranch fondato dal chitarrista americano ormai parecchi anni or sono.

John Hurlbut, oltre che fine fingerpicker, ha un voce dolce, emozionante, cadenzata, quasi sussurrata, l’ideale per interpretare questo repertorio di “standards” e di brani di autori poco conosciuti in compagnia di un amico di vecchia data, Jorma Kaukonen che mette tutta la sua sconfinata classe ed esperienza al servizio · si fa per dire · della sua controparte: accompagna, non prevarica mai Hurlbut ma lo asseconda, duetta, lo rispetta e comunque si ascolti questa bellissima musica la sua chitarra è sempre presente, discreta ma presente. Si respira e si percepisce un’atmosfera intima, amichevole e la scaletta di conseguenza acquista un sapore particolare rispetto agli originali, alcuni celeberrimi, altri dimenticati, altri misconosciuti.

Magnifica, direi anche sontuosa la rilettura del brano di Roger McGuinn “Ballad of Easy Rider” che si sviluppa in oltre dieci minuti con un lunghissimo, dialogo tra le chitarre prima della parte cantata, atmosfera rilassata in “Kansas City Southern” (guardare il Kansas City Southern passare sui binari e sognare le grandi città) scritta da Gene Clark · pubblicata inizialmente con Doug Dillard nel ’69 · splendidi gli intarsi e il solo di Kaukonen. Una delle gemme più brillanti di questo primo volume è a mio modesto avviso il canto di emigrazione verso la Terra Promessa di Ryland Cooder “Across the Borderline(“Here’s a lesson you must learn / You could lose more the you ever hope to find”). Da segnalare inoltre due brani del misconosciuto songwriter almeno in Italia Spencer Bohren di Casper, Wy. (1950 · 2019), “Travelin’” e “The Old Homestead” e la ballad “Someone’s Calling” di John Hurlbut.

La versione in compact disc, che contiene i due volumi, è arricchita da otto brani inediti registrati dal vivo il 1 maggio 2021 al medesimo FPR nell’ambito dei “Quarantine Concerts”, serie “da remoto” iniziata il 4 aprile del ’20.

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Released on the occasion of a Record Day Store, “The River Flows” is the first of two albums recorded during the lock down by John Hurlbut and Jorma Kaukonen and co-produced by Vanessa Kaukonen at the Fur Peace Ranch founded by the American guitarist several years ago .

John Hurlbut, as well as a fine fingerpicker, has a sweet, exciting, lilting, almost whispered voice, ideal for interpreting this repertoire of “standards” and pieces by little-known authors in the company of an old friend, Jorma Kaukonen who he puts all his boundless class and experience at the service of his counterpart, so to speak: he accompanies, never overpowers Hurlbut but indulges him, duets, respects him and however you listen to this beautiful music his guitar is always present, discreet but present. You can breathe and feel an intimate, friendly atmosphere and the setlist consequently acquires a particular flavor compared to the originals, some very famous, others forgotten, others unknown.

Remarkable, I would even say sumptuous, is the re · reading of Roger McGuinn’s song “Ballad of Easy Rider” which develops over ten minutes with a very long dialogue between the guitars before the singing part, a relaxed atmosphere in “Kansas City Southern” (to watch the Kansas City Southern pass on the tracks and dream of big cities) written by Gene Clark · initially published with Doug Dillard in ’69 · splendid inlays and Kaukonen’s solo. One of the brightest gems of this first volume is in my humble opinion Ryland Cooder’s emigration song towards the Promised Land “Across the Borderline” (“Here’s a lesson you must learn / You could lose more the you ever hope to find“). Also worth mentioning are two songs by the unknown songwriter at least in Italy Spencer Bohren from Casper, Wy. (1950 · 2019), “Travelin‘” and “The Old Homestead” and the ballad “Someone’s Calling” by John Hurlbut.

The compact disc version, which contains the two volumes, is enriched by eight unreleased songs recorded live on May 1, 2021 at the same FPR as part of the “Quarantine Concerts”, a “remote live series” that started on April 4, ’20.

MAKÁM ÉS KOLINDA “Szélcsend után”

MAKÁM ÉS KOLINDA “Szélcsend után”

MAKÁM ÉS KOLINDA “Szélcsend után”

Hungaroton Records. LP, 1984

di alessandro nobis

Registrato e pubblicato in Olanda nel 1982 dalla Stoof Records e successivamente dall’Hungaroton nel 1984, “Szélcsend után” è il primo degli album registrati (a questo seguirà “Utón”) dalla connection tra i gruppi ungheresi Kolinda (autori di tre splendidi dischi per la francese Hexagone) ed i Makam. In realtà qui dei Kolinda originali è presente solamente Peter Dabasi (mandoloncello, kaval, voce) mentre la line · up dei Makam comprende Peter Köszegi (contrabbasso), Eszter Matolcsy (violino, viola, kalimba, percussioni) Zoltán Krulik (chitarra, voce), Szabolcs Szőke (gadulka) e Endre Juhász (oboe). Disco notevole e molto interessante questo “Szélcsend után”, piuttosto lontano dall’ortodossia tradizionale che caratterizzava il prezioso catalogo dell’Hungaroton e segnato da per lo più composizioni originali composte da Zoltán Krulik, Peter Dabasi  e lo straordinario suonatore di gadulka Szabolcs Szőke. E’ musica che ancora si presenta molto interessante e fresca, va contestualizzata ai tempi della registrazione dove la rara, innovativa e raffinata combinazione di suoni etnici (i flauti pastorali, la gadulka, la kalimba e le percussioni) è al servizio degli spartiti e del talento dei musicisti tutti con una preparazione di primissimo livello, tant’è che il Makam Együttes è tutt’ora in piena attività ed ha da poche settimane celebrato con un concerto il quarantesimo anniversario; nel tempo ci sono stati numerosi avvicendamenti dei musicisti ma al centro restano più che mai le composizioni di quello che può essere considerato il perno centrale dell’ensemble, Zoltán Krulik.

Le voci, la chitarra e l’oboe di Töredek che aprono il disco, gli armonici della dodici corde con il violino che lanciano il brano eponimo, l’oboe di Endre Juhász (protagonista della sua “Mese” che chiude la prima facciata) con il mandoloncello conferiscono alla musica del gruppo un suono decisamente unico, con lo sguardo volto a oriente ed alle musiche “colta e popolare” ungherese (“Szélcsend után” prosegue con “Két Népdal“, due canti popolari arrangiati da Dabasi). Come nella balcanica “Tràk Dallam” arrangiata e suonata da Szőke, splendido esempio di come la musica popolare possa essere riletta con un idioma musicale diverso.

Disco bellissimo che a molti me compreso ha aperto un mondo musicale sconosciuto. Avere poi ospitato i Makam a Verona per tre volte a distanza di anni ci ha permesso di vedere la loro evoluzione oltre ad essere stato un onore conoscerli.

ARMAROLI · MAIER “Figure(s) a due”

ARMAROLI · MAIER “Figure(s) a due”

ARMAROLI · MAIER “Figure(s) a due”

Dodicilune Dischi. CD, 2024

di alessandro nobis

Questo “Figure(s) a due” è (anche) un doveroso omaggio al grande vibrafonista Walter Roland Dickerson scomparso nel 2008, uno dei musicisti più dimenticati dagli appassionati e jazzofili ma non da Sergio Armaroli per il quale la sua musica rappresenta un riferimento. Il vibrafonista lo fa in compagnia di un altro gran musicista, il contrabbassista Giovanni Maier, compagno di viaggio complementare al vibrafonista sempre in grado di partecipare in modo creativo alla creazione delle “Figure(s)” lasciando con il suo strumento un segno davvero tangibile. Questo lavoro pubblicato dalla Dodicilune è quindi un viaggio in tredici tappe nell’idioma della creazione musicale spontanea fatta eccezione per la significativa rilettura · aperta dal contrabbasso · di uno degli “spartiti” di John Coltrane ovvero “India” che chiude anche il disco. Coltrane, perchè credo che le sue composizioni siano, lo dico da semplice fruitore, tra quelle che consentono ed anche invitano ad una maggiore libertà esecutiva i musicisti che le affrontano.

I primi dodici brani nascono da brevissimi temi il cui stesso concetto consente massima libertà ai due musicisti di sviluppare e di creare la musica in modo istantaneo, creativo e visto che stiamo parlando dell’idioma improvvisativo, anche irripetibili. Certamente non è musica di facilissima fruizione ma ascolto dopo ascolto si riesce ad entrare nella sua struttura e di apprezzare le sue sfumature, come ad esempio in “Figura #2” o nella “Figura #5” ma il discorso va allargato a tutto il disco. Intreccio continuo di suoni, comunanza di idee, stima reciproca per un lavoro che è stato pubblicato assieme a “Figure(s) a tre“, Maier e Armaroli con Francesca Gemmo, ed a “Stringsland” della stessa pianista in duo con il contrabbassista. Un trittico targato “Dodicilune” importante che molto modestamente consiglio. A tutti.

WORLD VIBES · IDENTITA’ SONORE “6 aprile · 7 giugno, Trento”

WORLD VIBES · IDENTITA’ SONORE “6 aprile · 7 giugno, Trento”

WORLD VIBES · IDENTITA’ SONORE 2024 “6 aprile · 7 giugno 2024, Trento”

di alessandro nobis

Incontri con protagonisti della musica acustica etnica e contemporanea” è il sottotitolo, una dichiarazione di intenti vera e propria in cinque puntate che gli organizzatori, “Abies Alba, Musica e tradizioni” da poco Circolo ARCI del Trentino in collaborazione con il Centro Musica Trento e Teatro Spazio 14 con l’autorevole direzione artistica di Mauro Odorizzi dichiarano di offrire al pubblico in quel di Trento a partire da questa sera con l’atteso concerto d’apertura di Ettore Castagna. Per chi segue la musica tradizionale in tutte le sue sfaccettature può tranquillamente considerare “World Vibes” come il naturale proseguimento di “Itinerari Folk“, prestigiosa e longeva rassegna estiva che per oltre trent’anni ha deliziato i palati più fini negli spazi trentini ancor più se si considera che l’anima di quella rassegna, Mauro Odorizzi, ha portato la sua lunga esperienza di cultore e di musicista · uno dei fondatori degli Abies Alba, importante ensemble di ricerca e di riproposizione della tradizione musicale trentina · in questa nuova esperienza “primaverile”. I paletti culturali sono fortunatamente sono sempre quelli all’interno dei quali sino sono mosse nel tempo rassegne simili a questa di Trento, ovvero confronto di identità culturali, passione per questi territori musicali e rispetto dei valori universali che nonostante molteplici sfaccettature accomunano le “Culture” di ogni comunità antropologica.

Cinque appuntamenti interessanti e imperdibili per gli appassionati e che offrono anche al pubblico più generico l’occasione di avvicinarsi ad alcune culture tradizionali in spazi chiusi (il “Teatro Spazio 14” e il “Centro Musica Trento” nel capoluogo e “Casa della Comunità Mondrone” nella frazione di Preore nel Comune di Tre Ville non lontano da Tione) con ingresso libero però su prenotazione dei posti, che sono 100 (www.abiesalba.it/wv2024); si inizia stasera con la lira calabra di Ettore Castagna, ricercatore e musicista che dai tempi dei leggendari Re Niliu con eccellenti risultati studiava rivisitando il prezioso scrigno della cultura popolare calabrese. Si prosegue giovedi 25 aprile con la performance del chitarrista Franco Morone la cui musica si muove nei territori del folklore celtico e di quello italiano, del blues e del jazz, generi che grazie al suo personale gusto ed alla straordinaria tecnica riesce ad impreziosire e a presentare in modo omogeneo e assolutamente originale. Con i seguenti due appuntamenti si va ad esplorare la musica popolare greca · il Rebétiko in particolare · che viene proposta da Takis Kunelis, studioso e interprete di questo repertorio lontano dalla musica “greca” da cartolina ma significativo nella sua storia · nasce nei quartieri di Costantinopoli e di Atene · testimoniata da registrazioni risalenti agli anni venti e riportato in auge negli anni settanta grazie anche a musicisti come Kunelis residente in Italia da molti anni e considerato uno dei più importanti ambasciatori di questo struggente genere che per i suoi contenuti viene da molti equiparato al blues d’oltreoceano, mentre il secondo, quello del 26 maggio, è dedicato alle musiche popolari dei Paesi Baschi. La serata, al “Centro Musica Trento” sarà suddivisa in due set, il primo avrà come protagonista il raffinato chitarrista, compositore e ricercatore di Bilbao Balen Lopez De Munain ed il secondo la cantautrice Elisa Maitea Olaizola Elosua (a.k.a. Maitea) per un viaggio nella millenaria cultura di Euskadi, temi a danza della tradizione popolare e canzoni originali ispirate dalla storia e cultura di questo antichissimo popolo. Per la conclusione di “World Vibes” ci si trasferisce nei pressi di Tione, nelle Valli Giudicarie, ambientazione perfetta per la proposta dell’ensemble “Abies Alba” che da trent’anni, ovvero dal 1994, ricerca e propone i repertori della tradizione trentina, fatti rinascere da un’attenta ricerca di testi, arie e suoni nei ricchi archivi e con il contatto con i portatori della tradizione: un gruppo davvero storico per il folk revival “regionalistico” italiano.

Come detto, i posti sono limitati, quindi consiglio vivamente la prenotazione.

IL PROGRAMMA:

sabato 6 aprile h 20:30 “Dalle tradizioni ionie al teatro canzone“: ETTORE CASTAGNA. Teatro Spazio 14, Via Vannetti 14, TRENTO

giovedì 25 aprile h 20:30 “Maestri della chitarra acustica“: FRANCO MORONE Teatro Spazio 14, Via Vannetti 14, TRENTO

domenica 12 maggio h 20:30 “Alla scoperta del Rebètiko, il blues della tradizione greca“: TAKIS KUNELIS Centro Musica Trento, Via Malpensada 136, Trento

domenica 26 maggio h 20:30 “Incontri con le proprie radici: la tradizione dei Paesi Baschi“: MAITEA & BALEN LOPEZ DE MUNAIN Centro Musica Trento, Via Malpensada 136, Trento

venerdì 7 giugno h 20:30 “Suoni di un territorio alpino di passaggio “: ABIES ALBA Casa Mondrone, frazione di Preore, Via Filippo Serafini, Tre Ville (Tn)

CHARLIE LENNON “Deora an deorai / The Emigrant Suite”

CHARLIE LENNON “Deora an deorai / The Emigrant Suite”

CHARLIE LENNON “Deora an deorai / The Emigrant Suite”

Gael – Inn Records. Lp, 1985

di alessandro nobis

Charlie Lennon di Killyclogher nella Contea di Leitrim è uno dei più influenti compositori e violinisti (ma è anche un pianista) nell’ambito della musica folk irlandese. Inizialmente pianista, Lennon impara in modo autonomo il violino ascoltando i 78 giri di musica irlandese per poi diventare insegnante e divulgatore e il suo grande e profondo interesse verso la composizione nell’idioma popolare è stato fondamentale nella crescita e rinnovamento di questa grande tradizione musicale che nei decenni si è sviluppato nelle nuove generazioni e possiamo tranquillamente affermare che Charlie Lennon è parte integrante di questa. Per questo “Deora an deorai / The Emigrant Suite” pubblicato dalla benemerita Gael Inn nel 1985 Lennon si è avvalso di un combo di musicisti eccezionali: Frankie Gavin (violino, flauto, viola), del piper Liam Og O’Flynn, di Sile Ni Fhlaithearta (cantante nello stile Sean · Nos e moglie di Lennon) e del chitarrista Pat O’Connell. Lennon dedica questa Suite agli emigranti irlandesi, a quanti hanno avuto la necessità di lasciare l’area di Leitrim per cercare fortuna oltreoceano descrivendo i loro sentimenti di solitudine, dolore e distacco dagli affetti e dalla propria terra. “The Emigrant Suite” si compone di brani originale e della tradizione perfetamnte incastonati uno nell’altro: apre la prima facciata un’overture nella quale sono riconoscibile alcune melodie che ritroveremo all’ascolto come “The Parting” che chiude l’album, con le pipes di Liam O’Flynn a sottolineare alla perfezione il senso di tristezza che accompagna gli emigranti al momento della partenza. Due i brani, tra le tracce più interessanti,  eseguiti nello stile “Sean · Nos” ovvero “Bridin Bréasach” e “Dónal Og” quest’ultimo una canto tradizionale presente nella raccolta Roud al numero # 3379 con il bordone delle pipes ad accompagnare la voce diSile Ni Fhlaithearta. Magnifici i set di reels appartenenti alla tradizione “Early Breakfast · Colonel Frazer” e “The Maid Behind the Bar · the Maid Behind the Barrel” con i violini ed il pianoforte, e non da meno è il jig tradizionale “The Luckpenny Jig” resa immortale dalla sua presenza nell’opera di Francis O’Neill “Music of Ireland”.

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Charlie Lennon from Killyclogher, Co. Leitrim is one of the most influential composers and violinists (but he is also a pianist) in Irish folk music. Initially a pianist, Lennon learned the violin independently by listening to 78 rpm records of Irish music and then became a teacher and popularizer and his great and profound interest in composing in the popular idiom was fundamental in the growth and renewal of this great musical tradition which over the decades it has developed in the new generations and we can safely say that Charlie Lennon is an integral part of this. For this “Deora an deorai / The Emigrant Suite” published by the meritorious Gael Inn in 1985 Lennon made use of a combo of exceptional musicians: Frankie Gavin (violin, flute, viola), piper Liam Og O’Flynn, Sile Ni Fhlaithearta (singer in the Sean · Nos style and wife of Lennon) and guitarist Pat O’Connell. Lennon dedicates this Suite to the Irish emigrants, to those who had the need to leave the Leitrim area to seek their fortune overseas, describing their feelings of loneliness, pain and detachment from their loved ones and their homeland. “The Emigrant Suite” is made up of original and traditional songs perfectly set into each other: the first side opens with an overture in which some melodies are recognisable, which we will find again when listening like “The Parting” which closes the album, with Liam O’Flynn’s pipes perfectly underline the sense of sadness that accompanies the emigrants at the moment of departure. Two songs, among the most interesting tracks, performed in the “Sean · Nos” style, namely “Bridin Bréasach” and “Dónal Og“, the latter a traditional song present in the Roud collection at number # 3379 with the drone of the pipes to accompany the voice of Sile Ni Fhlaithearta. The sets of reels belonging to the tradition “Early Breakfast · Colonel Frazer” and “The Maid Behind the Bar · the Maid Behind the Barrel” with violins and piano are magnificent, and not least is the traditional jig “The Luckpenny Jig” immortalized by its presence in Francis O’Neill’s work “Music of Ireland”.

VERONA, MAGGIO 1918 ” Le autocromie veronesi di Fernand Cuville · 2/2″

VERONA, MAGGIO 1918 ” Le autocromie veronesi di Fernand Cuville · 2/2″

VERONA, MAGGIO 1918 ” Le autocromie veronesi di Ferdinand Cuville · 2/2″

di alessandro nobis

Fernand Cuville dedica tra il 3 ed il 16 maggio 1918 una settantina di autocromie alla città di Verona, ad alcuni dei suoi luoghi storici (l’anfiteatro areniano, le rovine del Teatro Romano, il Ponte Scaligero, la Porta dei Borsari, Piazza della Brà, la Piazza dei Signori, le Basiliche del Duomo, di Santa Anastasia e di San Zeno tra gli altri), alle vie del centro storico vicino alle classiche vedute del fiume Adige (con mulino, uno degli ultimi) ed anche ad alcuni interni di palazzi storici e chiese (splendida quella che ritrae il “gobbo” di Sant’Anastasia, ovvero l’acquasantiera) mentre in provincia il fotografo francese rivolge la sua attenzione ai centri di Garda e di Torri del Benaco, alla chiusa di Ceraino vista da sud, al paesino di Rivoli veronese e naturalmente al monumento che ricorda la vittoria dell’armata napoleonica d’Italia francese nella battaglia Rivoli Veronese del gennaio 1817 contro l’armata imperiale austriaca.

Le immagini più toccanti sono senza alcuna ombra di dubbio · al di là del valore documentale e storico delle vedute che ho cercato di descrivere · i ritratti, (altri davvero significativi ne scattò anche nel vicentino) che raffigurano militari italiani e francesi oltre che di civili adulti e di bambini, tutti naturalmente “in posa” visti i lunghi tempi di esposizione richiesti.

Due parole infine sulle autocromie, procedimento fotografico in auge dal 1907· quando fu brevettato dalla società fondata dai Fratelli Lumiere (“Société Anonyme des Plaques et Papières photographiques A. Lumière et ses Fils”) · agli anni trenta quando venne soppiantato dai più moderni, meno costosi e più semplici procedimenti brevettati prima dalla Kodachrome, nel 1935 e dall’Agfa quattro anni più tardi. Le autocromie prevedevano l’uso di lastre di vetro ricoperte da una gelatina di bromuro d’argento con un filtro a mosaico composto di fecola di patata a granelli e colorati nei colori primari. La lastra andava poi sviluppata e si osservava proiettandola o più semplicemente controluce.

Fernand Cuville fu solamente uno dei fotografi che scattarono immagini di Verona tra Ottocento e prima metà del Novecento: cito solamente Mauritz Lotze, Florence Craig Albrecht o Frantisek Kratky (cfr. “L’Italia a colori” Edizioni Alba Pratalia, 2010),  e il veronese Angelo Dall’Oca Bianca.

L’archivio fotografico che consta come detto di 72.000 autocromie è gestito dal 1990 dal Musée Albert-Kahn, che ha caricato online la maggior parte delle immagini in regime di pubblico dominio.

La prima parte la potete leggere qui: https://ildiapasonblog.wordpress.com/2024/03/23/verona-maggio-1918-le-autocromie-veronesi-di-ferdinand-cuville/

VERONA, MAGGIO 1918 ” Le autocromie veronesi di Fernand Cuville” · 1/2

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VERONA, MAGGIO 1918 ” Le autocromie veronesi di Fernand Cuville · 1 / 2″

di alessandro nobis

Nella prima metà del maggio 1918 alcuni reparti delle truppe francesi erano di stanza a Verona e tra questi vi era una “sezione fotografica” che aveva il compito di documentare il fronte e le retrovie del fronte italiano: di uno di questi reparti faceva parte il fotografo Fernand Cuville, classe 1887 che prestò servizio nell’esercito d’oltralpe dal 1914 al 1918. La sua missione era non solo scattare immagini per conto dell’esercito, ma anche · e forse soprattutto · quella di scattarle per conto del mecenate e banchiere Albert Kahn (1860 · 1940) che dal 1909 aveva avviato il monumentale progetto “Archives de la Planete“, che a suo dire doveva essere “l’inventario della superficie del globo così come all’inizio del XX° secolo viene abitato e sviluppato dall’uomo” avvalendosi della collaborazione di Léon Busy, Paul Castelnau, Roger Dumas, Alfred Dutertre, Lucien Le Saint, Auguste Léon, Marguerite Mespoulet, Stéphane Passet e Camille Sauvageot oltre naturalmente a Fernand Cuville. Un progetto dunque molto, molto ambizioso ma che nonostante l’iniziale notevolissima disponibilità economica non potè essere concluso venendo interrotto nel 1931 a causa della crisi finanziaria del ’29 (Kahn ricordo era un banchiere); l’idea di Kahn per la sua l’imponenza e il suo mancato completamento non può non ricordare quella del fotografo americano contemporaneo a Kahn Edward Sheriff Curtis (1868 · 1952) che con il suo “The North American Indians of the United States and Alaska” avrebbe dovuto documentare attraverso immagini le centinaia di gruppi etnici dei Nativi Americani.

Ad esaminare il patrimonio del Musèe Kahn credo primo tra gli studiosi italiani fu il Professor Giuseppe Sandrini del Dipartimento Culture e Civiltà dell’Università di Verona che così nel 2010 scrisse: “Durante un soggiorno di studio a Parigi nell’autunno del 2010, in qualità di Visiting Scholar presso l’Université Sorbonne – Paris IV, ho avuto modo di conoscere la straordinaria collezione del Musée Albert Kahn di Boulogne-Billancourt. Si tratta di un patrimonio visivo pressoché sconosciuto da noi, che unisce l’interesse storico di testimonianza sulla Grande Guerra alla freschezza coloristica delle immagini, una documentazione fotografica a colori basata sull’autocromia, il procedimento brevettato dai fratelli Lumière – gli inventori del cinematografo – nel 1907. Il museo conserva 72mila «plaques autochromes» (diapositive di grande formato, dai colori pastello che ricordano gli effetti di luce della pittura impressionista) con un’ampia sezione dedicata all’Italia e in particolare al Veneto. Si tratta, per quanto riguarda la nostra regione, di oltre 300 immagini in massima parte inedite, che riguardano Verona, il Lago di Garda, Rivoli, Vicenza, Bassano del Grappa, Asolo, Castelfranco, Venezia; una piccola parte delle autocromie di Venezia risale al 1912 ed è opera di Auguste Léon.”

Fine della Prima Parte.